di Luigi Franchi
Non appena il giudice emise la sentenza di colpevolezza piena tirai un sospiro di sollievo. L’atarassia più assoluta regnava in me, la mia mente non si dibatteva più tra l’infondata speranza nell’assoluzione e il desiderio di una repentina condanna. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di porre termine a quel processo che durava ormai da anni, senza alcun sviluppo concreto.
Quando la corte si ritirò, per prima cosa gettai un’occhiata a mio figlio per tranquillizzarlo: il ragazzino che in passato parlava di me ai suoi amici come il “papà a righe” per via delle sbarre che avevano contraddistinto ogni nostro incontro si era trasformato in un giovanotto dalle spalle larghe e con un accenno di baffi sul viso. L’inappellabilità della mia condanna l’avrebbe finalmente liberato da ogni obbligo morale nei miei confronti e reso capace di perseguire i suoi progetti senza la preoccupazione di possedere un padre dalla condizione legale incerta.
I primi periodi nel penitenziario di Nuova Milano non furono affatto facili: il cameratismo dei detenuti più anziani, le gerarchie all’interno della popolazione carceraria e le attenzioni violente di diversi secondini mi avevano creato più di un grattacapo. Col tempo, tuttavia, anche grazie alla mia capacità di intrattenere buone relazioni un po’ con tutti, venni assorbito all’interno delle dinamiche antropologiche della prigione e finii per diventarne una delle personalità di spicco. Il fatto che nessuno conoscesse il motivo della mia detenzione, poi, faceva sì che chiunque fosse spaventato dalla possibilità di avere a che fare con un potenziale pluriomicida.
Dopo quattro anni di cella, il mio avvocato si presentò con una delle notizie più incredibili che avessi mai sentito: la mia fedina penale sarebbe tornata candida se avessi accettato di sottopormi a un esperimento del Ministero della Giustizia. Inutile dire che accettai immediatamente: quattro anni di carcere, a causa della ripetizione incessante della routine quotidiana, appaiono lunghi un secolo e se non mi fossi deciso presto a far qualcosa in merito mi sarei ritrovato di lì a poco ucciso dalla consuetudinarietà oppressiva della galera.
L’esperimento si addiceva in tutto e per tutto alla mia personalità terrorizzata dalla monotonia dell’ergastolo: in cambio della libertà il Ministero avrebbe innestato nel mio corpo una carica esplosiva dotata di un timer di cui nessuno conosceva la durata. In questo modo si offriva al condannato una libertà a tempo determinato, sicuramente preferibile all’inquietante “fine pena mai”, mentre dall’altra parte il Governo si assicurava nel corso degli anni un certo numero di esplosioni in giro per l’Italia da imputare, secondo l’occorrenza, ad anarchici, ambientalisti o anacronistiche organizzazioni terroristiche di matrice sinistrorsa.
Ricordai che da ragazzino avevo visto un film in cui a un povero disgraziato, per prevenire il suo ritorno al crimine, veniva effettuato un lavaggio del cervello tale da non renderlo più capace di ascoltare la musica di non so quale compositore tedesco. Questo mi lasciò un attimo perplesso sulla convenienza della mia azione: la possibilità, seppure a breve termine, di rifarmi una vita, tuttavia, mi convinse ad accettare l’offerta del mio avvocato.
Quando si ha una bomba in corpo e questa è sul punto di esplodere in qualsiasi momento immaginabile, la tua vita cambia radicalmente. Per prima cosa non potevo in alcun modo avvicinare mio figlio per tentare di ricucire il nostro legame: se la bomba fosse esplosa mentre ero in sua compagnia avrei rinforzato ulteriormente il mio ruolo di peggior padre della storia. Allo stesso tempo, anche il rapporto con le donne mutò del tutto: la certezza della morte incombente agiva inconsciamente sul mio sistema nervoso, obbligandomi a terminare in fretta ciò a cui i sessuologi di tutto il mondo avevano accordato una durata media assai più lunga. In questo modo, tra lacerazioni famigliari e desiderio inappagabile, compresi di avere fatto una pessima scelta e realizzai come la routine carceraria fosse il paradiso rispetto all’inettitudine e agli sberleffi causati dalla bomba.
Come ho detto in precedenza, la mia abilità di entrare in contatto con la gente facilitò il mio piano per trasformare la mia condanna in una vendetta contro coloro che giudicavo responsabili per la mia incarcerazione. La decisione stupì molti dei miei conoscenti allorché decisi di divenire un accanito sostenitore di un determinato partito di cui è meglio non fare il nome. Durante le adunate nelle piazze mi trovavo sempre tra le prime file, vicino al palco, speranzoso che l’inevitabile detonazione potesse avvenire nel momento in cui il leader del partito fosse il più possibile vicino a me. Seguendo questo piano astuto, girai l’Italia per il lungo e il largo, ad ogni tappa del mio peregrinare provavo un piacere sadico nel fare amicizia con coloro che durante i comizi si trovavano al mio fianco: da un momento all’altro sarebbero potuti saltare in aria, con il sottoscritto e il politico dal sorriso artefatto.
Il caso volle che l’entrata in atto del congegno innestato nel mio corpo avvenisse proprio nella mia Nuova Milano. Mentre il segretario del partito parlava di eliminare qualche tassa qui e qualche tassa là per il beneficio di pochi intimi, sentii provenire dal mio braccio uno stranissimo scricchiolio. Capii che era il momento della bomba, mi preparai al botto e… niente! Non accadde un bel niente! Anzi, sul mio braccio comparve la scritta “Ehi bello, la prossima volta impari a violare la legge. Te la sei presa una bella strizza, no?”.
Rimasi di sasso nel vedere quanto era apparso sul mio braccio. Avevo seguito tutta la campagna elettorale del politico per nulla. Quando guardai il mio vicino sbiancai: aveva la mia stessa espressione sconvolta e il medesimo tatuaggio. Dopo una breve consultazione capimmo finalmente tutto: il capo del partito, nonché primo ministro del Governo, era consapevole dell’odio che lo circondava e quindi aveva trasformato un numero incredibile di carcerati in bombe umane, consapevole che questi si sarebbero per certo diretti alle sue adunate per attentare alla sua vita. Il capo del governo in questo modo permetteva alla Nazione lo svuotamento delle tanto vituperate carceri sovraffollate e, allo stesso tempo, si garantiva un seguito fenomenale ai suoi comizi.
Deluso dalla presa in giro della quale ero stato vittima, mi consolai all’idea di poter rivedere mio figlio e mi recai subito presso la nostra vecchia casa sui Navigli. Qui, forse grazie alla capacità del tempo di risanare anche le ferite più profonde, mio figlio mi strinse in lacrime tra le sue braccia.
Se un secondo prima, mio figlio e io potevamo essere considerati un’unica persona, tanto intenso era stato il nostro abbraccio, un momento dopo i passanti avrebbero faticato a identificare a chi appartenessero le centinaia di brandelli di carne che galleggiavano placidi sui Navigli. La bomba era esplosa, la colpa sarebbe stata data a una caldaia difettosa e il meccanismo infernale del politico sarebbe continuato per anni.