Conversando con Franco La Cecla
di Andrea Staid
Che regole ci si dà quando si vive in uno stesso luogo? Osservando la vita quotidiana in Sicilia come in Nuova Guinea, nei villaggi tribali come tra chi usa il telefonino, ci si accorge che esistono forme di accordo non scritte su cui si costituisce una reciprocità. Una forma di morale, elastica, che sfuma in un’arte del vivere. Se questa morale manca, o si perde, come accade nelle società in crisi, allora l’idea di legge, di etica, di diritti umani, rimane senza presa. Le società sanno produrre le proprie regole di convivenza e sono capaci di cambiarle e adeguarle alle trasformazioni che le investono. Una conoscenza antropologica e una visione non umiliante della vita quotidiana – una visione che non crede all’individuo isolato e nemmeno al potere supremo delle istituzioni – ci apre un affresco colorato e vivo di come la gente se la cava nel convivere e nel costruire i propri giorni insieme.
D.Le routines sono gli appigli che salvano nei momenti difficili che consentono di vivere i drammi personali e collettivi le crisi epocali e le trasformazioni del mondo, la filosofia e la sociologia hanno chiamato queste strutture ripetitive in vario modo da forme di vita di Wittgenstein alle tecniche del corpo di Mauss all’habitus di Bordieu, puoi spiegarci meglio cosa intendi quando parli di routines?
R. Credo che le routines sono il modo in cui noi ci trasformiamo in qualcosa che diventa quasi oggettivo, sono la passivizzazione del soggetto che simula di essere un po una macchina, un dispositivo di ripetizione. E’ un modo che hanno le culture di fissare il tempo, di renderlo ciclico, di dare allo stare in un posto una stabilità apparente. Sto lavorando in questo periodo sui rosari di preghiera in varie religioni e mi rendo conto che le routines sono una forma di ritualità, e che ogni rito ha un aspetto ripetitivo fondamentale. Su questo ha scritto Hume, ma anche Husserl e questa struttura delle routines è l’equivoca “coazione a ripetere” freudiana, ma Freud aveva capito solo una parte di questa faccenda. La vita quotidiana è costituita dal bisogno di ripetere come dal ripetere i bisogni, i desideri. La struttura del desiderio è ripetitiva.
D. E invece le attese del corpo? la fame, la sete, il desiderio, il sonno?
R. Le attese del corpo sono bisogni in senso un po’ più lato, perché sappiamo che non ci sono bisogni se non all’interno di un contesto per cui ci si può lasciare morire di fame se è in ballo l’identità o l’onore o semplicemente quello che abbiamo intorno non ci sembra un cibo degno e “pensabile”. I bisogni umani hanno la caratteristica di essere desideri insistenti, e in questa insistenza c’è però una costruzione : si impara a desiderare il sesso, il sonno, il cibo. E’ interessante che la struttura dei desideri quotidiani abbia il carattere dialogico dell’insistenza, come se fosse una invocazione, un “deh, concedi a me che….”
D.Fondamentale quando parli dell’antropologia dell’etica ordinaria cioè il tentativo di affrontare nuove situazioni di contatto, scontro, nuovi piani individuali e collettivi che si intersecano, crisi personali e collettive e trasformazioni dovute a queste…Ma cos’è questa etica quotidiana ?
R: L’etica quotidiana è un accordo implicito tra conviventi o coabitanti: ci si mette d’accordo senza quasi accorgersene. E si tratta di regole di buon vicinato che a volte smarginano in una morale ma più spesso rimangono un sistema di buone maniere e di maniere giuste di comportarsi e vivere, dove giuste sta per l’idea della giusta misura e non della giustezza morale. Però questa morale per la vita di tutti i giorni è la base fondamentale su cui costruire tutto il resto. Se non c’è questa costruzione implicita di regole comuni non si può andare “oltre” pensando ad un diritto e a dei diritti umani: La cosa che a me sta a cuore è sostenere che le società sono capaci di produrre una “pre-morale” efficace.
D. Altro passaggio molto interessante nel testo tuo e di Piero Zanini è quando parlate della carne solida del farsi città, la trasformazione dei sogni in possibilità parlando per esempio di piazza Tahrir del Cairo, come un luogo del riscatto…
R. Questa è la rilettura che a distanza di vent’anni faccio, con l’aiuto di Piero Zanini della “mente locale”. La mente locale è possibile solo nella carne viva di un luogo, nell’abitarci e nel diventare parte di esso e nel farlo diventare parte di sé. Per questo i luoghi sono importanti, perché siamo carne e geografia e per questo stanno diventando molto più importanti dei luoghi virtuali. Piazza Tahrir è più forte simbolicamente della rete come lo è Wall Street. Non si può occupare la rete come si occupa un luogo. E’ quello che per esempio il movimento dei grillini non capisce. Il bisogno di carne, di fisicità, di incontro effettivo vis a vis è ben diverso dalla rete. Per questo loro non riescono a fare “corpo” insieme, perché sono ancora defisicizzati e non hanno un luogo simbolico a cui aderire.
D.Credo che una morale per la vita di tutti i giorni significa che le regole che la gente si dà per vivere sono regole vive e non sono vissute più come comandamenti esterni, ma come maniere di fare, come pratiche di vita, come forme di vita che appunto possono anche conformarsi con le nuove accezioni. Con l’esplodere dei flussi migratori cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro nelle nostre metropoli, come possono reagire le istituzioni che invece da sempre impongono le proprie regole e che difficilmente capiranno la rinegoziazione culturale che nasce dal basso?
R. Le istituzioni sono sempre indietro rispetto al farsi e rifarsi delle società. Questa è l’intuizione dell’antropologia. Le altre Scienze umane non hanno capito questa capacità autopoietica delle società e sono ancora dentro ad una visione pessimista dei “ dispositivi sociali”. Pensa a Bauman, la sua lettura rimane moralistica al fondo e non coglie nelle società le spinte che stanno alla base del loro riprodursi. E’ vero che è sempre possibile la disgregazione, lo sfascio sociale, ma è possibile anche il contrario proprio perché le società si muovono, muoiono, rinascono, rimangono implicite e sono trascinate da derive che le fanno inabissare o riemergere: abbiamo bisogno di una lettura alla Benjanim delle società. Non si tratta di credere ad una intelligenza collettiva, ma piuttosto ad una deriva di sogni, ad un fiume implicito e spesso incosciente che porta avanti i desideri come strutture sociali.
D.Cosa ne pensi dell’antropologia schierata per la difesa dei diritti dei popoli indigeni? Qual’è la tua posizione sul relativismo nella ricerca etno-antropologica ?
R.Ovviamente questo è un grande tema: gli antropologi hanno il merito di avere dato dignità alle culture indigene ed il demerito di averle mitizzate. Quella che viene chiamata “applied anthropology” è un impegno per difendere le società, ma spesso bisogna difendere gli individui contro le società, come fa Unni Wikan nei pasi scandinavi quando accusa lo stato di essere tollerante nei confronti delle “minoranze etniche” in situazioni in cui è in gioco la vita di giovani donne musulmane che poi vengono uccise da brutali padri convinti di dovere mantenere il loro onore comunitario
D.Trovo molto interessante il fatto che l’antropologia si debba occupare più che mai delle ragioni quotidiane della gente, di etnografie sulla contemporaneità delle nostre metropoli e penso che sia giunta l’ora che anche gli antropologi Italiani si comincino a occuparsi del qui e ora…che ne pensi?
R.Penso che l’antropologia italiana debba ancora nascere per molti aspetti. Come se gli antropologi dell’accademia fossero fondamentalmente timidi e incapaci di capire quanto importanti sono gli strumenti che hanno in mano. L’antropologia come approccio comparativistico è una chiave formidabile per capire il presente. Il problema è che gli antropologi italiani del presente non fanno parte.
D.Penso che uno delle critiche più forte nel testo è quella ai diritti umani scrivi che il tempo dei diritti umani è un fuori tempo cosa intendi? Cosa intendiamo per umano? Per amorale ?
R. Quando parlo di fuori tempo mi riferisco all’astrattezza dei diritti umani. Spesso questi fanno fatica ad imporsi e ad essere rispettati perché rimangono “sulla carta”, nella assoluta astrattezza della legge. Per un verso è inevitabile, i diritti umani devono essere al sopra dei contesti a cui si applicano, per altri questo è dovuto al fatto che l’universalismo elaborato delle culture occidentali è diventato talmente legato all’idea di dominio da avere perso la forza dirompente che aveva. Siamo figli di una civiltà cristiana universalistica e di un pensiero filosofico che dell’universalismo ha fatto la sua bandiera: e dovremmo esserne orgogliosi. Per altri versi l’antropologia nasce proprio da un impulso anti-universalistico e solo recentemente ha fatto una capriola al contrario, recuperando l’universalismo come anti-relativismo. Ma la partita si gioca proprio di questi tempi e l’antropologia ha un ruolo fondamentale nel fare rispettare le differenze, ma anche nel sottolineare le cose che l’umanità ha in comune.
Piero Zanini, Franco La Cecla, Una morale per la vita di tutti i giorni, Milano, Elèuthera, 2013.