di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il 1975 e il 1978. Fu all’epoca una scelta sicuramente coraggiosa per un editore che fino ad allora aveva principalmente pubblicato testi, italiani e stranieri, riconducibili tutti, o quasi, all’ambito dell’antagonismo politico di estrema sinistra.
La ricerca dell’autore, infatti, si avventurava nell’opera di riscoperta e ricostruzione di una cultura, quella dei contadini veneti delle Basse veronesi, che sicuramente all’epoca, anche e forse soprattutto agli occhi dei militanti di quella Sinistra che si dichiarava extra-parlamentare, doveva apparire arcaica, superata, conservatrice, se non addirittura controrivoluzionaria. Perdendo così, già all’epoca, l’occasione per avvicinare strati popolari, allora ancora in parte superstiti, in cui era radicato un forte antagonismo nei confronti della cultura “elevata”, o presunta tale, imposta dallo Stato e dalla onnicomprensiva modernizzazione della società.

Dino Coltro (1929-2009) di quella cultura e di quella società contadina era invece discendente e, si potrebbe dire, voce; diretta emanazione di una lingua e di conoscenze apparentemente destinate ad essere cancellate dalla Storia.
Nato in provincia di Verona e cresciuto al Pilastro (Bonavigo), una tipica corte della Bassa veronese dove abitò dalla prima infanzia fino agli anni Cinquanta, dopo essere stato avviato al lavoro salariale, riuscì con l’impegno dell’autodidatta a diventare maestro. Con l’insegnamento iniziò anche la sua attività sociale, facendosi promotore di numerose cooperative agricole. A questa si aggiunse l’esperienza della Cooperativa della Cultura di Rivalunga, un’iniziativa socio-pedagogica che anticipò tendenze e metodi del rinnovamento della scuola. Dal 1972 si dedicò alla ricerca e alla trascrizione della tradizione orale veronese e veneta, di cui l’opera ripubblicata e recentemente portata a termine dalle edizioni Cierre di Verona costituisce uno dei risultati e, forse, l’esempio più significativo.

Sappiamo tutti come, oggi, in Veneto l’uso del dialetto sia ancora estremamente diffuso e sappiamo anche, purtroppo, che la sua difesa ha finito col costituire la base di una rivendicazione identitaria troppo spesso sfociata in una forma di autentica ostilità, se non di vero e proprio razzismo, nei confronti dei forestieri e degli immigrati più poveri, cui la Lega, nelle sue varie espressioni, ha dato voce e fiato per poter acquisire maggior rappresentatività politica sia a livello locale che nazionale.

Certo, l’opera di Coltro non andava, e non va letta tutt’ora, in quella direzione. Anzi quelle parole, quelle favole, quei modi di dire, quei canti e quelle filastrocche continuano a ricordare al Veneto degli schei (quattrini)1, una società contadina in cui molti vivevano come l’uccellino sul ramo* ovvero mangiando poco. Una società spesso povera, ma dall’identità forte proprio perché restia alla penetrazione di una cultura ufficiale, basata sulla prevalenza del testo scritto, destinata a sconvolgerla, privandola ancor prima che della lingua, ancor più della sua capacità creativa e della sua capacità di intendere il mondo, la natura, il lavoro, la fatica e la miseria, ma anche e soprattutto dei suoi valori etici e morali.

Come affermava infatti l’autore nelle riflessioni destinate ad accompagnare una prima ristampa dell’opera, nel 1982:

Il mio intento era di presentare una cultura nei termini e nei principi basilari intrinseci, senza ricorrere a prestiti interpretativi provenienti da altre concezioni della vita e del mondo. In questo modo risalta l’originalità della condizione contadina, nello spazio e nel tempo, e si dimostra che il complesso delle esperienze e delle situazioni, trattenute dalla coscienza collettiva, esprime una vera e reale concezione del mondo, da cui derivano valori e modelli che guidarono (e forse guidano) il comportamento individuale e collettivo. La mancanza di comunicazione simbolica o segnica della cultura subalterna, avverte soltanto che l’attenzione alla comunicazione orale deve essere portata al colore, alle forme, alla mitologia, alla fabulazione nelle loro complessità. Ma complessa non vuol dire frammentaria; la creatività e l’autonomia caratterizzante questa cultura ne amplificano la poliformia.

[…] C’è tuttavia, una unità concettuale, in larga misura implicita e intuitiva. Occorre soltanto capirne i termini. Esiste una morale del popolo, cioè degli imperativi molto più forti e tenaci della morale ufficiale con la quale, molto spesso, vengono in opposizione […] Così scopriamo opinioni e credenze sui diritti, sulla giustizia che nascono sotto lo spunto delle condizioni di vita e non risultano dei cascami degradanti dalle concezioni dominanti, come spesso si sente dire2.

Aggiungeva poi ancora, nella Premessa:«La lingua rappresenta un modulo conoscitivo fondamentale di una società e della sua cultura. Per questo ho tentato la trascrizione del linguaggio contadino della Bassa, colto nelle forme più espressive, dalla voce degli ultimi “analfabeti”, conservandone, fin dove possibile la contestualità e la struttura culturale orale. Una lingua non esiste al di fuori della cultura, cioè, al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita [da S. Amin, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969 – N.d.R]»3.

Come afferma, infatti, Manlio Cortelazzo nella Prefazione al primo dei quattro volumi:

La propria parlata individuale, di uso e di ricordo, come indicatore del lessico comunitario; e questo ripreso, quale specchio fedele e spesso unico testimone della perduta memoria collettiva di un passato anche recente, che va man mano sbiadendosi e sfumando i suoi precisi connotati: ecco l’opera, carica di pietas, compiuta con grande passione e lunga fatica dall’Autore […]
Non c’è, in questo lavoro, né recriminazione, né idilliaca (e, quindi, sostanzialmente falsa) ricostruzione di un’esistenza faticosa, superata sì nei suoi deprimenti aspetti quotidiani, ma anche in altri aspetti positivi, così alieni dal nostro impoverito villaggio globale.
La descrizione di questo “paese perduto” sa procedere attraverso la parola, il verbum, inteso in senso lontanissimo, includente qualsiasi manifestazione verbale, anche i gridi di richiamo e incitamento degli animali domestici, anche le creazioni effimere, incontrollate e irripetibili, o fantasiose e sfuggenti a tutti i tentativi di logica spiegazione, per arrivare a cogliere esattamente, come confermerebbero documentazioni di altro tipo, peraltro non indispensabili, il corso della vita contadina a cavallo fra i due secoli, anzi, tra un mondo millenario […] e il suo fresco antagonista, il mondo d’oggi, che se n’è liberato4.

Coltro privilegiava quindi la lingua dell’oralità, il dialetto, la lingua del fare, che è pensiero legato alla concretezza della vita quotidiana, alle fatiche, alle miserie, alla fame, alla violenza dell’esistenza.
Lingua di condivisione sociale e famigliare degli eventi e degli atti, lingua che ci ricorda che ogni lingua nazionale, spesso imposta con la violenza (anche a scuola), è una forma di colonizzazione non solo socio-economica, ma anche dell’immaginario espresso collettivamente. In un mondo in cui il termine analfabeta ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un grave stigma.

Il mondo contadino preso in considerazione, appare in una dimensione culturale più esatta attraverso il suo linguaggio che ne esprime anche la filosofia e la morale: uno specchio modesto di una civiltà che va scomparendo […] Tuttavia il mondo contadino non si presenta con un’unica fisionomia: la differenza culturale di chi possiede casa e terra da chi non ha che le braccia per lavorare non è trascurabile. La spaccatura salariale in categorie di lavoro (salariati, avventizi, giornalieri) e in sottoclassi sociali determina una diversa visone del lavoro e della vita.
L’ambiente di paese o di corte, il vivere in case isolate o raggruppate, in contrade, in frazioni; l’influenza della predicazione religiosa e delle tradizioni mitologiche popolari; la frequentazione dell’osteria e la solitudine delle stalle, sono tutti fattori che rendono “diverso” un modo di dire, apparentemente identico o uniforme. In questo caso, ripetizioni e varianti diventano frasi ed espressioni del tutto nuove e autonome.
Il lessico dialettale ha sfumature, inflessioni verbali, accenti che variano con il mutare dell’ambiente naturale, sotto l’influenza delle condizioni economiche, in rapporto alla composizione sociale delle comunità contadine. Differenze si possono notare dentro uno stesso paese, determinate dal lavoro, dalla povertà, sottolineate da condizionamenti storici, da fattori spirituali, dall’accettazione o meno dell’insegnamento della Chiesa5.

In fin dei conti, forse, Francis Fukuyama non aveva del tutto torto quando parlava della fine della Storia con i progressi avvenuti al termine del XX secolo, poiché il capitalismo, il suo stato e la sua cultura hanno di fatto contribuito a far finire migliaia di volte la Storia delle culture e società altre, costringendole ad essere relegate in ricordi sempre più sbiaditi oppure a negarsi per potere stare al passo con la Modernità, lo Sviluppo e il Progresso.

Le lingue altre, i gerghi e i dialetti hanno continuato però a portare dentro di sé una memoria materiale di un passato quasi sempre distrutto e poi rimosso e nascosto. L’opera di Dino Coltro quindi, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, è ancora di estrema attualità per la metodologia impiegata. L’amplissima raccolta di detti, proverbi, modi dire, espressioni comuni, cantilene, fole scaturisce direttamente dalla viva voce dei contadini, non vi sono passaggi di carattere letterario o interpretativo che ne nascondano o ne travisino l’implicita forza espressiva.

L’opera risulta poi ancora attualissima poiché è stata scritta «appena usciti dal grande esodo dalle campagne, risulta, in definitiva, un esame immediato, spontaneo, fatto sul filo di una memoria intatta di quanto il cambiamento” aveva sperperato più che mutato. Perché il “cambiamento” era ed è nelle cose della storia e se c’era qualcuno che lo attendeva come una “liberazione”, questi erano i contadini. E, forse perché arrivato troppo tardi, li ha spinti a una trasmigrazione culturale così affrettata, confusa e sradicata da autentiche energie vitali. Una immagina speculare dell’emigrazione dalle campagne alle aree urbane, un tempo rifiutata»6.

Estremamente attuale nel ricordarci, in questo inizio secolo in cui gigantesche trasformazioni socio-economiche e tecnologiche contribuiscono a rovesciare ogni forma di resistenza e solidarietà nel loro contrario e ogni autonomia politica e culturale in immaginario spendibile per la causa capitalista, anche grazie ad una Sinistra dalle infinite sfumature progressiste tutte ispirate più dall’idealismo illuminista che dal materialismo e dall’interesse per gli “altri” di marxiana memoria7, che ogni passaggio, ogni trasformazione economica e sociale, anche all’intero di un medesimo modo di produzione, è sempre e soprattutto una trasformazione antropologica dei soggetti coinvolti. Senza di questa, senza la scellerata e condivisa rimozione di ogni forma di cultura non funzionale allo sviluppo economico e tecnologico dominante lo stesso non potrebbe infatti affermarsi e sopravvivere.


  1. Si veda G. A. Stella, Schei. Dal boom alla rivolta: il mitico Nord-est, Baldini &Castoldi, Milano 1997  

  2. D. Coltro, Riflessioni per una ristampa, in D. Coltro, Il paese perduto, vol.I, pp. 15-16  

  3. D. Coltro, Premessa a Il paese perduto, vol.I, op.cit. p.9  

  4. M. Cortelazzo, Il mondo contadino di ieri in D. Coltro, Il paese perduto, Vol. I La giornàda e il lunario, Cierre edizioni, Verona 2013, pp. 19-20  

  5. D. Coltro, Premessa in op. cit. pp. 10-11  

  6. D. Coltro, Riflessioni in op. cit. pp.16-17 

  7. Si vedano in proposito: E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e K. Marx, Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli, Milano 2009 oltre che K. Marx – Friedrich Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1960; oppure, ancora, E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1963