di Cesare Battisti
“Se non esistono prove materiali della tua colpevolezza per i reati per cui sei stato condannato, è legittimo dichiararsi innocente”. Questo è quanto si usava dire negli ambienti amici, quelli a cui non ho mai nascosto la mia appartenenza ai PAC.
Oltre alla spontanea solidarietà politica di movimenti e partiti coinvolti con la lotta di classe mondiale e, più in generale, al sostegno di pensatori impegnati per la libertà e la democrazia, anche il diritto alla presunzione di innocenza è stato un argomento ritenuto valido da tutti coloro che mi hanno sostenuto in questi anni.
Perciò, al contrario di quanto si sforzano di voler dimostrare i soliti esorcisti della comunicazione, l’innocenza in sé non è mai stata l’argomento principale a uso di quelle persone e istituzioni che hanno difeso il mio statuto di esiliato politico, durante 38 anni all’estero.
Questo punto, lo voglio sottolineare, ho cercato di renderlo il più chiaro possibile anche nel corso della mia prima, e unica intervista con un magistrato italiano dal 1981 fino a Oristano il 23 marzo 2019.
Nessuno in tutti questi anni, tra amici, compagni e sostenitori (paradossalmente neanche un magistrato), mi ha mai chiesto se ero colpevole o innocente. Mai. Non era necessario, giacché i lunghi anni di guerriglia rivoluzionaria avevano profusamente fatto il giro del mondo. Le centinaia di morti da ambo i lati della barricata erano di dominio pubblico. Così come anche era noto a tutti il regime di democrazia compromessa in Italia, dove le solite “forze oscure” bombardavano le piazze pubbliche.
Ma non voglio dilungarmi sulle ragioni che hanno provocato un conflitto armato ultradecennale. E’ già stato detto da chi ha più strumenti di me per fare un’esaustiva analisi storica di quel periodo. Neanche cerco di diminuire le mie ragioni politiche e le responsabilità penali prendendo a pretesto del mio agire le sole cosiddette “stragi di Stato”, perché anche queste, purtroppo, si inseriscono come fattore di terrore, seppure estremo, nella guerra sporca contro la lotta per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale. Insomma, un Paese non può da un lato piangere i morti, tutti, e dall’altro negare le ragioni che li hanno provocati.
Non stiamo qui a dire a posteriori (non è questo il luogo e, per quanto mi riguarda, l’ho già fatto) se queste ragioni erano giuste o sbagliate, oppure quanto crudele sia sostenere l’una o l’altra cosa. Si tratta appena di ammettere che conflitto politico c’è stato e che nel seno d’un conflitto armato di queste proporzioni succedono violenze inaudite provocate sempre dalle parti in causa. Io ne facevo parte e oggi lo lamento.
E già. Qual è però l’ultima volta che uno Stato, qualunque sia, ha spontaneamente riconosciuto di essersi sbagliato? “Ma noi eravamo un Paese democratico, con un parlamento eletto” si dice da sempre. Sappiamo, però, la storia e anche quella più recente ce lo insegna che, seppur necessario, il suffragio universale non basta, da solo, a garantire la democrazia. “Sì, ma adesso l’Italia è cambiata” si ripete da più parti.
Va bene, ci vogliamo credere tutti, ma allora vuol dire che non è abbastanza solida da potersi assumere le proprie responsabilità, senza temere le conseguenze storiche, come invece, dall’altra parte, noi tutti abbiamo fatto da tempo, indistintamente dalle appartenenze di gruppo in seno alla sinistra rivoluzionaria.
Checché se ne dica nelle sfere giornalistiche e politiche opportunamente colte da amnesia, questa è stata e sarà ancora la mia storia, la mia lotta. Possono cambiare i metodi ma il fine è lo stesso. E’ in questo concetto che bisogna ricercare la ragione vera dei 38 anni di solidarietà diffusa che mi è stata manifestata, e che mai è venuta meno. Malgrado l’inaudito dispiegamento della disinformazione e di dissuasione materiale e politica esercitata dallo Stato italiano, nei confronti di chiunque intralciasse il cammino della mia estradizione, neanche dopo la mia confessione, c’è da dirlo, nessuno ha ripudiato l’aiuto offertomi. E’ su questo che dovrebbero concentrarsi le autorità, invece di accanirsi per sminuirne l’importanza.
Non è mia intenzione nemmeno quella di criticare, o addirittura darmi allo scandalo, per i metodi adottati dallo Stato italiano per riportarmi “a morire” nelle patrie galere (per ultimo il sequestro in Bolivia, camuffato con una espulsione illegale e legalizzato finalmente dalla Corte d’Assise di Milano, nel maggio scorso). Capisco benissimo come si voglia mettere la “ragione di Stato” al di sopra del diritto: del resto, non si scatena una guerra e poi ci si lamenta degli effetti più duri. Questo l’avevo capito allora, quando dovevamo difenderci dalle solite scivolate dell’uomo in divisa o dall’uso della tortura, e continuo a capirlo oggi, rinchiuso in una cella d’isolamento a Oristano.
Se la smettessimo, però, di continuare a confondere deliberatamente il gioco delle regole con le regole del gioco (mi si perdoni la parola, so che non è la più adatta al nostro dramma). Se la finissimo di agitare spauracchi, ce n’è sempre uno, terrorismo, migranti…, per evitare di rimetterci su un cammino che non sia quello tracciato a discapito di altri, me per la dignità, per il diritto, per una maggiore nobiltà di spirito. Se la smettessimo di nasconderci dietro il dito e i nostri nipoti avessero la possibilità di farsi un’idea propria, leggere sui libri di storia quanto ha realmente e onestamente sofferto e soffre il loro Paese nella lunga lotta per la democrazia. Se ascoltassimo l’appello anche di quegli uomini di Stato, non ultimo l’ex magistrato Giuliano Turone, che chiamano a riunirsi tutti al tavolo della pacificazione, risanare la ferita sociale – parlo di pace e non di amnistia. Se provassimo a restituire all’Italia quella dignità internazionale oggi da più parti discussa…
Non vale perché a dirlo c’è anche il “mostro-mito” Cesare Battisti?
Vedete un po’ voi.