di Fabio Ciabatti
Iside Gjergji, Sociologia della tortura. Immagine e pratica del supplizio postmoderno, Edizioni Ca’ Foscari – Digital Publishing, 2019. Il libro è liberamente scaricabile qui
Di fronte al persistere di un fenomeno come la tortura la prima reazione è quella di sgomento e condanna morale. O almeno così dovrebbe essere. Ciò nonostante, per comprendere questa terribile realtà non ci si può limitare a evocare la malvagità innata degli essere umani o i comportamenti devianti dei singoli. Occorre porsi una domanda più radicale: perché gli Stati spingono alcune persone a torturarne delle altre? Affermare l’esistenza di questa spinta significa presupporre che nella società contemporanea vi siano delle dinamiche capaci di favorire l’utilizzo della tortura e che questa, di conseguenza, svolga una qualche funzione nella riproduzione degli attuali assetti socio-economici.
E proprio da questo tipo di considerazioni parte Iside Gjergji nel suo ultimo lavoro Sociologia della tortura. Immagine e pratica del supplizio postmoderno. La prima cosa da chiarire è che la tortura non riguarda il bisogno degli Stati di ottenere informazioni. Essa ha invece sempre come obiettivo finale la disumanizzazione delle vittime e il loro isolamento dalle rispettive comunità di riferimento. Ma c’è di più. Il suo bersaglio non è soltanto il singolo torturato o la singola torturata, bensì il torturato-ceto o torturato-classe. Portare in primo piano la storia sociale dei corpi torturati significa sottolineare che essi non si presentano come semplici corpi biologici soggiogati da un generico potere; sono, invece, corpi che sono in grado di rivelare a quali ceti o classi sociali appartengono e che vengono soggiogati da un potere socialmente e storicamente determinato.
Affermare questo per l’autrice non significa ignorare che la tortura esiste dalla notte dei tempi, ma riconoscere che essa ha una storia nella quale non si presenta sempre uguale a se stessa. Nel mondo premoderno la tortura è apertamente riconosciuta come uno strumento legittimo in mano al potere, mentre in quello moderno la sua legittimità è sottoposta a critiche sempre maggiori fino a che viene formalmente abolita a partire dalla Costituzione degli Stati Uniti nel 1787 e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nel 1789. Questo processo raggiunge il suo apice con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, con le successive convenzioni internazionali ad hoc e con l’inserimento negli ordinamenti giuridici nazionali di previsioni specifiche.
Ma questa è la storia che si svolge alla luce del sole. Nell’ombra, sottolinea Gjergji, la pratica del supplizio non viene mai meno. Se la necessità di salvaguardare i diritti umani diventa ideologia comune, non a tutti, ed è questo il punto dirimente, viene riconosciuta la qualità di essere umano. Un momento fondamentale di questa storia sotterranea è l’incontro che si verifica nelle colonie tra tortura e razzismo. Per rapinare le risorse delle colonie e per sfruttare al massimo la manodopera locale occorreva creare un sistema capace di ridurre i colonizzati a sotto-uomini, semplici cose. La risposta a tale bisogno strutturale fu il razzismo, inteso non come semplice ideologia o credenza ma, per dirla con Sartre, come razzismo-operazione: una prassi con una sua funzione specifica e una sua giustificazione incorporata che poggia interamente sulla violenza. Se il razzismo è concepito in questo modo è facile comprendere come la tortura rappresenti la sua verità estrema, essendo la forma più estrema della violenza. Tortura e razzismo condividono lo stesso obiettivo: distruggere l’uomo senza farlo morire, perché ciò che davvero vogliono è segnare un confine invalicabile tra razze, tra ciò che è umano e ciò che non lo è.
Un altro episodio storico di grande interesse, connesso con il colonialismo, è quello della caccia alle streghe. Non si tratta affatto di un lascito del buio Medioevo, che allunga le sue ombre sull’alba dell’età moderna, ma di una consapevole applicazione nella vecchia Europa dei metodi di dominazione sperimentati con successo da parte dei primi colonizzatori dell’America. Il tutto, sostiene l’autrice, per rispondere ai bisogni crescenti del nuovo sistema di produzione: svalorizzare la forza lavoro femminile, la più richiesta dal “libero” mercato insieme a quella dei bambini, e allo stesso tempo a imporre una gerarchizzazione di genere all’interno della nascente classe dei lavoratori “liberi”. Il legame tra tortura e stregoneria nasconde, nelle sue pieghe, il legame tra tortura e capitale, commenta l’autrice.
Facciamo un salto di alcuni secoli e con Gjergji arriviamo agli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale quando gli USA reclutano centinaia di ex nazisti con una vasta esperienza accumulata nelle torture di massa. Nel 1950 viene realizzato dalla CIA il Kubark Counterintelligence Manual, atroce compendio che ha guidato per molti anni le torture in molti Paesi, introducendo un’importante novità: il corpo non è più l’unico bersaglio della violenza perché il supplizio diventa anche mentale. La progressiva privazione sensoriale del soggetto torturato comporta un più rapido crollo psico-fisico e, in molti casi, non lascia segni visibili sul corpo. L’utilizzo più esteso di quelle che vengono ipocritamente definite “tecniche di interrogatorio” avviene probabilmente nell’America Latina, dove sono funzionalmente collegate agli interessi commerciali statunitensi, colpendo soprattutto uomini e donne provenienti dalle classi lavoratrici e popolari o dalle loro organizzazioni sindacali e politiche.
Giungiamo infine ai nostri giorni e precisamente all’11 settembre 2001. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, sottolinea l’autrice, il discorso pubblico torna a fare aperta menzione della tortura quale pratica legittima. Non fa più scandalo sostenere la necessità di utilizzare tecniche di “interrogatorio coercitivo” per garantire la sicurezza nazionale. Il Patriot Act ha di fatto lasciato la porta aperta al loro utilizzo con l’obiettivo dichiarato di vincere la guerra al terrore. I risultati si vedono presto: vengono pubblicate le foto dei militari americani che, sorridenti, torturano e umiliano i prigionieri iracheni ad Abu Ghraib. Immortalare le torture rientra in una precisa strategia ideata dai vertici militari perché la moltiplicazione delle immagini della tortura diventa essa stessa tortura, la sua forma finale, pericolosamente simile alla spettacolarizzazione premoderna delle liturgie punitive. L’immagine è infatti moltiplicatore di vergogna, minaccia alla reputazione sociale del torturato, perpetuazione dell’umiliazione del torturato e del godimento dei torturatori.
La tortura diventa anche frequente materia di rappresentazione filmica, in particolare nelle serie TV, nota l’autrice. In una di grandissimo successo, 24, la tortura rappresenta il pilastro fondamentale della struttura narrativa: nelle prime sei stagioni (su 8 complessive) ci sono ottantanove scene di tortura in cui Jack Bauer, il protagonista, usa quasi tutte le tecniche a disposizione: minaccia, ricatta, picchia, soffoca, accoltella, spara, folgora, droga. L’orologio che compare costantemente sullo schermo in modalità countdown evoca il più classico ticking bomb scenario, situazione tipo su cui si è impantanato il recente dibattito sulla tortura: è lecito utilizzare “l’interrogatorio coercitivo” per estrarre informazioni che possono salvare vite umane minacciate da una bomba che sta per esplodere?
Al di là dell’estrema improbabilità di questa situazione (che prevede la certezza che un ordigno sta per esplodere e la sicurezza che la persona interrogata ha le informazioni necessarie per sventare la minaccia) è proprio la struttura di questo scenario a risultare mistificante. Il presupposto è infatti che la tortura serve ad ottenere informazioni. Abbiamo visto, invece, che la tortura serve a disumanizzare, attraverso la violenza esercitata su alcuni individui, interi ceti e classi. E sappiamo anche che i corpi che subiscono il supplizio sono socialmente connotati, immersi negli attuali rapporti sociali di produzione. Giungiamo dunque a quella che è la tesi più forte del libro di Iside Gjergji. In ultima istanza la riduzione a nuda vita di interi gruppi sociali è funzionale al “controllo e alla svalorizzazione della loro forza lavoro”. Per questo motivo
maggiore è il bisogno di controllo sulla forza lavoro, maggiore è l’uso della tortura da parte degli Stati, a prescindere dalla forma politica e istituzionale che questi possono assumere. La tortura di massa ha segnato i momenti di passaggio o di grave crisi dei sistemi di produzione mentre, nelle fasi di relativa stabilità, essa è servita a puntellarli. L’elemento stabile nel suo orizzonte storico e geografico, ovvero la provenienza sociale delle sue vittime, rappresenta una chiara conferma.1
Commentando il ragionamento dell’autrice, si può sostenere che probabilmente non è un caso che la storia segreta e quella palese della tortura si ricongiungono all’inizio del nuovo millennio. L’imperativo categorico del capitale in salsa neoliberista, infatti, è stato quello di riconquistare il pieno controllo e aumentare lo sfruttamento di una forza lavoro che nel tornante storico degli anni sessanta e settanta, a livello internazionale, si era ribellata, a volte con successo, alla sua subordinazione. Una necessità che permane più che mai acuta ancora oggi, anche in considerazione della situazione di crisi economica e sociale generalizzata che stiamo vivendo. Se questo è vero non possiamo considerare la tortura come un residuo del passato destinato a scomparire.
Le cicatrici che la tortura (post)moderna lascia sui torturati di oggi non sono altro che il prosieguo, o l’anticipo delle cicatrici che il mercato, dove sono costretti a vendere la loro forza lavoro, ha già lasciato e continuerà a lasciare. Con la differenza che quelle lasciate dalla tortura si manifestano in una versione più intensa, più cruenta. I torturatori sono la versione horror di quegli ‘acconciatori’ della ‘pelle’ dei lavoratori, di cui parla Karl Marx quando illustra la sua biopolitica, perché i torturati appartengono, nella stragrande maggioranza dei casi, alle fila di coloro che sono costretti a vendere la loro ‘pelle’.2
Rimanendo a Marx, si può sviluppare ulteriormente il ragionamento di Gjergji sostenendo che non solo la tortura è funzionale allo svilimento della forza lavoro, ma che il lavoro in sé stesso, portando alle estreme conseguenze la logica dello sfruttamento capitalistico, può diventare una forma di tortura.
Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro.3
Nel segreto laboratorio della produzione, sostiene ancora Marx, “il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai”.4 Qui il capitalista deve affermare la sua onnipotenza, cancellando l’umanità del lavoratore, come il torturatore nei confronti del seviziato. La fabbrica deve rimanere un luogo separato, sottratto allo sguardo pubblico e affrancato dalle regole ordinarie, al pari della stanza dei supplizi. Certo non bisogna mai portare questi ragionamenti oltre il loro necessario limite. La tortura, in senso proprio, rimane uno strumento estremo, eccezionale, se paragonata alle “normali” sofferenze che può subire un lavoratore, per quanto tragiche esse possano essere. Ma occorre aggiungere che durante le situazioni di crisi, come quella che stiamo attraversando, i confini tra norma ed eccezione diventano maggiormente porosi. Basti qui ricordare, per concludere con le parole dell’autrice, che per i torturatori di ogni latitudine, il razzismo “sperimentato nella vita quotidiana rappresent[a] una lunga ed efficace palestra di addestramento”.5