di Paolo Lago
Stefania Tarantino, Chiaroscuri della ragione. Kant e le filosofe del Novecento, prefazione di Giuseppe Cacciatore, Guida, Napoli, 2018, pp. 160, € 15,00.
Il recente saggio di Stefania Tarantino, Chiaroscuri della ragione. Kant e le filosofe del Novecento, pone in gioco uno sguardo sulla filosofia dichiaratamente femminile. Uno sguardo che apre a inediti percorsi di liberazione dalla rigidità di un sapere precostituito della cultura occidentale. Il sapere che le filosofe mettono in pratica contribuisce a una “rivoluzione culturale e politica inedita alla storia dell’umanità intera che scalza l’assolutezza delle religioni monoteiste e della volontà di potenza”.
Resistere a un pensiero rigido e maschile, per le filosofe del Novecento, significa, quasi, mettere in atto un meccanismo di resistenza che anticipa le idee basilari delle contemporanee teorie femministe e dei gender studies, le quasi assumono un punto di vista dichiaratamente femminile e ‘altro’ in funzione di una liberazione dalla rigidità del sistema capitalistico (basti ricordare, in questa sede, i più importanti scritti di Rosi Braidotti e di Donna Haraway).
Il libro, come possiamo evincere dal titolo, si concentra dunque sulla continuità sotterranea che lega il lavoro teoretico di alcune importanti filosofe del Novecento a quello di Kant. Sempre nel titolo, l’espressione chiaroscuri della ragione, “evoca un pensare che si sporge sul mistero delle cose, si lascia incantare dalla bellezza di ciò che è senza violenza dimostrativa, pratica attenzione, riconoscenza e accettazione”. Le filosofe prese in esame sono: Simone Weil, Jeanne Hersch, Hannah Arendt e María Zambrano.
L’influsso di Kant sul pensiero di Simone Weil risale ai tempi in cui frequentava il liceo, grazie al suo professore di filosofia Alain. Se, successivamente, la studiosa affrontò diversi aspetti del pensiero di Kant in alcuni scritti giovanili, nel periodo della sua maturità intellettuale si concentra soprattutto sulla Critica del giudizio e sulla definizione del bello offerta dal filosofo di Königsberg. Weil ritiene “che egli abbia colto nel segno quando indica la bellezza come una relazione essenziale tra noi e il mondo”. Come scrive Stefania Tarantino, “attraverso la lettura della terza Critica kantiana che, nel suo splendido procedere è un omaggio al senso più alto della contemplazione pura, Simone Weil si sporge sul versante di un puro desiderare, di un desiderio senza oggetto, base del piacere contemplativo”. Tuttavia, vi sono anche delle differenze importanti che separano il pensiero di Weil da quello di Kant: ella si oppone fermamente al potere coercitivo della ragione sviluppato dal filosofo soprattutto nella Critica della ragion pura. Piuttosto, la filosofa si sporge verso il sentire e il presentire che aprono a “un mistero che non ha nome né forma”. E questa apertura non avviene per mezzo della ragione bensì per mezzo della carne, del corpo: “La rivelazione, nell’assenza, di una presenza è accadimento che riguarda prima di tutto la carne, la nostra corporeità”. Questa radicalità del sentire e del corpo avvicina, per certi aspetti, il pensiero di Weil alle linee teoriche degli studi di genere contemporanei che, appunto, attribuiscono grande rilevanza al corpo e alle sue funzioni (come, ad esempio, nel personal criticism). Si deve poi ricordare che Elsa Morante, nella sua opera poetica Il mondo salvato dai ragazzini, ha incluso Simone Weil (definita come “l’intelligenza della santità. Morta di deperimento volontario in ospedale in età di trentaquattro anni nel 1943”) fra i “Felici Pochi” caratterizzati, rispetto agli “Infelici Molti”, dal disinteresse nonché dalla liberazione dal desiderio e dall’idea del possesso.
Jeanne Hersch si avvicina invece a Kant attraverso la mediazione di Karl Jaspers. Secondo la studiosa, “ogni attività filosofica autentica è dunque radicata in un atteggiamento etico-esistenziale, in un gesto di pensiero che si traduce in un gesto di libertà e che è come «nascosto sotto le operazioni intellettuali»”. Jeanne Hersch non intravede in Kant un metodo chiaro e ben definito, bensì “strati di profondità in un territorio senza fondo”. Commentando la Critica della ragion pratica, Hersch si domanda: “Che cosa devo fare?” e intravede nelle figure di Socrate e Antigone il compimento di un agire in nome di un principio fuori dal mondo (il senso di verità, l’idea del bene, il desiderio di giustizia). Il pensiero di Hersch possiede comunque una dimensione intersoggettiva che lo allontana da Kant: il bisogno di riconoscimento da parte dell’altro. Si tratta, per la filosofa, di un requisito fondamentale per poter essere accettati e considerati come esseri umani. L’umanità non è fatta solo di luce ma anche di zone d’ombra, di chiaroscuri: troppa luce acceca, la presunzione razionale può renderci incapaci di fermarci, di stupirci e di amare – come Jeanne Hersch scrive in Essere e forma – “l’unica profondità davvero impenetrabile: la profondità di ciò che esiste”.
Secondo Hannah Arendt, quella che più si addice alla dimensione politica è la metafora del deserto e delle oasi. Di Kant, Arendt assimila soprattutto l’idea del “pensare da sé” (che, secondo la concezione kantiana dell’illuminismo, equivale al “pensare” tout court). Passione e agire creano oasi nel deserto senza le quali nessuno di noi potrebbe resistere. Il pensiero critico che attraversa il deserto – quindi anche e soprattutto il pensiero critico di Kant – è un’oasi. Arendt riprende la figura di Socrate come esempio di apertura ‘politica’ al pensiero degli altri: una apertura che dovrebbe accompagnare sempre il sapere e che ci trasforma continuamente. Ecco che “Kant è il Socrate dell’età moderna, non soltanto perché come il maestro greco non erige alcun sistema, ma anche perché fu il primo ad aver messo in opera le massime del senso comune: un pensare da sé libero da pregiudizi; un pensiero esposto al pensiero altrui che diventa pubblico nello scambio e sottomesso al criterio della comunicazione”. La domanda che sta al centro dell’interesse e dell’amore di Hannah Arendt per Socrate e per Kant è: “Che cosa ci fa pensare?”. La studiosa – come scrive Tarantino in modo suggestivo – lancia una importante sfida contro il passato e la tradizione del pensiero, quella che non vede alcuna differenza tra pensare e essere interamente vivi: “Solo attraverso l’amore di noi stessi, della pluralità e delle cose del mondo è possibile una nuova rinascita della politica che sappia tenere conto della convivenza umana all’insegna del miracolo della libertà e della singolare unicità”.
Cifra fondamentale del pensiero di María Zambrano è la “ragione poetica”, dettata dalla necessità di tenere insieme la ragione e l’intuizione. Perciò, la relazione filosofica con Kant appare maggiormente di rottura rispetto alle altre filosofe: se il liberalismo moderno appare di stampo razionalista e kantiano, Zambrano prende le distanze da una ragione affidata alla sola razionalità. L’essere umano, in quanto dotato di una naturale poliritmicità, non può affidarsi unicamente alla ragione. Queste idee filosofiche posseggono anche un importante risvolto politico: “Dal liberalismo economico borghese di stampo capitalista, privilegio di poche classi sociali, María Zambrano auspica il passaggio verso una democrazia economica capace di tenere conto di tutti gli esseri umani”. Zambrano problematizza inoltre la figura della donna e del suo pensiero, in aperto contrasto con le idee di Kant, legate ad un universo culturale patriarcale (secondo il filosofo, le donne sono ben lontane dal pensiero razionale). La donna, per Zambrano, è l’espressione del sacro, quindi sempre maledetta, qualcosa che non riesce ad appartenere a questo mondo. Quello della donna è un sentire originario, è un sentire nel deserto, il quale si configura come il luogo dell’esilio attraversato però da una bellezza inafferrabile.
Lo sguardo che le filosofe prese in esame, in continuità o in rottura con Kant, dispiegano sulla cultura del Novecento, è, come già accennato, peculiarmente femminile: si tratta infatti di un punto di vista che problematizza la figura stessa della donna all’interno della temperie culturale e politica. E Stefania Tarantino, magistralmente, dispiega a sua volta il suo sguardo di studiosa e appassionata di gender studies su un aspetto finora poco studiato, in ombra e in chiaroscuro, che lega queste importanti figure a un vero e proprio pilastro del pensiero filosofico come Immanuel Kant.