di Mauro Baldrati
Un anno – era il 2005 – ho partecipato a una serata di gala del Premio Strega, la presentazione dei cinque finalisti: Maurizio Maggiani, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Edoardo Nesi e Valeria Parrella. L’evento si teneva a Bologna, e io andai come inviato del sito di Giulio Mozzi Vibrisse. Per la verità mi inviai da solo, ma scrissi comunque un reportage che pubblicai sul sito, che purtroppo ha chiuso i battenti per riconversione completa, e tutto il materiale pregresso andò perduto. Giulio ci invitò, prima di procedere, a fare un back up dei nostri pezzi, ma in quel periodo non avevo tempo per una lunga ricerca nell’archivio. Ma è più probabile che credessi in una certa volatilità delle opere, che appaiono e scompaiono, come tanti casi della vita.
Vinse Maurizio Maggiani (che nei comunicati stampi era diventato Baggiani). Non lessi il suo libro, Il viaggiatore notturno, come nessuno dei libri degli altri finalisti. Non per qualche motivo particolare. Non per snobismo. A parte i thriller e i noir, non riesco quasi più a uscire dalla lettura e rilettura dei cosiddetti “classici”, molto Ottocento e anche Novecento. Non è un vanto, anzi, la considero una lacuna. O addirittura una forma di difesa. Ma così è.
A quei tempi non seguivo le questioni letterarie; partecipavo alle discussioni sui blog, spesso alle risse, su vibrisse e Nazione Indiana. Vertevano soprattutto su testi pubblicati su quei blog, che erano aggrediti con estrema violenza dai troll, personaggi molto temuti perché avevano come unico obiettivo, che portavano avanti come una missione, la tortura dell’autore, fino alla sua distruzione.
Non le seguivo perché la mia formazione affonda nell’adolescenza della fine degli anni Sessanta/prima metà dei Settanta. Noi avevamo i “nostri” giri, i nostri spazi, le nostre riviste. La critica verso “gli altri” esisteva, e come: la guerra in Vietnam, l’establishment, il razzismo, i diritti civili. Poi intervenne la lotta di classe, lo sfruttamento sul lavoro, la devastazione ambientale per il profitto. Ma erano critiche dei massimi sistemi, in cui comunque abbiamo creduto, e sono convinto che quelli della mia generazione che hanno partecipato a certe controculture siano i più antirazzisti, ambientalisti e rispettosi delle idee altrui dell’intera specie umana.
Questo disinteresse e questa identità collettiva sono proseguite anche nel decennio successivo, quando mi capitò un lavoro nella redazione di Frigidaire, a Roma. Ci rubavano spesso i pezzi, o pezzi di pezzi, senza mai citare la provenienza. Qualcuno si arrabbiava, ma i più si divertivano. Senza alzarsi dalla sedia gli embedded scrivevano di autori, artisti, musicisti ancora sconosciuti che avevamo scoperto noi con gli articoli in prima linea di Stefano Tamburini, Pierfrancesco Pacoda e pochi altri. Non ci riguardava. Che rubassero pure.
Io credo che questo disinteresse per un mondo morente, che si preoccupa solo del suo piccolo profitto, il mondo upper class dell’editoria e annessi che ha smesso di fare ricerca per inseguire la pancia della rimodernata borghesia spaventata e confusa, sia da recuperare. Magari aggiornato, come si fa per il marxismo. Sia da recuperare una certa identità collettiva, una fiducia nel proprio lavoro e non andare in crisi se “loro” non prestano attenzione, non rispondono alle mail, non scrivono recensioni, non espongono negli scaffali delle librerie chi non fa parte del giro upper class. Orgoglio e consapevolezza della propria appartenenza, questa sarebbe la salvezza. Non sarebbe neanche il caso di contestare, di arrabbiarsi. Fatti Loro. Anzi, più modernamente: cazzi loro.
Perché non è vero ciò che scrive Monica Rossi, ossia che gli scrittori che vendono 200 copie non sono veri scrittori (“definirsi scrittori con 200 copie vendute è una grandissima cazzata frutto di una visione distorta dell’editoria prima e della vostra vita poi”) ma falliti rabbiosi che si sfogano sul web con attacchi e insulti: i discendenti dei famigerati troll. No: falliti sono quelli che vendono 200 copie e imitano gli scrittori maggiori. Oppure gli editori piccoli che galleggiano a fatica e imitano le copertine e i contenuti degli editori maggiori.
Ma detta così, 200 copie = fallimento è, come direbbe la stessa Monica Rossi, una cazzata. Perché il fallimento è un concetto borghese, che si basa sul fatto che tutto debba avvenire all’interno di un sistema dove si esalta il mito del successo a tutti costi, del diventare famosi ecc. E’ una sorta di nuova versione del darwinismo sociale, una dottrina reazionaria e irrazionalista che de-storicizza ogni dinamica umana per inserirla in un procedimento solo biologico, per cui i più forti, i più dotati emergono e i deboli, i falliti, sono costretti a subire e a servire. E’ come tra ricchi e poveri. Non c’entrano la storia, l’economia, il sistema. I poveri sono falliti perché non sono riusciti a diventare ricchi, né benestanti. Perché è giusto. Perché è naturale.
Gli scrittori da 200 copie sono tali anche (soprattutto?) perché la classe dominante editoriale li relega negli scaffali verticali delle librerie, quando sono distribuiti. Che al massimo li gratifica con schedine di quindici righe con francobollo della copertina nelle pagine periferiche dei giornali. Tra di loro possono esserci certamente gli imitatori, ma nel gruppo si trovano anche ottimi autori che nessuno caga, che noi di carmilla abbiamo più volte recensito o presentato.
Monica Rossi però scrive anche cose giustissime: che la risposta di questi autori falliti è l’invidia, l’odio verso chiunque abbia successo (altro retaggio dei troll). E’ vero. Ma occorre anche riflettere, non solo da un punto di vista darwinista sociale. Come si deve sentire un emarginato? Non è naturale una forma di rabbia verso il balletto delle super recensioni dei soliti, che sono coloro che vendono?
Vero, ma la rabbia andrebbe lavorata. Gli operai manifestano, espongono cartelli, rilasciano interviste. Gli scrittori falliti potrebbero manifestare, con cartelli contro i padroni dell’editoria? Ho idea che farebbe un po’ ridere.
Marina Cuollo, una ragazza disabile mia amica su Facebook, scrive, sulla sua pagina: “Siamo nel Disability Pride Month e io ci ho messo un po’ a comprendere davvero il significato di orgoglio. Trovare l’orgoglio dentro di noi è un percorso lungo e complicato. Esattamente com’è complicato per una pianta crescere in un terreno ostile.” E’ perfetto: Scrittori Falliti Pride. Sarebbe utile, e benefica, la presa di coscienza della propria classe. E accettare, perché è scontato, che lassù se le cantano da soli, purché si venda. Non bisogna dimenticare, infatti, che i neoliberisti sono eleganti, educati, tengono preferibilmente un profilo basso, purché si venda. Questo è l’Enunciato Unico.
Gli scrittori falliti dovrebbero prendere coscienza che quelli che hanno successo se ne fregano di loro e delle loro sfuriate o “scaracchi” di disprezzo. Per cui dovrebbero ricambiare con lo stesso disinteresse e lasciarli nel loro mondo maggiore desertificato.
Ma detta così è un’altra cazzata.
Primo: non imitare. Significa sognare un successo che è una truffa neoliberista. E quindi è inevitabile il fallimento. Invece cercare uno stile originale, un contenuto originale, magari in controtendenza, ma non ostile. Nessuna sfida antidemocratica al lettore. Questo tra l’altro è valido anche in politica, infatti la comunicazione di molta sinistra antagonista è troppo dura, respinge invece di accogliere.
Secondo, questa presa di coscienza dovrebbe essere condivisa anche da alcuni editori, e soprattutto dai lettori, dei quali la maggioranza insegue i libri famosi, già celebrati, già letti. Pertanto sarebbe fondamentale creare, organizzare un mondo alternativo, come era negli anni antichi che ho citato, dove le parole d’ordine erano dot it! (gli hippies della controcultura anni Sessanta) e do it yourself! (i punk del decennio successivo).
Terzo (soluzione estrema, che non contraddice il primo e il secondo): forse sarebbe meglio darci un taglio. Perché si vuole scrivere a tutti i costi in un sistema simile? Perché non cercare di curare il sintomo, o addirittura la malattia? Può darsi che la letteratura sia in via di estinzione, o addirittura estinta. Come certa musica classica. Come certo jazz.
Ma questo è complicato e difficile. Il processo sarebbe talmente lungo che gli scrittori falliti non riuscirebbero neanche a vederne il primo, timido inizio. Morirebbero prima. Ma esistono i posteri…
In ogni caso riuscire a non voltolarsi nella delusione, nel rancore e nella rabbia impotente fa sentire meglio.
Garantito.
(Le foto: 1 e 2, Walker Evans, 3 M. Baldrati)