di Roberto Revello
[Lo scritto I tristi Psicotropici dell’antropologo sciamanofobico di Piero Cipriano, recentemente pubblicato su “Carmilla”, ha dato il via a una discussione sul libro Psicotropici (Meltemi, 2020) di Jean-Loup Amselle. Riportiamo di seguito un contributo inviatoci da Roberto Revello, traduttore del volume – ght]
Viviamo in un paese che in materia di “mondi magici” non può fare a meno di richiamarsi anche alla lezione di Ernesto De Martino, un antropologo e storico delle religioni non propriamente passato “dall’altra parte”, ma che sicuramente si è mosso pericolosamente vicino ad aree che al tempo bastava bollare come “irrazionali”. Oggi il clima è profondamente mutato e andare a indagare e a ricercare un senso e un’efficacia in pratiche altre rispetto alla razionalità tecnica dell’occidente è una cosa molto diffusa, tanto in ambito di vasto pubblico quanto in ambito di ricerca accademica. De Martino, anche recuperando la lezione di Gramsci, vedeva nel meridione ancestrale una cultura subalterna in estinzione. Oggi, quello spirito gramsciano dovrebbe in qualche modo farci rovesciare la prospettiva, ma sempre nell’ambito di collocare in una cultura all’interno del suo effettivo spazio socio-economico (senza necessariamente essere riduzionisti). Noi possiamo ancora fingere di incontrare mondi magici e incontaminati, che un bel tour nelle vie dello sciamanesimo amazzonico sia un’esperienza altra se non addirittura di contestazione, ma così ovviamente non è. E anche se si fanno le cose più seriamente, magari con impegno politico a fianco delle popolazioni subalterne della America Latina o impegnati in una seria ricerca di pratiche terapeutiche diverse dalla medicina ufficiale, resta pur sempre legittima la domanda se in qualche modo non si sia sempre dentro a un ingranaggio più grande e a cui è difficile sfuggire, esattamente quello del nostro mondo inglobante, con il suo ordinamento liberista.
Tale domanda se la pone in maniera radicale Jean-Loup Amselle nel suo libro Psicotropici (Meltemi, 2020), in coerenza con una sua serie di interventi che sarebbe estremamente utile considerare come elementi di autocritica per i diversi orientamenti della cultura di sinistra. Notoriamente si è profondamente confrontato, ad esempio, con il postcolonialismo, avanzando dubbi interessanti sulla sua strategia di spostare le questioni fondamentali nell’unico problema dell’emancipazione di una identità che lotta per il riconoscimento, in una dialettica servo-padrone mai in grado di sciogliere la servitù in sé. Si veda appunto il volume pubblicato ai tempi da Meltemi (2009), Il distacco dall’occidente, che ha anche interessanti pagini dedicate a un Gramsci postcolonialista che non corrisponde esattamente al Gramsci nella sua interezza. Un’ulteriore utilità delle osservazioni scomode di Amselle potrebbe consistere anche nel fatto che potrebbero essere di aiuto per andare a fare un po’ di chiarezza su un altro tormentone degli ultimi anni a sinistra, ovvero le accuse di “rossobrunismo” (si veda il suo libro Les nouveaux rouges-bruns: le racisme qui vient, Lignes, 2014). Quasi mai, quando vola un’accusa del genere contro qualcuno, ci si spinge al di là di un attacco ad hominem, parecchio fastidioso e da comari, ma le analisi di Amselle a nostro avviso ci indirizzano su una buona strada quando improvvisamente ci si interroga su certe inquietanti vicinanze tra un anticapitalismo che recupera le tradizioni e fa sua una certa critica alla modernità… tutto bene, se continua a mantenere un distinguo, cioè proprio quell’attenzione alla componente socio-economica che invece il pensiero di destra ricopre con le sue solite essenze (razza, ethnos, identità culturale, ecc.).
E veniamo al presunto attacco snob che Amselle avrebbe compiuto senza rispetto per la ricchezza e complessità dello sciamanesimo amazzonico e il suo utilizzo rituale e terapeutico dell’ayahuasca. Non essendo per vocazione uno studioso di religion studies o uno psicoterapeuta, ma un antropologo sociale, ha circoscritto il suo lavoro a un aspetto ben specifico: gli occidentali che si recano in Perù per provare gli effetti dell’ayahuasca. Le sue osservazioni lo hanno indotto a ritenere di trovarsi di fronte a un altro dei classici modi con cui persone anche con disagi significativi (malattie fisiche, psicologiche e psichiche, tossicodipendenze) si concedono a pratiche e immaginari che giocano un ruolo adattivo e riparatore. Amselle, che evidentemente non è convinto di vivere in un mondo che, per quanto brutto, è il migliore possibile, sostiene che questa funzione adattiva e riparatrice finisce per essere funzionale a un consolidamento dell’ordinamento economico che domina il mondo, piuttosto che contestarlo. Esattamente come accade nello “sciamanesimo” psicoanalitico occidentale, dove evidentemente il ruolo terapeutico finisce per funzionare da palliativo, non per una connessione essenziale, ma per le pratiche che in effetti sono in corso.
Amselle non ha argomentazioni da presentare per dire che tutti gli sciamani – o tutti gli psicoterapeuti – sono dei truffatori al soldo del capitale. Con onestà intellettuale, nel libro racconta di essersi posto dei limiti, in un certo momento della sua vita, per una scelta ben precisa. Confessa anche una fascinazione subita, nei riguardi dei mondi magici, così come racconta di essersi servito dell’aiuto della psicoanalisi per delle sue sofferenze personali. Non è allora legittimo parlare di una sua fobia o di una diffamazione a riguardo. Per riprendere una nota avvertenza di Furio Jesi, in un suo celebre saggio sul “mito”, si è comportato come il coro dell’Edipo a Colono che, per parlare con Edipo, gli impone di uscire dal recinto sacro. Per parlare di questi aspetti socioeconomici dello sciamanesimo incentrato sull’ayahuasca ha deciso di non bere la sostanza psicotropa. Piano di osservazione opportuno per le sue finalità che non erano quelle di indagare le potenzialità terapeutiche contro la tossicodipendenza, oppure di descrivere l’esperienza visionaria di chi assume l’ayahusca.
Mi sembra che uno psichiatra con grande esperienza e una precisa sensibilità possa non ritenersi offeso da questo “surplus” di analisi. Mi limito a una mia esperienza personale. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in provincia e in un ambiente culturalmente (ed economicamente) decisamente poco ricco. In famiglia a uno stretto parente viene diagnosticata la schizofrenia. Un giorno di crisi particolarmente forte del suddetto, con mia madre scappiamo letteralmente di casa e ci rechiamo al centro di salute mentale della zona dove incontriamo uno psichiatra molto giovane e molto liberale che, preoccupato giustamente di dover richiedere un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), si rivolge a noi, evidentemente in difficoltà, con un laconico: “lasciatelo sfogare” (“laissez-faire” si potrebbe anche dire). Ovviamente, con gli anni, non ho ricavato da questa esperienza l’augurio di ritornare alla riapertura dei manicomi, tutt’altro. Ma mi sono posto spesso il problema di come il luogo e il ceto sociale in cui ci si ritrova cambi il modo di essere curati e il modo di essere alternativi. Avere cure “liberali” in una società tutt’altro che libera è una grossa ingiustizia. La psicoanalisi che non si fa veramente sociale è un fallimento. Le terapie cosiddette alternative che diventano esotismi elitari o sperimentazioni non destinate a potersi diffondere lo sono altrettanto.
Per questo le frecciatine di Amselle hanno il loro perché. Che le dica uno snob francese accademico, come può pensare qualcuno, o un onesto intellettuale, come penso io, non fa la differenza.