di Franco Pezzini
Paolo Lago, La rosa di Pola, Transeuropa, Massa 2019, pp. 51, euro 15.
Accompagnami sulla vecchia strada in salita
fra i pittori silenti e perduti,
folli di verde e di giallo per gli occhi dei turisti
ed è una lenta salita
verso un tramonto-braciere
e quel pittore ebreo sefardita
dal nome italiano,
lui veramente perduto
in un tempo lontano,
amava salire fino al tramonto e al braciere,
fino alla chiesa di Santa Eufemia […].
La ricordo abbastanza bene, la costa istriana di fine anni Sessanta con le piazzette similveneziane marcate da bifore, l’ambigua pax titina e le zone A e B. Da Trieste dove un lavoro di mio padre ci aveva portato, varcavamo ogni tanto il confine per visitare luoghi belli (Postumia con le grotte, Lipizza coi cavalli e poi Capodistria, Portorose, Parenzo, Rovigno…) e comprare alimentari a prezzi molto economici: dalla carne (tranci che comprendevano di tutto, e mia madre doveva poi ingegnarsi a distinguere le parti per poterle cucinare) a una cioccolata postasburgica magari con le uvette. Una zona immersa in una tranquillità turistica nel complesso ruspante, tutto era molto semplice (difficile un paragone con l’oggi, soprattutto in rapporto alla costa); ed è possibile trovare su YouTube documentari di quella Iugoslavia remotissima, che per me si confonde con i volti antichi degli sceneggiati epici di Franco Rossi e i ricordi di una fase di vita familiare un tantino mitteleuropea. Tutto ciò non in chiave di semplice amarcord, ma di emozioni al trovarmi davanti un recente volumetto di liriche di Paolo Lago, La rosa di Pola.
Esistono molti modi di viaggiare, e molti sensi schiusi dall’idea del viaggio – a partire da una metafora sulla vita e sul transito tra condizioni interiori. Come appunto nel diversificato ventaglio di scenari toccati da questa specie di travelogue poetico sugli itinerari dell’autore (estate 2019) tra la costa istriana, Stoccolma e il Trentino. Poesia odeporica, di viaggio ma appunto nell’ampiezza variegata del concetto, dove elemento unificante e filo rosso è il profilo di un’ideale interlocutrice, apparsa nei Balcani e che accompagnerà fino alla fine: una figura archetipica di fughe tra dimensioni diverse – una vampira. Con una citazione d’incipit profondamente letteraria, da Il vampiro di Baudelaire: “Tu che, come una coltellata, / sei entrata nel mio cuore piangente…”. Con linguaggio lirico e fiabesco sono dunque in questione le nostre malinconie e i nostri sbandi, e il vampiro è quello saturnino della letteratura, tra nostalgie e ferite profonde che non riescono a rimarginarsi, o quando lo fanno lasciano intravedere che qualcosa è rimasto mozzato, è rimasto tra le ombre.
Ma allo stesso tempo la vampira citata è quella del folklore, creatura intermedia come intermedio tra culture diverse è il mondo dove germina e la stessa dimensione incerta cui appartiene. Non è un caso che il primo vampiro “classico”, cioè coi connotati poi recuperati da tutta una vulgata, non appartenga affatto a remote Transilvanie, ma alla ben più vicina Istria, quel tale Giure Grando di Coriddigo (Krinck o Khring) che nel 1672 seminerebbe panico e morte nella propria comunità, guadagnandosi spazio nella memoria Die Ehre des Herzogthums Krain del Valvasor (Laybach, 1689) – e del resto su tradizioni vampiriche slovene e croate esiste una ricca documentazione. Non un aristocratico, si badi, ma un contadino, il povero Grando: e anche la vampira della raccolta di Lago viene da questa tradizione popolare, ispirata da una venditrice di rose di Pola. Come spiega l’autore, è “una ragazza alta vestita di scuro che girava con un cesto di rose la sera nelle strade e nei locali. Me la sono immaginata discendere dai Balcani, per offrire consolazione e tormento a marinai perduti nella notte in città, che poi sarebbero risaliti sulle loro navi per riprendere il viaggio”. In questo senso, la scena della venditrice tra vicoli e piazzette similveneziane non è forse troppo lontana da quelle che posso ricordare con lo sguardo a mezzo secolo fa, a dispetto del maggior turismo odierno e della memoria calda di esodi e frantumazioni comunitarie dopo la guerra iugoslava:
Malandrina come la notte
lei passò nella piazza
ed era una farfalla di rose
che stringevano addii
per i migranti lontani
e per i nostri occhi feriti
dal sale del mare,
dal profumo dei porti…
Una “fanciulla di fiaba” dallo “sguardo di ardente tristezza” che è insieme “carezza e ferita”, a cui chiedere che ci accompagni per le vie del borgo e magari “fino a un paese di pietra” nell’entroterra (Valle, con il suo castello vampiresco): sapendo che, sì, inchioderà il nostro cuore sulle torri e tuttavia avremo angoscia di perderla. Perché l’io narrante si rivela a sua volta un viaggiatore perduto, come tante volte ci sentiamo noi in un altro tipo di viaggio: e non a caso l’itinerario parte in quei Balcani di vertiginose compenetrazioni e di continui esili di cui la maschera del vampiro risulta emblematica. A richiamare infiniti altri nostri strappi tra incontri e perdite, in dedali di vie & vite attorcigliate tra i mondi diversi della nostra esistenza: dove spesso la sensazione è di trovarci il cuore inchiodato su qualche vecchio muro – e siamo stanchi di veder salpare presenze importanti, per i più vari motivi di addio. In fondo ciascuno di noi potrebbe attribuire a quella fatale venditrice di rose un volto specifico, a quell’angoscia di perderla – nonostante il dolore, nonostante tutto – un senso particolare.
Dall’Istria – tra Rovigno cui sono dedicati i versi all’inizio di questo articolo (La rosa di Pola), la costa e Valle nell’entroterra – il diario poetico punta in vertiginosa virata verso Stoccolma (La fortezza del Nord) tra la casa di Strindberg, alcuni musei (Vasamuseet, Nationalmuseum, Moderna museet), la città vecchia Gamla Stan, il quartiere-isola Södermalm coi loro fantasmi: siamo molto lontani dall’Istria, ma la “fanciulla vampira” resta attesa anche lì “in periferie senza nome”, in un gelo che è anche dimensione interiore personalissima (“Il tuo bacio di sangue / è una luna di neve, / un abbraccio di ghiaccio soltanto per me, / una lieve ferita che aspetto da sempre”), presente nel “morso di luce” e insieme disperatamente rimpianta.
Mi porterai, vampira del Nord,
alla fortezza nascosta,
all’inverno spalancato al mio canto,
alla danza su campanili di neve,
in un viaggio mi porterai
agli spettri delle case perdute,
dei silenzi passati
e starò ad aspettare la tua voce di rosso e di giallo
e di pioggia e di neve e di pianto
e in un soffio fra i ponti ed il mare
finalmente sarà lieve il mio canto.
La conclusione dell’itinerario è a Malosco in Trentino (“Desiderio di vento”), dove al cader dell’estate la vampira segue il viaggiatore come sogno, desiderio e carezza. L’autore tesse il suo canto con felice forza visionaria, in un tessuto lirico fervente di emozioni descrittive o evocative: scorci della costa istriana, colpi d’occhio cittadini su Stoccolma, suggestioni da opere d’arte dei musei o invece percezioni sensoriali – il ghiaccio del nord, il clima preautunnale trentino – sono richiamati a tocchi vividi. Chiudendo il volumetto resta la questione: quale volto diamo alla nostra personale vampira, e a quali torri ha inchiodato il nostro cuore?