di Stefano Erasmo Pacini
Una notte d’agosto organizzai un ritrovo con un passaparola al mio podere, arrivarono tutti e ci mettemmo a bere e fumare fuori, al buio, sotto un tappeto di stelle immenso, eravamo in uno stato di grazia, le nostre parole ci avvolgevano e legavano l’uno all’altro; parlavamo di cambiare per sempre la nostra vita, di metter su una comune, di dividere entrate e spese, viaggi e fatiche, sogni e amori. A un certo punto Eros si lasciò scappare un grido e tutti noi ammutolimmo. Una stella cadente immensa aveva solcato la volta celeste e la sua scia si era spenta solo dopo un tempo che ci parve infinito. Mentre fioccavano i commenti, ed Eros parlava del buon auspicio rappresentato da quella stella eccezionale, a me corse un brivido lungo la schiena: pensai che eravamo noi quella scia luminosa bellissima, destinati a durar ancora poco. Eros aveva dieci anni più di noi, ci faceva da fratello maggiore, da teorico dell’amore grande, da sognatore che si era licenziato dalla fabbrica per seguire il suo nuovo amore in una compagnia teatrale. In più lavorava duramente da manovale, sempre immaginando di veder svolazzare via l’uccellaccio del lavoro, come ci diceva. Ma solo diversi anni dopo un infarto lo liberò per sempre.
Progettavamo di partire d’estate con l’autostop per l’India, come già avevano fatto alcuni nostri amici più grandi di cui si rincorrevano notizie confuse e racconti fantastici. Magari si finiva in Europa con l’Interrail, l’importante era comunque viaggiare e poi andare, capire cosa c’era fuori nel mondo, vedere, lasciarsi coinvolgere. Mi ero già innamorato di quel verso di Paul Valery: “si alza il vento, bisogna tentare di vivere.” La nostra rivoluzione voleva viaggiare e scoprire. Frank barba lunga era arrivato in autostop fino ad Amsterdam e ci aveva raccontato di una città libera, del Vondelpark, dove si poteva fumare liberamente e dove dei ragazzi si lanciavano giocando uno strano disco di plastica. Aveva riportato con sé dei fogli di carta assorbente maculati. Abbiamo passato un autunno intero con quei trip, visto i più bei colori della nostra vita, le facce distorte dei mezzibusti televisivi con il loro parlare da serpenti, ascoltato le musiche della West Coast, prima che si cominciasse a parlare di indiani metropolitani, Apache, forse immaginandone già la stessa fine. Un mondo colorato, ma con le certezze in bianco e nero: di qua noi, di là tutti gli altri.
Aveva sparso la voce Mau, troviamoci in Poggio, sotto gli alberini vicini al monumento dei martiri di Niccioleta. Lui aveva portato la chitarra, Frank il sax, io il flauto, Claudio i bongos, Cesare l’armonica e piano piano mentre il Sole accennava a tramontare dietro l’isola d’Elba si erano aggiunte Francesca e Anna, Alì, Nico, Alessio, Eros, Francesca e alla fine era arrivata Stella, la regina degli hippies di montagna, e un bel gruppo di follonichesi, Elena, Ganf, Angelina, Bob, Giuliano, Franchino. La musica era salita sempre più alta e intensa mentre il Sole scendeva, con le prime tenebre illuminate dai nostri sorrisi e poi rischiarate dagli accendini che riscaldavano dello zero zero marocchino portato da Alessio vai a sapere come. Il buio alla fine ci aveva avvolto, ma nessuno aveva voglia di andarsene. Era un momento magico, irripetibile, una sospensione dalla realtà che incombeva là fuori, a trenta metri dal parco. Alcuni si erano cominciati a baciare, tutti stavano vicini, come se avessero paura di perdersi, come se sapessero che di lì a poco si sarebbero persi, che alcuni non sarebbero riusciti a raccontarla, che altri non l’avrebbero comunque raccontata, che l’eroina era dietro l’angolo, li avrebbe falciati tanti, troppi.
Un tardo pomeriggio d’inverno ci sorprese un improvviso black-out mentre passeggiavamo in centro con Nico Manolesta e Cesare. Non ci fu bisogno neppure di una parola. Ci ritrovammo in pochi secondi dentro la Standa, intenti a portar via bracciate di roba; la luce ritornò giusto in tempo che ce la svignavamo nel vicolo, ridendo come matti. Nel caos io avevo beccato uno scaffale di libri, senza accorgermi che erano romanzetti rosa di Liala, Cesare delle gonne scozzesi prendendole per giubbetti. Nico invece, manco fosse un nittalope, era uscito con whisky, Martini e salmone, “la classe non è acqua”, ci disse con un sorrisino soddisfatto. Cesare per non dargliela vinta la sera successiva si presentò con la gonna e un berretto di suo nonno che sembrava uno scozzese verace. Nico gli dette a quel punto una bottiglia di whisky, il salmone invece ce lo mangiammo mentre ci facevamo una canna leggendo passi di un libro di Liala, piegati in due dal ridere.
Cesare aveva preso il treno e aveva fatto un giro al mercatino americano di Livorno, poi aveva raggiunto Pisa per una manifestazione antifascista. Voleva fare qualche foto con la Yashica usata che avevamo comprato insieme pochi giorni prima; forse ricordava le mie raccomandazioni su come fare delle belle foto da esporre in sede, anche se capivo che con l’obbiettivo da cinquanta millimetri fisso non fosse facile.
Cesare ci provò, anche quando scoppiarono degli scontri per una carica improvvisa dei celerini che vollero disperdere il corteo. Rimase calmo a fotografare mentre quasi tutti scappavano. Poi prese un candelotto lacrimogeno in pieno petto. Aveva fatto delle belle foto. Le esponemmo al suo funerale insieme al suo ritratto. Sulla sua bara che portammo a spalla la bandiera rossa col pugno nero. Poi un dolore sordo, costante, un sottofondo a cui avrei fatto l’abitudine col tempo, ma che non sarebbe mai scomparso. Quel giorno lo giurai a me stesso, non finisce qui.
Si cresce in fretta tra sogni e risvegli brutali. Certe ferite sanguinano, ma non si smette di correre, non è ancora tempo di cicatrici e consuntivi. Oltre tutto se ci muoviamo rapidi non veniamo neppure nelle foto. Potevamo stare ore senza dirci niente, magari ascoltando gli ultimi dischi rimediati al mercato. Oppure incartarci in discussioni su cosa fare dopo il diploma, che città e università scegliere, che paese visitare d’estate con l’autostop.
Altre volte prendevamo in moto giù per la montagna sognando di andare verso il nirvana; poi non è che avessimo capito bene cosa fosse questo nirvana, ma la parola ci piaceva, e quando era piovuto con le gomme tassellate era facile cadere e scivolare anche per venti metri, ma evidentemente esisteva uno spirito guida per i folli.
Non conoscevamo la prudenza: un pomeriggio che nevicò di brutto salimmo in due sul motocross mettendoci a sbandare e ridere, finché Cesare in discesa mise la terza e dette gas urlando: “si volaaa!” E si volò veramente dentro una cunetta piena di neve, come nelle comiche di Stanlio e Ollio, che se avessimo provato altre cento volte saremmo finiti a pezzi. Macché, niente, infarinati come da una valanga, ebbri di paura, sollievo, stupore, felicità. Ubriachi di vita, tanto che la morte quel giorno si girò dall’altra parte.