di Francisco Soriano
La recente scomparsa della scrittrice e islamologa Anna Vanzan ha creato un grande disorientamento fra i suoi lettori e quegli studiosi che guardano in profondità e senza luoghi comuni i complessi accadimenti di un Paese antico e meraviglioso come l’Iran.
Anna Vanzan è stata una personalità incredibile che si stagliava sulle alture di un intellettualismo mai fine a se stesso, in silenzio e senza celebrazioni, sedimentato sull’esperienza vissuta e maturato durante la sua vita di raffinata analista dei labirinti del magmatico Vicino Oriente. Accademica senza la protervia tipica dei sapienti stucchevoli e autoreferenziali, femminista e combattente, ci ha lasciato riferimenti culturali e valoriali indissolubili come quelli riscontrabili nelle pagine di uno dei suoi libri scritto con la collega arabista Jolanda Guardi, Che genere di Islam. Omosessuali, queer e transessuali tra shari’a e nuove interpretazioni (Ediesse, Roma, 2012). Non a caso in quest’ultima opera la sua narrazione parte sempre dai testi sacri e dalle fonti storiche e letterarie per comprendere la relazione fra Islam, omosessualità e transessualità. Ogni sua parola merita attenta lettura, nei saggi e nelle traduzioni, negli attraversamenti di una cultura, quella persiana, che inebria nell’abbandono della poesia e nella sua profonda quanto tragica evoluzione storica. Ad Anna Vanzan veniva tributato nel 2017 il premio alla carriera per l’opera traduttiva e per la diffusione della cultura persiana in Italia. Agli innumerevoli contributi nazionali e internazionali in termini di pubblicazioni in riviste specializzate e programmi radiofonici sulle questioni di genere, si ricorderanno in particolare i suoi libri divenuti celebri: Donne d’Iran tra storia, politica e cultura (edizioni Aseq IPO, 2019); Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici (B. Mondadori, Milano, 2010); Primavere rosa. Rivoluzioni e donne in Medio Oriente, Libraccio, Milano, 2013; Donna e giardino nel mondo islamico (Pontecorboli, Firenze, 2013); Figlie di Shahrazàd, scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2009; La storia velata, donne dell’islam nell’immaginario italiano (Edizioni Lavoro, Roma, 2006 – Premio Feudo di Maida 2006).
In un contributo sull’Avvenire, proprio nel febbraio di quest’anno, la studiosa sottolineava: Tra le maglie del regime patriarcale crescono il dissenso e un fronte femminista interno alla religione, favoriti dall’alto grado di istruzione che dà luogo a profonde contraddizioni. Infatti le donne iscritte nelle università iraniane costituiscono il 65% degli universitari del Paese e partecipano alla vita civile e politica con una competenza che non ha pari in nessuna nazione di quell’area. A questo dato evidente e straordinario si deve chiaramente contrapporre e ammettere quanto le iraniane vengano discriminate e vilipese, soprattutto dal diritto civile e penale che non risparmia condizioni di diseguaglianze insopportabili fondate sugli schemi della grigia austerità e dalle leggi degli ayatollah. Al lungo elenco di donne imprigionate per il loro coraggio hanno contribuito quest’anno a dar voce alla protesta le dimissioni di tre giornaliste, Gelareh Jabbari, Zahra Khatami e Saba Raad, avvenute in seguito all’abbattimento per errore dell’aereo ucraino e per le incredibili e conseguenti mistificazioni delle autorità religiose iraniane che, pur nella tragedia, hanno innalzato una coltre di ipocrisia e di bugie che hanno toccato l’inverosimile ridicolo. Vanzan sottolineava, tuttavia, quanto rispetto ad altri contesti mediorientali pur critici sul fronte dell’emancipazione femminile, le iraniane vivono in un sistema patriarcale sancito dalla stessa Costituzione, eppure hanno avuto una reazione forte, indomita, che ha saputo declinarsi in forme molteplici, dall’impegno nella società civile, all’attivismo politico fino alla ricchissima produzione artistica.
Nel disarmante paesaggio dei cosiddetti cultori appassionati e iranisti che nel nostro Paese non dedicano minimo spazio alla questione dei diritti umani violati in Iran, Anna Vanzan ha saputo parlare di questi argomenti senza clamori, senza paure, sempre rispettata da tutti, con la scientificità delle sue analisi e soprattutto con la disponibilità a interloquire con chi la pensasse in modo diverso da lei. In Iran il femminismo laico non è scomparso, sosteneva Anna Vanzan, ma si è dovuto modificare perché le risposte del patriarcato sono state molto dure. Una critica sottile e puntuale che si basava su riferimenti storici seri, mai dettati dalla istintività e da scelte di carattere personale, che ci lascia una eredità incredibile e nello stesso tempo un vuoto impossibile da colmare. Dal passato grandioso di questo immenso e irrinunciabile paese emergono le lotte di molte donne, come sottolineava la stessa Vanzan, tra cui anche alcune deluse della rivoluzione islamica del ‘79, a coloro che le volevano emarginare in nome dei Testi sacri hanno controbattuto appellandosi proprio alle fonti della religione. La studiosa precisava ancora che, nel dibattito politico sul tema delle questioni di genere, le donne iraniane che si oppongono al muro di gomma delle autorità religiose sciite rivolgono una seria obiezione: Se la legge divina è immutabile, la sua interpretazione è umana e passibile di essere riformata e cambiata. Nessuna illusione da parte di chi si aspetta cambi repentini: la strada sarà molto lunga prima che donne con una formazione di dottrina religiosa riescano ad arrivare alla stanza dei bottoni, ma è interessante notare come questo movimento si sia spostato in altre zone del mondo islamico e spesso collabori con gruppi che si ispirano a una tradizione più laica. Dunque che sia una speranza o un inesorabile processo storico, dalle parole della Vanzan si deduce che se capovolgimento ci sarà, avverrà secondo i canoni di una laicità portatrice di valori di uguaglianza e partecipazione piena alla vita civile. Questo percorso in realtà sembra già in atto, laddove si riscontra il tentativo di riformare e riformulare il diritto di famiglia, avamposto quasi inespugnabile dei conservatori e delle élites di potere religioso. La crisi inoltre si manifesta in modo sempre più allarmante perché tra i giovani c’è molta insofferenza per un’infinità di norme liberticide, forme di censura, divieti.
Anna Vanzan è stata protagonista di traduzioni uniche e di grandissimo successo editoriale. Una delle ultime in termini cronologici è La civetta cieca di Sadeq Hedayat (Edizioni Carbonio, 2020). L’incontro fra la traduttrice e il tormentato scrittore ossessionato dalla morte, Sadeq Hedayat, è il risultato di un commovente quanto inestricabile connubio di emozioni. La lingua di questo straordinario popolo degli altopiani è spazio d’incanto, metamorfosi, equilibrismo e tensione perenne fra un passato di glorie e un presente contraddittorio e caotico. Anna Vanzan ha interpretato tutto questo con conoscenze linguistiche nella traduzione e un sentimento raffinato che solo l’amore smisurato verso la Persia può offrire. Nell’introduzione curata dalla stessa traduttrice si legge: piuttosto che nella fede Hedayat si rifugia nelle idee di un celeberrimo poeta persiano, Omar Khayyam, attirato dal suo scetticismo. Sadeq fu uno scrittore sincretico, un intellettuale aristocratico che però nutriva odio verso le istituzioni religiose, fallaci e mistificatrici, si scagliava sistematicamente contro il clientelismo dei burocrati e la protervia degli shah. Nel 1936 Hedayat raggiungeva Benares, in India, e lì riscopriva un suo antico quanto necessario incontro con la filosofia buddista, invitando il mondo a guardarsi dentro, ad assecondare l’inclinazione naturale verso il vegetarismo e l’amore per gli animali. Questo scrittore paragonato a Kafka è, soprattutto, la rappresentazione di tre mondi: quello occidentale, quello persiano e quello indiano. Hedayat è un visionario, un costruttore di storie complicate e Vanzan avverte il lettore di un percorso iperbolico da compiere: un mondo di illusioni e di visioni cupe, dove la linea di demarcazione tra vita reale e sogni – o, meglio, incubi – s’appanna, rendendo il filo temporale degli eventi offuscato e superfluo. La strepitosa traduzione di Vanzan viene presto salutata dalle pagine del Sole 24 come una splendida notizia da Giorgio Fontana, che pone l’accento sull’autore raffinatissimo e ancora oggi inviso alle autorità degli ayatollah per il suo radicalismo eretico. E quanto possa essere scomodo alle autorità, Fontana lo ritrova proprio in una delle illuminanti frasi de La civetta cieca: il protagonista decide di scrivere allo scopo di farmi conoscere dall’ombra; quell’ombra che, quanto più scrivo, tanto più voracemente ingoia le mie parole. In realtà, il Kafka persiano è un originale intellettuale che traduce nei suoi scritti il forte bagaglio culturale e di valori della sua terra, lo rende tangibile in parole con uno stile metaforico, superbamente sfuggente ai più distratti e forse superficiali lettori. È questo l’esordio della Civetta Cieca: … Ci sono delle piaghe che, come la lebbra, corrodono lentamente la nostra anima, in solitudine. La storia si dipana bellissima nella sua evocazione di contenuti esistenziali forti, nella narrazione delle interessanti vicissitudini di un miniaturista di portapenne, oggetto-simbolo di un artigianato ancora oggi fiorente in Persia.
Amato da schiere di giovani iraniani, rivive ancor oggi con la sua critica ironica ai soprusi, alle persecuzioni di intellettuali e studenti, alla mortificazione dell’individuo, alla sottomissione del pensiero all’estremismo islamico, laddove gli ayatollah perpetrano la tortura con sistematica scientificità sottomettendo il proprio popolo. Hedayat ci lascia un’opera affascinante, vivida di inquietudini e burrascose sortite nei meandri dello spirito umano con le sue psicosi e le contraddizioni determinate dalla drammaticità della vita. Per tutti i critici, per le sue tecniche di scrittura e la profondità dei messaggi, il romanzo persiano è finalmente proiettato a pieno titolo tra le opere più influenti della letteratura internazionale solo grazie a lui. In definitiva Hedayat è disperatamente persiano, esule in patria e in ogni dove in cui non fosse possibile rompere con il conformismo disgustoso e paralizzante. Anna Vanzan ne diviene interprete con la traduzione di questo piccolo grande capolavoro, mentre a noi non resta che abbandonarci alla narrazione, fra scenari malati e altri pieni di lirica bellezza.
Conobbi questa meravigliosa donna in un lontano Aprile, per caso, in Iran. Negli ultimi anni ci siamo scambiati alcuni messaggi e opinioni, da parte mia una malinconica lontananza da un Paese che ti lascia dentro una dolorosa felicità. Parafrasando Sohrab Sepehri in una delle sue liriche più belle, Anna Vanzan rimane eterna perché è l’incanto di un giardino nella voce.