di Gioacchino Toni
Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.
L’idea che si possa parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il termine costume ai periodi precedenti, è ormai messa in discussione in quanto così facendo si rischia di rimuovere il dinamismo pur presente anche nelle epoche precedenti alla società industrializzata. Secondo diversi studiosi converrebbe consentire ai due termini di interagire anche alla luce del fatto che all’interno di ogni determinato sistema moda sono comunque operanti tanto stabilità che cambiamento.
Il volume di Eugenia Paulicelli, Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019), passando in rassegna la moda così come è stata testualizzata e codificata attraverso un discorso sul vestire e sullo stile nell’Italia del Cinque e Seicento, contribuisce a spiegare come, sin dai primi secoli dell’età moderna, la moda rappresenti un’importante istituzione sociale agente sull’immaginario collettivo capace di trasmettere significati estetici, politici ed economici nello spazio pubblico.
Se l’abbigliamento e la moda vanno annoverati tra gli strumenti attraverso cui la cultura umanistica ha trasmesso l’ideologia, il gusto e lo stile con cui l’élite europea ha forgiato le sue identità in termini estetici, la produzione letteraria italiana del XVI e del XVII secolo dedicata a tali argomenti permette di comprendere meglio il ruolo politico assunto dalla moda a livello europeo nella prima modernità.
Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – oltre ad analizzare testi di Baldassarre Castiglione (Venezia, 1528), Cesare Vecellio (Venezia, 1590 e 1598), Giacomo Franco (Venezia, 1610), Agostino Lampugnani (Bologna, 1648) presenta alcune protagoniste femminili che fanno da contraltare alla costruzione della mascolinità: Elisabetta Gonzaga, Caterina e Anna Sforza, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Lucrezia Marinella e, soprattutto, Arcangela Tarabotti, a cui dedicheremo presto spazio.
Moda e moderno, sottolinea Paulicelli, hanno comuni radici etimologiche (dal latino modus); moderno si riferisce a ciò che è attuale, contemporaneo ed il termine moda riprende l’idea di norma, modalità, finendo gradualmente per essere associato a quanto appare come novità.
La prima modernità italiana è caratterizzata da un recupero dell’antichità finalizzato a nuovi modelli culturali, politici ed artistici in linea con i nuovi tempi. Come spesso accade nei momenti di grandi cambiamenti, e la prima modernità è sicuramente uno di questi, finiscono col fronteggiarsi l’entusiasmo per le novità e il tentativo di controllarle. «In effetti, nel contesto della moda, l’euforia umanistica di un essere simile a Dio nel controllo della sua apparenza e del suo posto nel mondo, libero di auto-creare, sarebbe contrapposta a norme introdotte per standardizzare la bellezza, le buone maniere, il gusto nel vestire e nello stile, nel senso di “saper vivere”». (p. 36) Nel contesto umanistico, alla celebrazione dello spirito di autodetermiazione dell’essere umano si contrappone l’idea di dover normalizzare la bellezza, le maniere, lo stile ed il gusto nell’abbigliamento.
Nel corso del Cinquecento, parallelamente allo svilupparsi in tutta Europa di una vera e propria curiosità nei confronti della novità, in parte supportata dall’entusiasmo per la scoperta del Nuovo mondo, prende piede una vera e propria “morale contro il cambiamento”. L’abbigliamento, nel suo essere una delle manifestazioni principali di trasformazione, diviene anche uno dei settori principali su cui i moralisti insistono nel condannare la mutevolezza. L’incostanza del costume, esplicitata dalle trasformazioni dell’abbigliamento, agli occhi dei religiosi rappresenta una minaccia alle fondamenta stesse della religione: nella mutazione delle apparenze viene messo in discussione quanto previsto in natura da Dio. La morale contro il cambiamento si inserisce all’interno del tentativo compiuto dal cattolicesimo di definire a livello confessionale l’esistenza quotidiana dell’individuo: la quotidianità diviene il teatro in cui si manifesta la presenza reale del divino tra gli esseri umani e la cultura della trasformazione, che si esplicita nella mutevolezza delle mode, rappresenta una rischiosa messa in discussione della sacralità presente nella quotidianità.
Il diffondersi nei primi secoli di modernità di una letteratura incentrata sull’aspetto del corpo rappresenta un evidente sintomo della formazione di una nuova soggettività. Al di là delle differenze, in tutta la letteratura dell’epoca risulta palese la consapevolezza di come l’aspetto del corpo concorra in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità di un individuo che intende governare il proprio destino.
In diversi testi si rintraccia la necessità di dare “forma e memoria” ai cambiamenti che stanno riformulando il mondo. «Per essere efficaci, le nuove forme dovevano essere accettabili per l’ordine stabilito e per essere accettabili hanno dovuto far quadrato con la tassonomia dei valori dei gruppi delle élite al potere». (p. 47)
La diffusione ed il successo a livello europeo di testi come Il libro del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione contribuirono alla standardizzazione culturale e a creare una vera e propria competizione tra le élite relativamente all’aspetto pubblico con cui mostrare il potere detenuto.
Oltre che costruita, l’identità della prima modernità è anche legiferata: l’aspetto non ha a che fare solo con la scelta degli abiti e degli accessori, ma anche con ciò che la legge consente o meno. L’abbigliamento rappresenta uno dei segni più visibili dello status dell’individuo e ciò a maggior ragione in un’epoca di rinnovamento delle relazioni gerarchiche tra le classi dettato da un’ascesa borghese che si rivelerà inarrestabile.
Sono soprattutto i casi di corss-dressing, di slittamento di abitudini e gusti tra le diverse classi, a determinare la nascita di leggi suntuarie volte a preservare e disciplinare l’ordine sociale e il controllo sulle donne, costrette a conformarsi all’immagine di modestia e decoro e al disciplinamento del corpo. Nonostante gli intenti, sottolinea Paulicelli, tali leggi non hanno saputo mantenere l’ordine previsto in quanto spesso aggirate. Da tali infrazioni, da tali slittamenti tra classi, hanno spesso preso vita nuovi stili.
Gli studi femministi hanno mostrato come il ruolo della donna, perlomeno all’interno dell’alta società, nei confronti della moda non sia stato assolutamente passivo. Anzi, il controllo che hanno saputo esercitare sulla moda e sullo stile, nonostante le norme e le leggi, sta ad indicare come l’abbigliamento sia diventato «un luogo in cui attirare l’attenzione sociale su loro stesse all’interno di un panorama culturale che cercava di annientarle come agenti del proprio personaggio, pubblico o privato». (p. 87).