(La sagra delle anime perdute è un passaggio di Insomnia di Stephen King. Ora è una miniserie di racconti politicamente scorretti ambientati… nella società perduta. Terzo episodio. qui e qui i precedenti)
di Mauro Baldrati
Di solito io e Luigi camminiamo veloci, passo di marcia, ma oggi dobbiamo avanzare come lumaconi, andatura frenata da passeggio, perché abbiamo al traino lo zio.
Ci caracolla dietro lo zio, fa del suo meglio, muove le braccia senza coordinazione, ciondola la testa.
Luigi ogni tanto si gira e lo guarda preoccupato. “Tutto bene?” chiede.
Lo zio borbotta. Non si capisce se risponda a Luigi o parli da solo. E’ così lo zio, vive in un mondo suo.
“Sarà meglio che rallentiamo” fa Luigi, “se no arriviamo al ristorante che lo zio sembra uno fuso.”
“Ma lo zio non sembra, lo zio è fuso” faccio io.
“E va be’, ci capiamo, no?”
Rallentiamo ancora. Lo zio addirittura suda. Dorme sui cartoni sotto al portico della chiesa sconsacrata, e mangia alla mensa della Caritas. Lo abbiamo portato ai bagni pubblici della stazione per una doccia con shampoo e rasatura, e l’abbiamo pure obbligato a tagliarsi le unghie e a pulirle dalla sporcizia che c’era sotto. I vestiti che indossa li abbiamo rubati alla Oviesse. Adesso sembra presentabile, ma non dobbiamo tirargli troppo nel collo, se no schiatta.
Arriviamo al ristorante Da Sergione il gamberone. Uno dei migliori della città, per il pesce. Prezzo medio, ottanta a testa. Una bella cena luculliana, per festeggiare l’esame di Luigi. Trenta e lode, come al solito. A dire il vero l’esame è un pretesto, quello che vogliamo è una bella tafiata, serviti e riveriti, con del vino bianco da spaccare.
Il direttore, che poi è il padrone, ci accoglie sorridendo. Gli dico il nome della prenotazione, lui fa “prego”, e ci guida al nostro tavolo. Ci sediamo tutti allegri, anche lo zio, che si guarda intorno e borbotta frasi misteriose.
“Zio” dico, “vedi di stare calmo, eh? E non alzare troppo il gomito, almeno all’inizio. Dopo, puoi scolarti tutta la bottiglia.”
“Oh” fa lo zio, mentre prende un grissino.
Noto subito la signora al tavolino di fianco. La sua sedia è quasi a contatto con la mia.
Guardiamo il menu. Un sacco di roba buona. Arriva il cameriere, andatura felpata, modi discreti. Non è che questo ristorante sia uno di quei posti assurdi dove non puoi neanche sfiorare la bottiglia perché dei giannizzeri in guanti bianchi ti versano continuamente da bere con la faccia deformata da un sorriso-smorfia. Ha un che di rustico, di familiare, e il cameriere sembra un contadino inurbato che fa del suo meglio. Ci piace per questo. Quelli cosiddetti raffinati ti servono delle porzioni minuscole, due pesciolini in croce in piatti enormi. Io li chiamo “i piatti della solitudine”.
Ordiniamo un antipasto misto, insalata di mare e curiosità varie, tagliolini al salmone, dei gamberoni e filetti di branzino alla brace con salsa verde e aromi naturali. Roba semplice, gustosa. Per lo zio lasciamo perdere i tagliolini. Va a finire che si incasina col sugo, e si spruzza sulla camicia. E anche i gamberoni, troppo complicato aprire il carapace. Propongo un fritto misto, ma Luigi dice che è troppo pesante per lui, poi finisce che lo vomita. Bah, dico io, tanto lo vomita dopo, quando siamo già fuori. Ma Luigi insiste, chiede al cameriere se può avere una porzione doppia di filetti. Il cameriere si illumina, dice “ma certo.” Allora gli ordiniamo il branzino, e anche patate al forno. Dovrebbe farcela.
Col vino ci pensiamo un po’, poi prendiamo una Ribolla Gialla del Collio. Vino fermo, secco, da pesce.
Luigi è serio, come sempre. E’ abituato ad affrontare le cose da vari punti di vista, come deve fare un bravo avvocato. Stasera sembra particolarmente attento allo zio.
“Sta a sentire” dice, “siamo sicuri che poi gli sbirri non lo riempiono di botte?”
Lo zio fa “eh?” e alza le sopracciglia.
“Tranqui, zio, non dicevo mica a te” fa Luigi.
“No” rispondo. E forse lo credo davvero. “Gli sbirri non stanno a perdere tempo per massacrare un tipo per così poco. Lo vedono subito che è uno sfattone, lo sbattono dentro e lo lasciano là. Che è esattamente quello che vuole lui. Una settimana in cella, comodo.”
Luigi sospira. Non è del tutto convinto, e neanch’io a dire il vero.
“Mah” fa, pensieroso. “E’ proprio coi tipi come lui che se la prendono. Quelli senza tutele.”
Queste riflessioni di Luigi sono destabilizzanti. Entro subito in tensione. Per fortuna arriva l’antipasto. E il vino.
E qui, anche se è un ristorante rustico, c’è il rito della bottiglia. Il cameriere la stappa, me ne versa due dita scarse e mi mostra l’etichetta. Ha deciso che sono io il capo. I camerieri hanno questo talento naturale, capiscono chi è il capo appena uno si siede a tavola.
In realtà è un talento fasullo, guardano all’apparenza dell’apparenza, perché il capo è Luigi. Io lo so, e in fondo lo accetto, perché sono cosciente che ha più sale in zucca di me, alla fine. Ma a me che mi frega, non glielo invidio, tutto questo sale in zucca. Gli rallenta la vita, la rende pesante. Io vado bene così. Sono contento di me stesso. Almeno per ora. Tra qualche anno si vedrà.
Mi bagno il becco. Mi sembra okay, vino secco, fresco. Per la verità mi piacerebbe cavarmi lo sfizio di rompere un po’ le palle, tipo dire “sa di tappo”, come ho letto in un racconto divertente ambientato a Londra scritto da una ragazza, tanto per vedere la faccia sbalordita del cameriere, e poi quella del padrone tutto mortificato, ma non so se è il caso. Perché, quando arriverà il momento della conclusione non so cosa farebbe il padrone. Potrebbe essere un soggetto vendicativo e bloccarci.
Lascio perdere, dico “bene”. Allora il cameriere fa “grazie” e versa il vino nei bicchieri.
Lo zio lo scola d’un fiato, sorride soddisfatto e chiude gli occhi.
“Piano zio. Ce n’è quanto ne vuoi, ma bevi piano.”
Lo zio guarda il bicchiere pensieroso, borbotta.
“Adesso però mangia, metti qualcosa nello stomaco” dico.
Lo zio inizia a mangiare. Non fa casini, ci sa fare. Tiene bene la forchetta, becchetta con ordine. Deve essere un ricordo della sua vita passata, quando era una specie di dirigente d’azienda, prima di darsi alla macchia e mandare a culo il mondo e la vita, quando la sua azienda ha chiuso bottega, sua moglie lo ha buttato fuori di casa e gli ha bollito il cervello. Secondo me era pure in grado di pulirsi i gamberoni meglio di noi.
Mangiamo l’antipasto, e dopo dieci minuti arrivano i tagliolini. Solo che lo zio non ha niente nel piatto, c’è il rischio che ci dia dentro col vino e poi sbarelli di brutto. Chiamo il cameriere e gli dico se può portare subito i suoi filetti. Lui dice “ma certo” e sparisce in cucina.
“Zio, intanto mangia due o tre grissini” dice Luigi.
Lo zio apre una confezione e sgranocchia. I nostri tagliolini sono ottimi. Innaffiamo con abbondante vino.
Intanto lancio un’occhiata alla signora seduta accanto a me. E’ con un uomo, e altre due coppie. Ridono, fanno dei brindisi. Saranno degli imprenditori, degli affaristi, roba così. Ma siano chi gli pare, a me interessa la sua borsa Louis Vuitton, appesa alla spalliera. E’ un sacco di plastica, senza chiusura, l’ideale per me. E in bella mostra c’è il portafogli, a portata di mano. Si sente sicura, sa che non si ruba in casa dei ladri. Ma io non sono un ladro come loro. Io non fingo di essere onesto. Non recito la parte del signore. Prendo quello di cui ho bisogno, dove e quando mi pare.
Mi appoggio alla spalliera della mia sedia, metto giù la mano e con un gesto leggero, rapido, prendo il portafogli. Me lo appoggio in grembo, sotto al tovagliolo, e lo apro. Cerco i soldi, ci sono sei banconote da cinquanta euro e un paio da dieci. Ne prendo cinque. Non si deve mai svuotare un portafogli in questi casi. Se il possessore lo prende e lo trova vuoto va giù di testa. Invece se mancano dei soldi si incasina, dice “ma… c’erano duecentocinquanta euro! Dove li avrò messi?” e va avanti così, finché si confonde e gli gira la testa. E comunque questa qui non lo aprirà. Pagherà uno degli uomini, come si usa tra loro nel bel mondo.
Rimetto a posto il portafogli.
Luigi ha seguito la mossa. Beve un sorso di vino.
“Quanto?” fa, a bassa voce.
“Duecentocinquanta. Centoventicinque a testa.”
Annuisce. Ma non perché è d’accordo. Lo immaginavo.
“Ottanta, più o meno. Una parte va allo zio.”
“Che?” insorgo, ma sottovoce. “Cazzo dici?”
Lo zio, intanto, ci guarda e stringe gli occhi. “Eh?”
Gli verso la bere. Si concentra subito sul vino.
“Se li sputtana in due giorni”.
“Probabile. Ma non sono affari nostri. E tu, invece? Li spendi tutti in cazzate.”
Stringo le mascelle. Quando fa così lo strozzerei. Mi paralizza. Mi inchioda, con quegli occhi azzurri duri come l’acciaio. E comunque ha ragione, come al solito. Ho una tipa a mezzo, ci facciamo un paio di piste, metto quei coglionazzi degli Oasis che piacciono tanto alle ragazze, andiamo su di giri e ci scappa una bella seratina.
“Dagli i suoi Ottanta” dice.
Ordina. Sentenzia. Impone.
“Perché disintegri i maroni così?” protesto. Ma so di avere già perso. Non posso oppormi al suo senso di giustizia. E’ sempre stato così con Luigi. Siamo amici da vent’anni, lui sempre bravo, sempre studioso, e giusto. Quando tra bambini ci picchiavamo arrivava lui e metteva tutto a posto. Anche adesso, che sta per laurearsi in giurisprudenza con la lode, ha già pianificato il futuro. Vuole fondare un’organizzazione di avvocati di strada, sul modello del mitico Soccorso Rosso. Non vuole diventare un ricco imbroglione come gli altri avvocati. Almeno per ora. Poi si vedrà. Magari tra dieci anni lui sarà diventato un avvocato azzeccagarbugli che difende i palazzinari squali e io assisterò gli homeless come lo zio. Può accadere di tutto. Intanto però io me la godo e lui no. E’ sempre con quella sua fidanzata da una vita. Si chiudono in camera, sento della musica bolsa e immagino che leggano quei libri tosti, dei documenti, che so.
“Sai che con me non ti devi atteggiare a studelinquente nichilista” dice, a muso duro. “Siamo in tre, e lo zio paga per tutti. Ha diritto ai suoi soldi.”
Arrivano i gamberoni e i branzini. Meno male, perché lo zio stava iniziando a rizzare le orecchie. Ordino un’altra bottiglia. Mangiamo con gusto. Il vino fresco sale alla testa come un venticello di primavera.
“E tu non fare sempre il robin hood della generazione post atomica” dico. “Lo sai che lo zio è contento così. Si fa una bella mangiata, una bevuta di quelle mitiche, e stanotte dorme al coperto, in un commissariato. E’ senza fissa dimora, non possiede nulla, neanche lo denunciano. C’è brutto tempo, magari piove e lo sai che gli fa schifo andare al dormitorio. Lì c’è davvero il pericolo che lo riempiano di botte.”
Gli occhi azzurri non mi danno tregua.
“Un bel paraculo, non c’è che dire. Intanto ti tieni i suoi soldi. Lui ha i nostri stessi diritti. Dagli i suoi ottanta. Subito.”
Sospiro. Inutile oppormi. Lo so che ha ragione. Il fatto è che non me ne frega niente se ha ragione. Devo ubbidire a Luigi. Perché è il capo.
“Anzi, no” soggiunge, pensieroso. “Magari glieli sequestrano gli sbirri. Dalli a me, che glieli passo quando esce. Con me sono al sicuro, con te no.”
Alla fine mi faccio una risata. Ma sì, zio, prenditi gli oettanta, che è giusto così. Al diavolo i soldi.
Beviamo sorsate scurrili, diventiamo superallegri. Anche Luigi, che non è un tipo triste. E’ solo un duro. E anche se si sbronza non abbassa mai il suo fottuto senso di giustizia.
Prendiamo anche dei dolci, io al cioccolato, Luigi una cosa con la crema, lo zio una torta leggera, perché è a rischio con lo stomaco. E’ anche un po’ pallido. Non è un alcolista, anzi, gli basta un bicchiere per svalvolare. E stasera si è bevuto almeno mezza bottiglia di Ribolla.
Scherziamo, lo prendiamo bonariamente in giro, lui sta al gioco, ride spalancando la bocca sdentata piena di cibo masticato.
E adesso viene il momento. La seconda bottiglia è pieno per un terzo. Gliela lasciamo. Passerà circa mezz’ora prima che il padrone inizi a porsi la domanda, e lui finirà di scolarsela con calma.
“Zio, allora noi andiamo” dico.
“Uh” fa lo zio.
Tentenniamo. Ci sembra di mollarlo qui, da solo in balìa dei lupi.
“Allora hai capito, stai qui tranqui, arrivano gli sbirri e tu non dici niente. Eri con due sconosciuti che ti hanno invitato a cena in cambio di un lavoretto, cambiare la ruota di una macchina, poi se la sono svignata lasciandoti nella merda. Ce la fai a spiegarti?”
“Argh” fa lo zio.
“Bene. Non ti succede niente, e quando esci ti veniamo a trovare. Ci vediamo sotto al portico, dove hai lasciato il cappotto e il sacco a pelo. In gamba!”
Ci alziamo e raggiungiamo l’uscita. Lancio un’ultima occhiata allo zio, ridacchia e beve una bicchierata. Andrà tutto bene. Deve andare tutto bene.
Passiamo dalla cassa. Il padrone ci sorride. Parlo io, che ho la lingua sciolta e la faccia tosta.
“Scusi sa, ma dobbiamo andare un attimo in macchina, perché abbiamo dimenticato una cosa. Può portare il conto a mio zio che ci aspetta al tavolo. Torniamo tra cinque minuti.”
Il direttore per la verità sembra perplesso. Fa “ah.” Poi guarda verso il nostro tavolo, e io spero che lo zio non ceda adesso, tipo che si mette a vomitare o crolla con la testa sul tavolo. Ma è a posto il vecchio pirata. Beve e sembra soddisfatto. E’ pure in forma smagliante.
Il direttore ripete “ah.” Ma come fa a dire di no? E’ impensabile che due ragazzi come noi, bravi, educati, se ne vadano piantando un parente senza pagare il conto.
“Torniamo subito, la macchina è nella strada di fianco” ripeto, con un bel sorriso.
Il direttore non ha scelta. Dice “va bene, va bene” lanciando un’altra occhiata verso il tavolo.
Usciamo senza fretta, nella notte, mentre sta iniziando a piovere.
Camminiamo spediti e ci allontaniamo dal ristorante.
“Vedi che piove? Lo zio era fregato con la pioggia” dico.
Luigi si stringe nelle spalle.
Pensiamo a lui, nel ristorante, da solo, col direttore che lo guarda sospettoso.
Ma lui è solo, è questa la sua vita. Per lui è un lavoro, ci ha anche guadagnato dei soldi.
D’un tratto Luigi si ferma, mi fissa. La sua faccia è una maschera di pietra. Ho un vuoto allo stomaco.
“Dammi i soldi” fa.
Lo guardo senza capire. “Che soldi? La parte dello zio? Va bene, ma perché questa furia?”
“Dammi tutti i soldi”.
Mi sale un senso di panico. Non può farlo. Non può arrivare a questo.
“Va’ all’inferno, Luigi.”
Gli occhi azzurri non hanno una sfumatura di cedimento. “Non possiamo lasciarlo in mano agli sbirri. Quelli lo ammazzano di botte. Coi soldi di quella donna l’abbiamo scroccata lo stesso, la cena.”
“Vaffanculo. La mia parte mi serve.”
“Dammi i soldi e non rompere i coglioni.”
I nostri sguardi si incrociano, si sfidano. Ma non posso oppormi, lo so. L’ho sempre saputo. E’ una servitù che mi porto dentro da una vita. Gli consegno i soldi, con un gesto di fastidio. Luigi li prende, poi guarda nel suo portafogli.
“Io ho venti euro. Duecentocinquanta non bastano. Abbiamo preso due bottiglie da 32 euro l’una. Tu quanto hai?”
Tutto crolla ormai. Non ho più risorse, né energie. Prendo il portafogli: dieci euro. Poi, resterò in bolletta nera. Dovrò fare un paio di nottate dallo spedizioniere come facchino. Glieli consegno.
“Duecentottanta. Se il padrone dà di matto tu che sei bravo fatti venire una crisi. Digli che stai per vomitare. Quello si spaventa e ce ne andiamo.”
Torniamo verso il ristorante. La pioggia mi frusta la faccia.
“Luigi, fermati!”
Rallenta il passo, ma non si ferma.
“E adesso che stai per mandare tutto all’aria dove dorme lo zio? Ha lasciato il sacco a pelo sotto al portico, come ci arriva con questa pioggia?”
Luigi si alza il cappuccio del giubbotto sulla testa.
“Lo mettiamo nell’ingresso” grida. “Un sacco a pelo ce l’ho.”
Lo immaginavo. Lo temevo. Lo sapevo.
“Tu sei fuori! Un homeless ubriaco in casa nostra! Quello vomita, caga e piscia, poi chi pulisce?”
Luigi si ferma, si gira e mi fissa.
“E tu, allora? Che dire quando torni ubriaco o con la droga che ti esce dalle orecchie, e vomiti?”
Un colpo basso. L’ultima volta gli ho lasciato una chiazza di vomito davanti alla porta della sua camera.
Si gira, riprende a camminare.
E io dietro.
Ecco la porta del ristorante.
Ora il direttore ci accoglierà con un sorriso di sollievo. E’ tutto a posto, siamo tornati per pagare il conto. Come deve essere.
Mi chiedo come abbia potuto dubitare, questo vecchio rinco.
Si vede subito, si vede da lontano che siamo due ragazzi a posto, noi.