di Mauro Baldrati
L’UOMO CHE VENNE DALLA TERRA (2007 Prime video). Si tratta di un’opera teatrale. E’ interamente girato in una stanza, ed è composto quasi unicamente da dialoghi. Una premessa problematica. Ci vuole il fisico per gestire un’opera siffatta. Bene, regista e sceneggiatori lo possiedono. La sceneggiatura è perfetta, e i dialoghi sono condotti magistralmente. E’ persino avvincente. Lo screenplay viene da lontano: fu scritto negli anni Sessanta da Jerome Bixby, e completato una trentina di anni dopo dallo stesso Bixby ormai sul letto di morte.
Anche il protagonista, il professor John Oldman, viene da lontano. Un giorno riunisce un gruppo di amici, tutti intellettuali accademici come lui, per comunicare loro che sta per traslocare, dopo avere lasciato la cattedra. Non rivela la destinazione. Ma il motivo sì. Infatti cede alle insistenze degli amici: Perché te ne vai? Dopo la dovuta serie di battute futili, li stupisce con la domanda: E se supponessimo che un uomo dal Paleolitico Superiore fosse sopravvissuto fino ai giorni nostri? Quell’uomo è lui. Ogni dieci anni è costretto a lasciare l’ambiente in cui vive, perché non invecchia, a differenza di tutti, per cui sorgono dubbi e sospetti. Parte una sequenza di scherzi, di prese in giro, che lentamente, ma inesorabilmente, transita nello stupore, poi nell’inquietudine, e nel dubbio. Oldman è maledettamente convincente. Ha una risposta precisa su tutto, le sue sono risposte esatte, verificate dagli esperti presenti, tra cui un archeologo. E’ stato un uomo primitivo, un sumero, un discepolo di Buddha, un amico di Van Gogh; ha vissuto il tempo biblico delle origini della civiltà, ha conosciuto la Roma imperiale, e stava per salpare con Cristoforo Colombo. Ma non solo. Rivela cose che scatenano l’ira di un’amica, cattolica fervente. Ma come si permette di affermare che è stato crocifisso quando era Gesù Cristo? Come può essere così blasfemo? Mentre i presenti sono confusi, sbalorditi ma anche spaventati dalla verosimiglianza delle sue affermazioni, uno psichiatra sbotta che è semplicemente pazzo, e se continua con quella tragica farsa lo denuncerà richiedendone l’internamento. Oldman capisce che è arrivato il momento di chiudere. Forse per calmare l’ambiente, forse per togliersi d’impaccio, confessa che sì, aveva scherzato, e ora li saluta per sempre. Ma una volta fuori, mentre sta salutando Sandy, che è innamorata di lui e soffre perché deve lasciarla, rivela uno degli pseudonimi che ha usato negli ultimi tempi; lo psichiatra sente quel nome, e rimane turbato. Non avrebbe potuto conoscerlo se il suo racconto non fosse veritiero. Una rivelazione così sconvolgente che gli viene un infarto. Infine l’antico eroe immortale se ne va verso l’ignoto. Con Sandy.
LO STRANIERO DELLA VALLE OSCURA (2014, Prime video). Un altro eroe tragico che se ne va. E’ un western austriaco, ma non si tratta di un film girato da austriaci in America, tipo spaghetti western in salsa tedesca; è il genere che viene importato in una valle sperduta tra le montagne austriache, nel XIX secolo, più o meno il periodo della frontiera. In un piccolo villaggio isolato dal mondo, dominato da una famiglia di mostri (non in senso morfologico, sono esseri umani dall’animo mostruoso), arriva uno straniero. E’ un tipo misterioso, interpretato da un ottimo attore (Sam Riley, l’abbiamo già visto nei panni di Ian Curtis in Control). Viene accolto malissimo, dai dimessi, ostili abitanti schierati sul vialetto fangoso. Vattene, gli viene intimato dai disgustosi personaggi che tengono il villaggio in una tirannia terrorizzante. Sono i figli del vecchio, depravato patriarca, che decide le sorti di tutti, anche negli aspetti più intimi. Per sposarsi, una coppia deve avere la sua benedizione, e i figli esercitano anche il diritto di jus primae noctis, da lui stesso preteso per decenni. Ma lo straniero non se ne va. Perché ha qualcosa da fare, una missione da compiere. Lo capiamo non appena lo guardiamo in faccia. Ha soldi, getta al maggiore dei fratelli un sacchetto pieno di monete d’oro, per cui lo indirizzano nell’unica “locanda”, una stamberga gestita da una coppia di orripilanti personaggi, brutti, volgari e aggressivi. La vicenda prosegue cupa, con scene di efferata violenza, di indicibile sopraffazione, mentre i guai iniziano a perseguitare i diabolici fratelli. Ne muore uno, trovato sfigurato tra i tronchi, poi un altro, accecato da chiodi piantati negli occhi. Noi sappiamo chi è il responsabile, anche se non sappiamo perché. Ma lo scopriremo presto. E’ la guerra. E’ la vendetta, inesorabile e dovuta. In alcune scene ricorda il capolavoro western di Clint Eastwood Gli spietati. L’omaggio al genere è anche nelle armi: i fratelli mostri hanno antiquate doppiette da caccia, mentre il nostro eroe tira fuori da un involto un winchester nuovo fiammante. Infatti apprendiamo che è appena tornato dall’America, la patria del western. Seguiamo i personaggi nella loro avanzata di morte e distruzione, senza un sorriso, senza un briciolo di pietà, fino all’epilogo, che riesce a essere sorprendente.
QUELLA NOTTE A MIAMI (2020 Prime video). E’ un film storico. Storia moderna. America, 1964. Malcom X, il leader dei diritti civili degli afroamericani, alternativo al pacifista Martin Luther King, sta per lasciare la fratellanza dei Black Muslims, il movimento militante islamico retto con pugno di ferro da Elijah Muhammad. Chi ha letto l’Autobiografia conosce i motivi: non si trattava di questioni esclusivamente religiose o politiche, ma di una delusione devastante. Oltre alla guerra senza quartiere contro i bianchi, il leader Muhammad predicava la vita morigerata, lontana dal peccato, la castità fuori dal matrimonio, l’onestà, il rigore. Malcom X invece scopre che l’uomo agisce in senso opposto: ha una tresca con diverse ragazze del movimento e ha pure alcuni figli illegittimi. Lui, integro fino al fanatismo, si scontra con la smorfia della menzogna e della disonestà. Per cui progetta di staccarsi per fondare un movimento suo. A questo proposito si trova con tre amici in un motel, per i quali lui è una figura di riferimento, per la battaglia dei diritti e della religione islamica: fratello Cassius Clay, che ha appena abbattuto il temibile Sonny Liston diventando campione del mondo dei pesi massimi; fratello Sam Cooke, star mondiale del soul e del gospel; fratello Jim Brown, il più forte dei giocatori di football. Sono tutti fratelli, anche le due guardie del corpo che lo seguono ovunque. Qui si accende un dibattito, a tratti uno scontro, tra Malcom e Sam. Gli altri due sono comprimari: Clay gigione, guascone, che grida la sua verità (che è LA verità): sono il più grande! Sono il re del mondo! Jimmy il più trascurato. Non è dato sapere se questa divisione dei compiti tra i personaggi, questo spazio non egualitario, sia dovuto a una scelta precisa o a una incapacità di gestire la narrazione corale; in ogni caso funziona, questo conta. Malcom imputa a Sam il suo asservimento allo show business dei bianchi, lo accusa di essere “una scimmia” (è la stessa accusa che Jimi Hendrix ricevette da un esponente dei Black Panther inglesi che insisteva per farlo entrare nel movimento in maniera attiva) . Sam ribatte che, da negro, ha scalato le loro classifiche, ha venduto montagne di dischi, è questo il suo riscatto. Poi Malcom rivela il suo progetto, e chiede soprattutto a Clay, che è già entrato nel mito, di seguirlo. Clay si offende, lo accusa di averlo usato. Sappiamo come finirà: Sam Cooke morirà quello stesso anno in circostanze mai chiarite, ucciso dalla direttrice di un motel; Malcom sarà espulso dalla Nation of Islam, accusato di tradimento, Clay gli toglierà il saluto, e l’anno dopo verrà assassinato da tre killer Black Muslim con la probabile complicità del FBI.