di Girolamo De Michele
[autore di Tre uomini paradossali, a breve in uscita da Einaudi Stile Libero]
Proviamo a fare non uno, ma tre passi oltre l’immediata emotività che si è espressa nella mobilitazione seguita all’arresto di Cesare Battisti. Tre passi, cioè tre aspetti che bisogna saper disgiungere entro la complessità umana, troppo umana della vita di Cesare. Ma soprattutto: tre diversi compiti, tre campagne che dobbiamo avere il coraggio di osare, a partire dalle agende politiche del movimento sin dalle assemblee preparatorie della giornata del 20 marzo, perchè anche questa è guerra interna.
In primo luogo, va denunciato il carattere odiosamente vendicativo della “campagna acquisti” in atto da parte del ministro Castelli tra i rifugiati politici italiani, iniziata il giorno in cui Castelli si recò in Francia con una lista di 12 “sovversivi” (tra i quali Persichetti e Battisti). Vale la pena di rammentare che i refugées sono in Francia per effetto di un contratto morale siglato tra loro e lo Stato francese ai tempi di Mitterand, contrato al quale si era attenuto, in nome della continuità dello Stato attraverso il mutare dei governi, lo stesso Chirac quando divenne capo del governo. Nel contempo, Castelli ha dichiarato che l’estradizione di Delfo Zorzi (l’uomo che ha matrialmente messo la bomba nella banca dell’Agricoltura in piazza Fontana) non è una priorità, e di fatto non fa nulla per ottenerla (complice l’avvocato Pecorella, penalista principe del Cavalier Banana e presidente della commissione giustizia).
Non è una mera questone di pesi e misure: Persichetti, Battisti e compagni sono oggetto di una vendetta assolutamente gratuita (cos’hanno da aggiungere a ciò che già sappiamo alla ricostruzione degli anni ’70?), e il loro eventuale “pentimento” sarebbe null’altro che un’abiura inquisitoria, ad uso e consumo del compiacimento dei suppliziatori; laddove i vari Zorzi, Maletti, ecc. sono depositari delle pagine più nere della nostra storia, e uomini e istituti/istituzioni che il loro silenzio copre sono tutt’ora attivi, sempre ben radicati nella società illegale. Castelli, va sempre tenuto a mente, è il ministro che visitò Bolzanetto nella notte delle torture; è l’uomo che ha inconsciamente rivelato il suo odio di classe nel paragonare i torturati di Bolzanetto agli operai della sua fabbrica («essere costretti a restare in piedi per alcune ore non è tortura: nella mia fabbrica gli operai sono abituati a lavorare in piedi otto ore senza lamentarsi», dichiarò più o meno in questi termini in Parlamento). Questo spirito vendicativo (che traspare anche dai compiacimenti del ministro Pisanu ad ogni fermo o arresto) è tanto più pericoloso in quanto non è indirizzato verso un soggetto sociale (la “classe antagonista”), ma è un residuo allucinatorio, la persistenza di una memoria malata che, come un orologio molle, cola giù su qualunque individuo abbia la ventura di richiamare, come un distorto déjà vu, le forme fordiste dell’antagonismo: tanto più pericoloso in quanto il bisogno di emergenza che esso rivela può colpire in modo indiscriminato.
In secodo luogo, dobbiamo avere la capacità di praticare il terreno giuridico, di fare critica del diritto anche attraverso l’uso dei suoi strumenti formali.
Lo status giuridico di Cesare Battisti è quello di un latitante condannato in contumacia a due ergastoli, comminatigli in misura della sua asserita colpevolezza rispetto a tutti i reati attribuiti ai Proletari Armati per il Comunismo. Com’è noto, Cesare non si è difeso in tribunale, ma ha praticato il diritto all’evasione (il che, in un mondo di galantuomini, lo renderebbe inestradabile, giacchè la Francia non riconosce la validità delle condanne in contumacia). Il punto è proprio questo: evadendo, Battisti scelse di non difendersi perchè le condizioni processuali oggettive di fatto lo rendevano impotente a fronte delle dichiarazioni dei pentiti. È necessario ricordare che la gestione dei pentiti a Milano è stata particolarmente vendicativa — era la procura di Alessandrini e Galli — e spesso ai margini della “legalità”? Ora, è un fatto che il diritto penale — in modo esplicito dall’entrata in vigore del rito accusatorio — ha per oggetto il verosimile, ricostruito in base all’evidenza della prova, afferente alle singole persone, e non il giudizio politico complessivo (dal quale, via pentiti, giudici come Armendo Spataro deducevano, applicando il rito inquisitorio, la colpevolezza dei singoli, spesso privilegiando le cosiddette “figure di confine” tra legalità e illegalità). E dunque sarebbe importante ricostruire con precisione la sua vicenda processuale, per dimostrare che, da un punto di vista puramente giudiziario, le violazioni delle più elementari norme a tutela del diritto di difesa rendono di fatto inaccertabile i reali livelli giuridici di responsabilità, indipendentemente dagli specifici eventi attribuibili a Battisti. Qui non parlo solo di alcune palesi incongruità — come faceva Cesare ad essere nell’arco di mezz’ora a Milano e a Mestre? Parlo del fatto che, a fronte della illusoria pretesa che il diritto comporti un’opzione secca tra innocenza e colpevolezza, esiste un’area di indecidibilità, nella quale si trovano quelli che George Boole, il fondatore della logica binaria (1=vero, 0=falso) chiamava “residui indefiniti”: traducendo la logica di Boole in quella processuale, nel determinare di quante acuse Cesare è colpevole non è possibile discernere tra nessuna, alcune e tutte. La cosa non deve sembrare bizzarra, perché è usuale nei processi americani: basterà rammentare il “caso O.J. Simpson”, o il proscioglimento dei fondatori dell’organizzazione armata dei Weathermen: questi imputati sono non-processabili, e dunque a piede libero, perché le prove a loro carico furono raccolte violando il diritto di difesa, e dunque le accuse loro rivolte si rivelano indecidibili. Ebbene, è proprio quello che avviene se trasliamo la rilevanza processuale del pentito dal rito inquisitorio (dove la sua parola era legge, anche in assenza del dichiarante in aula) al rito accusatorio (nel quale al dichiarante è richiesto di fornire prove certe e ostensibili a sostegno delle sue accuse). Oggi, riaprendo molti processi per “banda armata” o “terrorismo”, molte condanne si tramuterebbero in assoluzioni: questa constatazione non è inficiabile dal principio che non si può processare due volte per lo stesso reato un imputato (ma questo principio deve valere anche per l’esame della richiesta di estradizione di Cesare). Non si tratta di riaprire i processi, ma di appalesare l’illogicità rebus sic stantibus di molte posizioni giudiziarie, magari per reimpostare in modo più attento e giuridicamente sensato una campagna per l’uscita dai cosiddetti “anni di piombo” (giacchè, sia detto per inciso, siamo da tempo rientrati nei vecchi, cari “anni di merda”).
Una campagna — vengo al terzo punto — che va condotta per portare a casa dei compagni, non così, tanto per far finta di essere sani. A partire da una contraddizione interna al diritto, che va allargata dalla critica materialistica: la contraddizione tra la certezza del diritto (che impone la punibilità, anche temporalmente differita, del delitto) e lo scopo della pena, che è la “riabilitazione” del reo. A costo di essere realisti sino al cinismo: che finalità (una volta esclusa quella emergenziale di usare la pena come grimaldello per ottenere una confessione utile alle successive indagini) ha condannare un individuo che ha vissuto una vita palesemente difforme dal reato commesso un quarto di secolo or sono, praticando una soluzione di continuità di spessore esistenziale? E dove va a finire l’uguaglianza formale degli uomini davanti alla legge, se alle elezioni abbiamo visto e vedremo candidarsi terroristi fascisti — da Delle Chiaie a Tilgher, sino a Fiore, e magari a Freda — che i complessi disegni del diritto rendono “non punibili” per rispettabilissime alchimie procedurali — ma pur sempre pervicacemente intenti a perpetuare i disegni eversivi di ieri, senza soluzione di continuità, mentre compagni come Cesare Battisti hanno, come alternativa esistenziale, la galera o una stentata vita ai margini della miseria? Hic Rhodus…
Girolamo De Michele è autore di Tiri mancini. Walter Benjamin e la critica italiana (Mimesis, 2000), Felicità e storia (Quodlibet, Macerata 2001), e numerose voci filosofiche dell’enciclopedia multimediale Encyclomedia e di diversi saggi sul pensiero filosofico contemporaneo. E’ anche co-autore (assieme a Umberto Eco) di una storia del concetto di Bellezza in CD-Rom (Opera Multimedia). Ha curato un volume su Deleuze (Gilles Deleuze. Una piccola officina di concetti, Discipline filosofiche 1, 1998), l’edizione italiana di Michael Hardt, Gilles Deleuze, Un apprendistato in filosofia (a/change, 2000) e un inedito di Èlie Wiesel (La memoria e l’oblio, in arcipelago. 4, 1999).
Nei primi mesi del 2004 Einaudi Stile Libero darà alle stampe il suo primo romanzo, Tre uomini paradossali, segnalato alla casa editrice dal gruppo di lettori-giapsters I Quindici.