di Sandro Moiso
Telmo Pievani, La Terra dopo di noi, fotografie di Frans Lanting, Contrasto – Roberto Koch Editore, Roma 2019, pp. 184, 22,90 euro
“Selvaggia, indomita, potente , indifferente alle nostre sorti, nuovamente rigogliosa. Questa è la Terra, senza di noi, prima di noi, dopo di noi.” (Telmo Pievani)
Il libro di Telmo Pievani, recentemente edito da Contrasto, ha un grande, forse grandissimo merito: quello di ricordarci quanto davvero conti la nostra specie per il pianeta e, più in generale, nell’Universo che la ospita.
L’autore, che ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova dove insegna anche Bioetica e Divulgazione naturalistica, ci guida infatti alla riscoperta di un’antica verità ovvero quella della evidente insignificanza dell’umano all’interno del sistema vivente e del cosmo in cui si trova ad operare.
Insignificanza che l’autore sottolinea sin dalle prime pagine:
“Nulla di scandaloso, noi siamo una specie contingente e la nostra è una storia di periferia, la periferia dell’impero noto come super-ammasso della Vergine. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale come ve ne sono tante nell’universo, la Via Lattea, per la precisione in uno dei suoi bracci laterali, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono appunto il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni. Non sappiamo se ci sarà qualcuno ad assistere a quel grande spettacolo di fuochi d’artificio cosmici. In ogni caso, allora per la Terra sarà tutto finito, con o senza di noi.”1
Una verità intuita, più che scientificamente compresa, da tutti i popoli antichi o, ancor meglio, da quelli sprezzantemente definiti come primitivi, ma di cui è rimasta traccia nella nostra cultura almeno fino al Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi.
Una verità con cui la specie umana ha dovuto fare i conti fin dai suoi primi passi e che l’ha costretta, per sopravvivere, ad unirsi per lungo tempo in social catena come avrebbe detto Giacomo Leopardi e a rispettare allo stesso tempo i ritmi, i tempi, le condizioni di partenza dell’ambiente e della natura in cui si trovava ad operare.
Una verità che le religioni animistiche e politeistiche meglio riassumevano, fungendo da interpretazione del mondo, di quanto invece abbiano fatto le religioni monoteistiche, in particolare quella cristiana che vede nel mondo terreno e nel pianeta qualcosa di cui l’uomo è signore e padrone, essendo stata la Terra creata da dio per lui e a suo uso e consumo.
Una visione perpetratasi, quest’ultima, nei secoli in maniera tale da far pensare, oggi, che questo mondo sia destinato ormai ad una fine prematura.
In realtà, il testo di Pievani e le bellissime fotografie di Lansing lo dimostrano, la fine prematura sarebbe soltanto quella della nostra specie. Una specie che, abituata ad un modo di produzione devastante che affonda però le sue radici in pratiche e convinzioni più antiche, marcia orgogliosamente verso un’autentica auto-distruzione che finirebbe col costituire, anche in questo caso, soltanto una delle tante estinzioni di massa che hanno caratterizzato la storia della vita sul pianeta.
Certamente non ci sarebbe nell’immediato un ritorno ad una natura vergine, che ha smesso di essere tale almeno fin dalla comparsa dell’agricoltura, e per migliaia o decine di migliaia di anni sarebbero in atto quei processi climatici e bio-chimici necessari alla scomparsa di ogni tipo di manufatto umano, plastiche e metalli, dall’ambiente terrestre, mentre le onde radio diffuse profondamente nello spazio dalla nostra volontà di pubblicizzare le grandi conquiste della nostra specie, da Guglielmo Marconi in poi, attraverso radio e televisioni continuerebbero a viaggiare nel cosmo portando notizie di una civiltà ormai estinta.
“Tutto questo è molto cinico, ammettiamolo. Possibile che solo la nostra scomparsa possa far rifiorire la natura? A tale misantropica distruzione dovremo ridurci? Ma lo scenario triste e desolato appena descritto cambia subito di segno se abbandoniamo per un momento l’ottica antropocentrica che solitamente adottiamo. Dal punto di vista del pianeta e dell’evoluzione è un messaggio di speranza. Perdendo tutto sommato una sola specie di mammifero, una sola, quindi con una minima riduzione di biodiversità,la vita ricomincerebbe più rigogliosa che mai, coprendo le nostre rovine. Un affare. L’evenienza in sé non avrebbe alcunché di eccezionale: siamo una specie mortale, come tutte le altre, e nessuno sentirebbe la nostra mancanza. Ovviamente il messaggio, qui non è che l’estinzione umana non sarebbe una tragedia. Lo sarebbe eccome. Anzi, sarebbe una tragedia assurda proprio perché conoscevamo i rischi e avremmo potuto evitarla. Altrimenti perché chiamarci così presuntuosamente e prematuramente sapiens?”2
E’ una coscienza molto antica quella di cui parla l’autore. Presente non soltanto nei riti di popoli ritenuti selvaggi (non cristiani e non moderni), ma anche nella filosofia e nel pensiero che hanno precorso il superficialismo progressista odierno.
“Abbiamo un problema con l’ambiente globale e lo sappiamo da parecchio tempo. Sembra un dibattito recente, ma non lo è . Forse un dibattito vecchio quanto l’Antropocene stesso. Nel Seicento infatti già si discuteva dottamente dei fumi mefitici di Londra, delle loro cause e della loro ricaduta sulla salute. Un secolo dopo Buffon denunciava la depredazione della natura per mano dell’uomo colonizzatore e ne prevedeva con precisione le conseguenze. Lo stesso diranno nell’Ottocento i socialisti utopisti e i critici del capitalismo predatorio. Degli effetti ambientali della rivoluzione industriale si dibatte da almeno due secoli. Alla corte dei re di Francia si analizzavano le relazioni tra le deforestazioni e il clima globale, su cui si soffermerà tempo dopo anche il grande naturalista, esploratore e geografo berlinese, ma francese di simpatie, Alexander von Humboldt. […] Per lui la natura era una trama globale di relazioni, un’immensa rete vitale priva di un piano trascendente e tenuta insieme da un’unità profonda. […] L’olismo della ‘fisica generale’ di Humboldt lo portò a diventare un antesignano dell’ ambientalismo e un difensore degli ‘animi oppressi’: denunciò le devastazioni dei colonizzatori (le foreste decimate dalle piantagioni di canna da zucchero e miniere, il brutale sfruttamento delle risorse, la caccia e pesca indiscriminate) associandole ai cambiamenti climatici (fu tra i primi a capire che la foresta era cruciale per evitare l’erosione del suolo e rinfrescare il clima) e alle barbarie inflitte ai popoli indigeni.”3
Alexander von Humboldt (1769-1859), non era un autore di nicchia. Attraverso i suoi scritti molti all’epoca, compresi forse i padri del socialismo scientifico considerate le sue dichiarate simpatie per la rivoluzione del 1848 e la sua netta opposizione alla servitù della gleba ancora in uso in Russia a quel tempo, presero coscienza di quell’unità, ma oggi nell’età degli specialisti, dei laboratori scientifici finanziati dalle imprese e degli investimenti nelle grandi opere inutili e dannose, il vate della grande unità della natura è dimenticato, passato di moda.
Bene, il testo provocatorio, bello e divulgativo allo stesso tempo, di Pievani ci invita a riscoprire tutto ciò: l’umiltà necessaria a comprendere la nostra giusta posizione come specie nel sistema e nella rete della vita del pianeta e lo sviluppo di una conoscenza disinteressata, lontana dalle logiche del profitto e del dominio, che ci permetta di tornare a relazionarci con l’ambiente e l’emergenza climatica privi dei paraocchi impostici da secoli di sottomissione al capitalismo e alle ideologie dello sviluppo e del profitto che ne sono derivate.