di Sandro Moiso
Sascha Lange & Dennis Burmeister, Oltre il muro di Berlino. Con i Depeche Mode in Germania Est alla ricerca della scena post-punk e new wave, Goodfellas, Firenze 2019, pp. 196 + un cd allegato con 15 brani inediti di band della DDR, 25,00 euro
L’Antico Testamento ha reso celebre il suono delle trombe con cui furono abbattute, per volontà divina, le mura di Gerico. Nel caso del muro di Berlino la volontà divina oppure quella di Karol Wojtyla, pontifex maximus di una strombazzata riconquista imperiale e cattolica dell’Europa al di là dell’Elba in realtà mai avvenuta, non ci azzeccano molto, ma il ruolo del suono, quello sì, rimane.
Lasciato sbollire l’entusiasmo per il trentennale della caduta del muro e lasciate da parte le posizioni da trincea di una guerra mai realmente avvenuta e, forse, nemmeno esistita in potenza tra le forze del Bene o del Male dislocate a Est o a Ovest a seconda degli ormai putrefatti punti di vista con cui alcuni si ostinano a guardare alla Guerra Fredda, può essere utile la lettura (e l’ascolto) del libro (e dei brani musicali) edito recentemente dalla Goodfellas nella sua collana Spittle.
Un testo, quello di Lange e Burmeister, che ci può aiutare a comprendere i fermenti artistici, politici e culturali che pervasero la gioventù della Repubblica Democratica Tedesca negli anni immediatamente precedenti il fatidico 9 novembre del 1989 e le sue cause profonde.
Molto di più delle analisi geopolitiche oppure di quelle incentrate sulla figura di Michail Gorbačëv, autentico battilocchio1 della storia, assurto alla posizione immeritata di gigante della politica o di deus ex-machina di un processo che, ancora una volta, affondava le sue radici e origini nella vita quotidiana, nei fallimenti sociali e individuali, nelle pulsioni e nei desideri repressi di milioni di persone, soprattutto giovani, costrette a viver in un mondo di cui i mezzi di comunicazione di massa e gli immaginari che ne derivavano, producendo a loro volta nuovi ed imprevisti stili di vita, causavano un corto circuito con l’immaginario dominante dei regimi e dei socialismi cosiddetti “reali”. Compresa la noia mortale che era, e rimarrà sempre, espressione del grigiore esistenziale, tipico di ogni regime di qualsiasi colore esso sia.
Riflessione che la storia, non solo musicale, narrata nel libro ci spinge a svolgere non soltanto per il passato, ma anche per il presente in un momento in cui, da una parte, alcuni ostinati conservatori di fasulle ortodossie para-marxiste spargono ancora dubbi e calunnie su movimenti quali quelli dei gilets jaunes o dei giovani di Hong Kong, mentre, dall’altra, una sinistra istituzionalizzata e subdola, perbenista e lontana anni luce dai bisogni reali delle periferie urbane e delle classi diseredate, si eccita come se assistesse ad uno spettacolo osé davanti alle educate e innocue manifestazioni da ZTL convocate dal movimento delle “sardine”.
Manifestazioni ordinate e tutt’altro che pericolose per l’ordine esistente, sia della destra xenofoba che della sinistra parlamentarista, che hanno fatto di Bella ciao, una delle canzoni più trite e ritrite del folklore politico e accettabile soltanto negli episodi salienti della prima stagione della Casa di carta, e dell’inno nazionale italiano una sorta di manifesto disarmante e populista come il nemico che si illudono di combattere.
Già, perché, tornando al nostro tema, oltre alle azioni contano anche i suoni scelti per accompagnarle. E la figura di chi li interpreta anche.
Basta infatti osservare le numerose foto contenute nel testo ed ascoltare con attenzione i settanta minuti di musica proposti dal cd allegato al libro per capire come l’eversione sociale sia anche questione di immagine e di moda, quindi di forme e, in definitiva, di sostanza. E non importa che successivamente, come spesso avviene, immagini e suoni possano essere recuperati dalla società dello spettacolo oppure che gli stessi, in un primo momento, ne costituiscano un utilizzo non previsto dagli ideatori.
L’eversione, come la rivoluzione, vive del momento e sul momento. Momenti che possono essere lunghi o brevi, ma che in un attimo ridisegnano i confini del mondo, portando alla luce ciò che prima non si poteva esprimere oppure non si sapeva nemmeno di voler esprimere.
Nel 1980, Stefan Lasch, jazzista della DDR e vicedirettore della sezione musica presso la radio giovanile DT64, definì così la nuova ondata musicale, la new wave, che stava attraversando la Germania dell’Est:
“Il Punk non ha alcun impatto sull’evoluzione della nostra musica […] in primo luogo, gli elementi di cui si compone non sono altro che i rudimenti del Rock, pertanto risultano inutili ai fini di un eventuale sviluppo del suddetto genere. Inoltre, il Punk trova la sua ragione di esistere esclusivamente in un contesto societario di un certo tipo. Terzo, il Punk si contrappone alle nostre norme etiche e morali di stampo socialista.”
Mai affermazione sarebbe stata più radicalmente rovesciata. Mai la supposta moralità di un socialismo cimiteriale sarebbe stata più decisamente negata. Ma all’epoca nessuno ai vertici del potere avrebbe potuto o voluto dare ascolto a ciò che le strade, i garage e i locali periferici della Germania Est già profetizzavano. Mentre la polizia e gli apparati culturali e repressivi cercavano ancora una volta di far regnare l’ordine a Berlino (Est).
Leggere queste pagine, ascoltare il cd allegato farà probabilmente aprire occhi ed orecchi a molti lettori, giovani o meno, e questo sarebbe il merito più grande degli autori e dell’editore che lo ha pubblicato.
Editore a cui consiglio vivamente, con forza e convinzione, di cercare di far tornare alla luce il bellissimo, documentato e divertente, Compagno Rock (titolo originale Back in the USSR: The True Story of Rock in Russia) di Artemy Troitsky, edito da Vallardi nel 1988 e da allora mai più ripubblicato.
Avrebbe potuto sopravvivere un regime, quello dell’URSS, che costringeva i giovani a comperare ed ascoltare dischi di rock’n’roll venduti clandestinamente e incisi sulle lastra delle radiografie precedentemente utilizzate per le diagnosi mediche? La risposta l’ha già data la Storia, quella con la S maiuscola, che affonda però le sue radici nel quotidiano, e nell’immaginario che lo accompagna, di milioni di potenziali ribelli. Lavoratori, giovani, donne, tutti risvegliati alla coscienza di ciò che avrebbe potuto essere altro per loro magari da un suono elettrico ed esplosivo, come quello dei Rage Against the Machine ascoltati dai giovani combattenti curdi del Rojava mentre andavano incontro alle truppe di Erdogan all’inizio dell’invasione turca del loro territorio.
Battilocchio è nome che definisce a Napoli un individuo lungo, dinoccolato, frastornato. La storia di questo termine risale alla dominazione francese, quando si diffuse anche a Napoli una cuffietta femminile che con la sua falda copriva in parte la vista a chi la indossava (si chiamava appunto battant l’oeil). Avendo poco campo visivo, la persona che la portava assumeva un’espressione frastornata: di qui la trasposizione metaforica napoletana per indicare una persona che sembra non vedere, ma per incapacità intellettiva. Termine usato spesso da Amadeo Bordiga nei suoi scritti destinati a criticare il ruolo della “personalità” nella Storia ufficiale che, troppo spesso, ha fatto assurgere un singolo individuo a una posizione determinante per il corso delle umane vicende, ma i cui contorni, invece, sono decisamente determinati dai secondi e dalle forze sociali e materiali che si muovono al di sotto della superficie evenemenziale in un continuo moto di correnti carsiche che si palesano pienamente soltanto al loro esplodere o implodere ↩