di Gioacchino Toni
Nonostante in tutte le lingue occidentali esistano numerose espressioni che ricorrono al colore nero per alludere a qualcosa di inquietante, funesto o irriducibilmente non omologabile, non di meno rappresenta anche il colore dell’eleganza formale e del potere. Se il nero lo si vede immancabilmente sfilare nelle passerelle di alta moda, altrettanto caratterizza i guardaroba di diverse culture alternative giovanili e se da un lato identifica le frange estreme di ribellione metropolitana, dai vessilli anarchici, agli autonomen, fino ai black bloc, altrettanto distingue l’abbigliamento dei paladini del binomio law & order, dalle divise di alcuni corpi di polizia alle toghe in uso nei tribunali.
Se oggi viene dato per scontato che il nero sia un colore, non sempre è stato così. Nel corso dei primi secoli dell’Età moderna il nero ed il bianco sono stati allontanati dall’universo dei colori, tanto da rappresentarne un’alternativa, ed è soltanto con il Novecento che nell’immaginario collettivo, nelle scelte artistiche e negli studi scientifici, è stata abbandonata la plurisecolare rimozione delle proprietà cromatiche del bianco e del nero.
Nell’ambito delle sue ricerche volte a ricostruire la storia dei colori nelle società europee, la storia del nero è stata attentamente indagata da Michel Pastoureau nel suo Noir. Histoire d’une couleur (2008) – Nero. Storia di un colore (I ed. 2013, Ponte alle Grazie) – mettendola in relazione con la storia di altri colori, in particolare con quella del blu, a lungo considerato dall’immaginario occidentale come un “particolare tipo di nero”.
Nella sua ricostruzione Pastoureau procede consapevole del fatto che ogni descrizione ed ogni notazione di colore è inevitabilmente culturale e ideologica e che non è possibile proiettare le definizioni, i concetti e le classificazioni del colore propri della contemporaneità sul passato in quanto inevitabilmente altri rispetto a quelli in uso nelle società lontane. «La nozione di colori caldi e colori freddi, di colori primari e complementari, le classificazioni dello spettro o del cerchio cromatico, le leggi della percezione o del contrasto simultaneo non sono verità eterne, ma solo tappe della mutevole storia delle conoscenze» (p. 17).
In Europa, nel periodo compreso tra la fine dell’Età medievale ed i primi secoli della modernità, dopo essersi guadagnati uno statuto speciale grazie all’invenzione della stampa, alla diffusione dell’incisione ed alla riforma protestante, il nero ed il bianco finiscono col perde progressivamente il loro statuto di colori, tanto da venire letteralmente esclusi dalla nuova catalogazione derivata dalla scoperta dello spettro cromatico, poco dopo la metà del Seicento, da parte di Isaac Newton.
«Tra due secoli particolarmente oscuri, il XVII e il XIX, quello dei Lumi è una sorta di oasi colorata. […] Quasi ovunque arretrano i toni bruni, viola o cremisi, le sfumature scure e sature, i contrasti violenti in uso nel secolo precedente. Nel campo dell’abbigliamento e dei mobili trionfano le tinte chiare e luminose, i colori allegri, le tonalità “pastello”» (p. 218). Anche se tali cambiamenti sono più evidenti nelle classi sociali più elevate, sostiene Pastoureau, riflettono comunque un’atmosfera generale che, dagli anni Venti, si prolunga fino agli anni Ottanta del secolo in Francia, Inghilterra e Germania, mentre in altri paesi il legame con le tinte scure appare più duraturo.
Nella seconda metà del Settecento il nero ricompare attraverso l’esotismo: «nei decenni 1760-1780, grazie all’arte e alla letteratura nasce la moda dell’uomo nero. Sull’onda dell’esotismo viene spesso ritratto da pittori e scultori, mentre diversi romanzieri fanno delle coste africane e delle loro isole l’ambientazione ideale per storie romanzesche» (p. 225). Gli africani di pelle nera, a lungo chiamati “Mori”, nel Settecento diventano “Neri” o “Negri” e, verso la fine del secolo, con l’abolizione della schiavitù da parte della Convenzione francese nel 1794, per la prima volta iniziano ad essere definiti “di colore”: tale «assimilazione lessicale di un uomo dalla pelle nera a un uomo “di colore” sembra comunque preparare il ritorno del nero, molto prima del bianco, all’interno dell’ordine cromatico» (p. 224).
Se la curiosità per le colonie e gli africani resta un fatto abbastanza marginale, è piuttosto l’ondata romantica che attraversa l’Europa artistica e letteraria, a rivalutare, pian piano, il nero.
Alla comunione con la natura, ai sogni di bellezza e di infinito succedono idee nettamente più cupe che resteranno in primo piano sulla scena letteraria e artistica per quasi tre generazioni. Rifiutare la sovranità della ragione, proclamare il regno dell’emozione, versare lacrime e autocommiserarsi non basta più: l’eroe romantico è diventato un personaggio instabile e angosciato, che non solo rivendica “l’ineffabile felicità di essere tristi” (Victor Hugo) ma si crede segnato dalla fatalità e si sente attratto dalla morte. Fin dagli anni sessanta del Settecento – The Castle of Otranto di Horace Walpole esce nel 1764 – i romanzi “gotici” inglesi avevano imposto un certo gusto per il macabro, ma questa moda si accentua al volgere del secolo – The Mysteries of Udolfo di Ann Radcliffe è del 1794, The Monk di Matthew G. Lewis del 1795 – e con essa il nero fa il suo grande ritorno. È il trionfo della notte e della morte, delle streghe e dei cimiteri, dello straordinario e del fantastico. Satana stesso riappare e diventa l’eroe di numerose poesie e di molti racconti – in Germania quelli di Hoffmann; in Francia quelli di Charles Nodier, di Théophile Gautier e di Villiers de L’Isle-Adam. Il Faust di Goethe esercita in questo campo un’influenza notevole, soprattutto la sua prima parte pubblicata nel 1808. […] La storia si svolge in un’atmosfera particolarmente nera. Non vi manca nulla: la notte, la prigione, il cimitero, il castello in rovina, la cella, la foresta, la caverna, le streghe e il sabba, la notte di Walpurga sulle alture del Blocksberg, nelle montagne dello Harz. L’epoca di Werther sembra molto lontana, e al blu del suo abito si è sostituita, sotto la penna di Goethe, una tavolozza che più scura non si può (pp. 227-229).
Nella primavera del 2019, il parigino Musée d’Orsay ha dedicato la mostra “Le modèle noir de Géricault à Matisse” alle problematiche estetiche, politiche, sociali e razziali, oltre che all’immaginario sotteso alla rappresentazione dei “soggetti neri” nelle arti visive secondo una scansione in tre sezioni dedicate ad altrettanti periodi: l’era dell’abolizione della schiavitù (1794-1848), il periodo della “Nuova pittura” fino alla scoperta, da parte di Matisse, del cosiddetto “Rinascimento di Harlem” – movimento artistico-culturale afroamericano sorto nei primi anni Venti negli Stati Uniti – e, infine, i primordi delle avanguardie novecentesche e le successive generazioni di artisti post-bellici e contemporanei.
Anche l’abbigliamento vira al nero alla fine del Settecento per poi imporsi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda Rivoluzione industriale fino agli anni Venti del Novecento.
È il tempo del carbone e del catrame, quello delle ferrovie e del bitume, più tardi quello dell’acciaio e del petrolio. Ovunque, l’orizzonte diventa nero, grigio, marrone, scuro. Il carbone, principale fonte di energia per l’industria e i trasporti, è il simbolo di questo nuovo universo. […] Nella tavolozza dei neri non c’è ormai più posto per la poesia e la malinconia: il carbone porta con sé il fumo, la fuliggine, la sporcizia, l’inquinamento. Il paesaggio urbano si trasforma profondamente, le fabbriche e le officine si moltiplicano, le strade cambiano aspetto, il contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri si accentua: pietra bianca e vegetazione da un lato, sporcizia e miseria dall’altro. Inoltre, gli uomini con le loro attività aprono tutto un mondo sotterraneo. Non solo quello della miniera, che diventa il luogo simbolico delle mutazioni industriali e delle tensioni sociali, un luogo particolarmente oscuro e pericoloso, dove le “facce nere” rimangono vittime del grisù e della silicosi; ma anche quello dei tunnel, delle gallerie, delle officine situate nel sottosuolo e anche delle prime metropolitane inaugurate a Londra nel 1863 e a Parigi nel 1900. Si circola sotto terra, si lavora in fabbrica, si vive rinchiusi, si illumina con il gas, più tardi con l’elettricità; la luce si trasforma a sua volta e con essa si trasformano lo sguardo e la sensibilità. Mentre il sole e l’aria aperta diventano un lusso inaccessibile per una parte della popolazione urbana, nuovi sistemi di valori prendono il posto dei precedenti (pp. 232-233).
A mutare è anche l’atteggiamento nei confronti del colorito assunto dalla pelle: alla fine dell’Ottocento a preoccupare l’alta società non sono più i contadini, ma gli operai, sporchi e lividi. Se durante l’Ancien régime e fino alla prima metà dell’Ottocento, per gli appartenenti alla buona società avere la pelle chiara significa distinguersi dai contadini, a partire dalla seconda metà del secolo l’imperativo diviene quello di differenziarsi dagli operai costretti a lavorare in spazi chiusi o sotto terra,
la cui pelle non vede mai i raggi del sole. La sua carnagione e` pallida, grigiastra, inquietante. La “buona società” comincia allora a cercare il sole e l’aria aperta, inizia a frequentare la riva del mare (più tardi la montagna), diventa di bon ton esibire un colorito abbronzato e una pelle liscia. Queste pratiche e questi nuovi valori si accentuano nel corso dei decenni e raggiungono a poco a poco le classi medie agiate; l’importante è non essere scambiati, a qualunque costo, per un operaio! La cosa dura per diversi decenni. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, quando le vacanze al mare e la pratica degli sport invernali a poco a poco si democratizzano e si estendono, negli anni Sessanta e Settanta, a una parte delle classi inferiori, la “buona società” volta progressivamente le spalle all’abbronzatura, ormai alla portata di tutti, o quasi. È molto più chic non essere abbronzati, soprattutto al rientro dal mare o dalla montagna (pp. 234-235) .
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dunque, le città industriali europee “cambiano colore” a causa del carbone, del fumo e della fuliggine.
Da qui la permanenza negli abiti maschili di colori scuri, in particolare il nero, troppo caro per essere portato dagli operai – le loro tenute da lavoro sono blu o grigie – ma che negli uffici e nel mondo degli affari diventa una specie di uniforme. Questo nero dell’abito si vuole serio e austero e in parte è legato a una solida etica del lavoro che per vari decenni, fino alla Prima guerra mondiale e anche oltre, resta diffusa nel mondo delle banche e della finanza, negli uffici ministeriali e della funzione pubblica, nonché in quelli amministrativi e nelle società commerciali. Questa etica vieta i colori troppo vivaci o troppo vistosi, e considera il nero l’unico segno di serietà e di autorità. Per questo motivo viene usato da tutti coloro che detengono un potere o un sapere: giudici, magistrati, avvocati, professori, medici, notai, pubblici ufficiali (p. 236).
Anche le professioni che richiedono un’uniforme, come poliziotti e gendarmi, fanno uso del nero, almeno fino ai primi decenni del Novecento, quando inizia ad imporsi il blu oltremare, “meno severo” e, pragmaticamente, meno soggetto a mostrare la polvere. Per certi versi il ricorso al nero in ambito lavorativo sembra ridurre le barriere sociali: è utilizzato tanto dai borghesi quanto dagli appartenenti all’alta società, è il colore degli abiti da cerimonia ma al tempo stesso anche quello dei domestici.
Fin dal Cinquecento la riforma protestante impone ad ogni buon cristiano l’allontanamento dai colori troppo vivaci e la preferenza per le tinte sobrie, soprattutto nere/grigie (ma anche bianche) e tale preferenza resta in vigore ancora nella produzione su larga scala di oggetti di consumo di massa delle industrie europee e americane della seconda metà dell’Ottocento, nonostante la chimica industriale permetta già una grande varietà di colori. È il mondo della pittura che, già nell’Ottocento, decide di rispondere all’egemonia del nero optando per colori luminosi sull’onda delle teorie del chimico Eugéne Chevreul e, per certi versi, anche per rispondere alla nascente fotografia che non potendo per qualche tempo riprodurre i colori, finisce con il supportare, di fatto, come più tardi farà il cinematografo, il perdurare dell’egemonia del “bianco e nero”.
Nel corso del Novecento spetta nuovamente ai pittori andare controcorrente rispetto al gusto dominante che nel frattempo sembra aver abbandonato il nero.
Verso gli anni venti-trenta, il nero diventa o ridiventa un colore pienamente “moderno”, come i colori primari (o sedicenti tali): il rosso, il giallo, il blu. In compenso, il bianco e soprattutto il verde vengono guardati diversamente e non hanno sempre diritto a un simile statuto. […] Tuttavia, anche se i pittori sono stati i primi a ridare al nero la sua piena modernità, già alla vigilia della Prima guerra mondiale, e nel corso di tutto il secolo, sono soprattutto i designer, gli stilisti e i sarti ad assicurargli una forte presenza e a lanciare la sua moda nell’universo sociale e nella vita quotidiana. Il nero del design non è né il nero principesco e lussuoso dei secoli precedenti, né il nero sporco e miserabile delle grandi città industriali; è un nero insieme sobrio e raffinato, elegante e funzionale, gioioso e luminoso, insomma, un nero moderno (p. 250).
Dunque, anche nel mondo della moda il nero conquista centralità e sebbene il ricorso ad esso si attenui attorno agli anni Venti del Novecento, questo colore continua a restare irrinunciabile per tale settore. «Una simile predominanza del nero si osserva in altri ambiti creativi (negli architetti per esempio) o in quelli legati al denaro (i banchieri) e al potere (i “decisori”)» (p. 251). Se il nero si propone allo stesso tempo come moderno, creativo, serio, autorevole ed autoritario, esso può mostrarsi anche ribelle e trasgressivo, come attestato dall’abbigliamento adottato da diversi gruppi giovanili poco inclini a sottostare ai valori dominanti.
Poco diffusa nel XIX secolo – è per esempio assente dalle grandi rivoluzioni del 1848-1849, dove si agita solo la bandiera rossa delle forze rivoluzionarie – la bandiera nera appare più spesso nel secolo successivo, quando diventa un emblema della sinistra che si vuole più radicale di quella che sventola la bandiera rossa, come fu il caso in Francia al momento delle grandi manifestazioni studentesche del maggio 1968. Sul piano politico, questo nero ribelle e anarchico non deve essere confuso con altri neri. Da una parte il nero, nettamente conservatore, dei partiti della Chiesa, attivi e influenti nell’Europa del XIX secolo, ma in seguito più in ombra. È il nero dei curati in sottana e dell’abito tradizionale del clero. Dall’altra il nero poliziesco e totalitario delle milizie del Partito fascista italiano (le “camicie nere” organizzate dopo il 1919 per sostenere la marcia verso il potere di Benito Mussolini) e quello, più mortifero, delle SS (Schutzstaffel) e delle Waffen-SS del regime nazista, più a destra delle camicie brune delle SA (Sturmabteilung), liquidate nel 1934 (pp. 252-253).
Riservando un’attenzione particolare all’ambivalenza che storicamente ha caratterizzato la simbologia del nero – considerato sia in modo positivo (come rimando a fertilità, umiltà, dignità, autorità) o in maniera negativa (nel suo veicolare un’idea di tristezza, lutto, peccato, inferno, morte) –, oggi, sostiene lo studioso, il nero vestimentario sembra ormai aver perso quella carica di aggressività che lo ha contraddistinto in passato.
Per secoli, tutti gli abiti e i tessuti che toccavano il corpo dovevano essere bianchi o non tinti. Sia per ragioni igieniche e materiali – li si faceva bollire, cosa che li scoloriva – sia per ragioni morali, i colori vivaci […] erano considerati impuri o disonesti. Poi, tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, il bianco degli indumenti intimi, delle lenzuola, degli asciugamani ecc. si è progressivamente colorato […] Sugli indumenti intimi hanno fatto la loro apparizione nuove tavolozze che hanno a poco a poco assunto connotazioni sociali e morali. […] In opposizione al bianco, colore onesto e igienico, il nero ha avuto a lungo la reputazione di essere indecente o immorale, riservato alle donne libertine, se non alle professioniste del sesso. Oggi non è più così. Non solo il nero non ha più alcuna connotazione che lo rinvii alla prostituzione, né alla dissolutezza, ma da una [trentina] d’anni a questa parte è diventato in Europa occidentale, al posto del bianco, il colore più portato nel campo degli indumenti intimi (p. 254-255).
Nell’immaginario contemporaneo, sostiene Pastoureau, ormai il nero continua ad essere considerato un colore pericoloso o trasgressivo solo nell’ambito dei fatti linguistici e delle superstizioni.
Essi veicolano credenze e sistemi di valori che vengono da lontano, che né i cambiamenti della società, né i progressi tecnici, e neppure le trasformazioni della sensibilità arrivano a modificare o a sradicare. In tutte le lingue europee esistono così numerose locuzioni di uso corrente che sottolineano la dimensione segreta, vietata, minacciosa o funesta del colore nero: “mercato nero”, “lavoro in nero”, “pecora nera”, “bestia nera”, “lista nera”, “libro nero”, “buco nero”, “serie nera”, “messa nera”, “essere di umor nero”, “vedere tutto nero”, “giornata nera” ecc. Espressioni simili, che mettono in evidenza un nero negativo o inquietante, si incontrano in tutte le lingue occidentali anche se a volte ci sono delle differenze tra una lingua e l’altra e per una stessa espressione il colore può cambiare. […] I proverbi e i detti popolari non sono da meno e veicolano fino a date molto recenti un certo numero di superstizioni legate al colore nero. Essi testimoniano della sopravvivenza di credenze o di comportamenti a volte molto antichi (pp. 255-256).
Secondo lo studioso il simbolismo del nero – sia negativo che valorizzante – ha ormai perso buona parte del suo vigore.
Lo “chic” che un tempo potevano rappresentare la redingote, lo smoking, l’abito o il tailleur nero ha perso terreno a causa dell’onnipresenza di questo colore negli abiti quotidiani sia maschili che femminili. L’autorità stessa non si esprime più in nero, né nei palazzi di giustizia, né sul terreno sportivo. I poliziotti e i gendarmi si vestono di blu, i giudici portano di solito abiti civili e gli arbitri hanno abbandonato il nero per ostentare colori vivaci. Così facendo, del resto, hanno perso una parte del loro potere. […] Ovunque altrove il nero sembra essere rientrato nei ranghi, come mostrano i sondaggi d’opinione sui colori preferiti. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Europa come negli Stati Uniti, queste inchieste danno più o meno gli stessi risultati, a prescindere dal sesso, l’età o l’ambiente sociale delle persone intervistate. Tra i sei colori di base – blu, verde, rosso, nero, bianco, giallo, citati qui in ordine di preferenza – il nero non è né il più apprezzato (blu) né il meno amato (giallo) (pp. 257-258).
In conclusione della sua ricostruzione della storia del nero, Pastoureau si chiede se il fatto che il nero oggi venga, per la prima volta, situato a metà della gamma cromatica consenta o meno di identificarlo come un colore medio, neutro, un colore come tutti gli altri. Per certi versi sembrerebbe essere così ma, come si diceva in apertura, al di là di tutte le normalizzazioni proprie della contemporaneità, il nero sembra essere un colore ancora capace di affiancare alla sua banalizzazione-normalizzazione sprazzi di inquietudine, per quanto non del tutto immuni dall’imperante spettacolarizzazione.