di Jack Orlando
Sedici anni tra curve e movimenti, piazze e barricate, hanno fatto dello Jacob Foggia un’esperienza politica di tutto rispetto. E se non sono ascesi al quel bizzarro pantheon di strutture e collettivi “che contano” e che il movimento ama crearsi, sicuramente si ritagliano un posto di primo piano per stile e capacità di ragionamento.
Adesso lo Jacob tira le somme di sedici anni di attività e critica militanti e lancia, per il sollazzo estivo della compagneria, il suo primo libro, collettivo ed autoprodotto: Attraverso questo mare di cemento. Un testo denso, tagliente, arrogante che non risparmia nessuno.
Abbondano stoccate e affondi, bocconi indigesti per chi è pungolato nella sua marginale comfort zone e, certamente, qualcuno dirà che non è proprio il caso di usare tanta schiettezza e rudezza nei modi, che di questi tempi il movimento non sta bene ed è meglio non stressarlo buttandogli addosso limiti, colpe e responsabilità. Eppure è proprio perché il movimento è oggi nella fase acuta della sua lunga crisi che questo libro fa bene, come uno schiaffo sulla faccia di un amico che, troppo ansioso e ubriaco, ha perso il controllo di sé e seguita nel fare danni.
Dal suo avamposto di provincia Jacob ha messo insieme una serie di intuizioni che, in modo sparso e ancor più frammentato, circolano già oggi tra quelle soggettività di movimento che si sentono soffocare in un vestito vecchio e troppo stretto, insofferenti nel perpetuare meccanismi politici che tutto dimostrano tranne la loro efficacia.
Il nodo centrale è l’immaginario, pop e/o militante, con le sue narrazioni e la sua capacità (tutta da ricreare) di generare mitopoiesi; storie, immagini e suoni che costruiscono un’identità collettiva, dando senso di appartenenza, orizzonte valoriale, spunto strategico.
L’abbandono e l’indifferenza verso la nostra epica, operaia o resistenziale che sia, con la conseguente riduzione a meme ed icona passeggera di qualunque volto buono a favor di camera ha desertificato lo sguardo di quel brandello di mondo che si vorrebbe rivoluzionario e che non riesce a vedere molto più in là della riserva indiana in cui (si) è rinchiuso.
Perché è prima di tutto una questione di sguardo, di prospettiva e poi di braccia e di pratiche.
C’è anzitutto da mettere le mani al nostro Mito per eccellenza, quello della resistenza partigiana, per porlo nella sua giusta collocazione, lontano dalle apologie e dalle favolette costituenti: ovvero di una guerra civile, sporca e brutale, nel cui solco una minoranza comunista ha tentato e quasi ottenuto l’egemonia necessaria per procedere ad uno slancio rivoluzionario che non liberasse solo il paese ma anche la classe e non solo dal fascismo ma dai suoi mandanti. Slancio frustrato e negato in primis dalle sue tiepide dirigenze, rimosso dalla Storia in virtù di una pacificazione che puzza di ancién regime.
Ridare ai partigiani il loro ruolo di combattenti che, carne e sangue, sono morti e hanno fatto morire, che più di qualsiasi astratto senso di giustizia erano mossi da sete di vendetta e di rivalsa contro chi gli teneva un piede sulla testa, non è mera speculazione teorica così come rigettare la retorica condivisa è porre una linea di demarcazione tra noi ed il nemico; significa liberarci dall’ideologica filiazione da queste creature eteree, aliene alla storia ed alla realtà, intrinsecamente buone e pacifiche e che i fucili pare li imbracciassero solo davanti alla macchina da presa.
No, il partigianato fu guerra civile, minoranza attiva, violenza politica, odio di classe, tendenza insurrezionale. Così era, così è giusto che fosse, e se cerchiamo un precedente mitico allora è bene fare i conti con questo lato della Storia. Anche perché, e lo Jacob ce lo spiega bene, a vincere nel racconto, a prescindere dal risultato in campo, è il cattivo: è solo l’antagonista, con la sua imperfezione e le sue ombre, a scuotere le passioni ed affascinare, a creare immedesimazione e inquietudine. È il cattivo, in fondo, che porta l’azione: i buoni, quelli che aggiustano le cose e sono sempre di buoni sentimenti, dopo un po’ rompono le palle, con la loro stucchevole e plasticosa magnanimità, col loro modo evangelizzatore, banale e monocorde. Basti guardare a Jocker e Batman, Gesù e Satana, all’ANPI della moderazione e ai GAP delle bombe sotto al culo dei nazisti. In fondo è semplice.
Lasciare andare a picco i buoni, quindi, con il loro semplicismo, la voce melliflua e rassicurante, lasciare andare a picco la Sinistra, con i suoi equilibrismi, i feticci per la legge e la costituzione, la mania di essere “di tutti” ma solo per pochi.
Da qui, andare a sezionare palmo a palmo il nostro di mondo, quello più vicino e tangibile, delle campagne passeggere, degli slogan grigi e dei centri sociali sotto scacco della propria immagine, prima ancora che delle attenzioni dello Stato.
Perché, diciamolo, in assenza di riferimenti ideologici e strategie incisive il militante antagonista sta al mondo come uno scolaro secchione e triste, che cerca di fare amicizia con gli altri bambini ma non riesce a non rendersi insopportabile con la sua smania di correggere gli errori altrui, con la spocchia di chi la sa lunga e se ne resta in disparte a crogiolarsi, reietto, della sua autodichiarata superiorità. Immagine buffa ma assai reale se si pensa a quanta incisività abbia perso il movimento negli ultimi lustri, quanta capacità di produzione sociale e culturale è mancata, quanto la nostra lingua sia distante da quella reale e i nostri spazi siano non solo visti ma spesso attraversati quali luoghi di totale assenza di regole, sottomarche del paese dei balocchi, parchi giochi dell’umana frustrazione.
Tocca ripulire la casa oggi, buttare via tutto ciò che di vecchio, marcio e inutile ci portiamo appresso come zavorra e rendere di nuovo abitabile il nostro ambiente! Spogliarsi del soprabito del militante che attraversa le metropoli come un alieno in vena di ricerca antropologica e facili giudizi per riprendere a comunicare coi nostri simili umani che, in quanto tali, sono esseri sfaccettati e contraddittori, difficili da incasellare in etichette precostituite. Che liquidare, tacciando di fascismo, qualsiasi proletario ponga un problema di convivenza razziale dentro le periferie, non è affrontare il problema ma lavarsene le mani e mettersi all’angolo. Che la realtà è difficile a farsi incastrare nelle nostre rigide maglie concettuali.
Che orizzontalità, antiautoritarismo, favolosità e tutto il resto, non possono essere i paletti per cui i nostri spazi debbano essere agiti da chiunque in qualunque modo gli passi per la testa; che delle regole, come in ogni comunità umana, ci devono essere e devono essere pure osservate!
Che prima di essere militanti siamo sfruttati, abitanti, persone; tal quali a quelle che incrociamo sui marciapiedi dei nostri territori, quelli su cui agiamo e di cui sarebbe bene ricominciassimo a parlare la lingua se vogliamo renderci comprensibili, piuttosto che figurarci mondi che teniamo solo nella testa e tra le mura delle nostre sedi e pensare di portarli in giro, al modo dei domenicani tra le tribù degli indios.
La comunità, la classe, il territorio, non sono concetti astratti da disegnare ma realtà materiali e tangibili con cui, se si vuole essere interni, si condivide la vita, gli spazi, la fede sportiva, le feste patronali, l’intercalare, i mercati della domenica e pure le birrette al bar.
È dunque di questa internità che l’immaginario è parte integrante: non può essere qualcosa che si crea in vitro sulla base delle nostre velleità, ma nasce nella commistione, nell’appropriazione, nell’evoluzione degli elementi offerti dal contesto, come ogni tradizione che si rispetti. Nella capacità di tradurre in pop ciò che è politico e di rendere politico ciò che è pop.
Ed è questa condivisione dell’immaginario che crea il consenso attorno alle pratiche di sovversione e ci permette di attecchire in profondità e andare lontano. Farla finita con gli stereotipi e le presunzioni di superiorità, spremere l’ingegno e la spregiudicatezza; lasciare spazio all’estro e alla spontaneità, all’interno di una programmazione politica degna di un soviet.
Si diceva, quasi in apertura, che il movimento non sta bene, diciamo pure che pare, a tratti, prossimo all’essere inserito tra le specie protette, tipo i panda o il Gurzo.
Sia pure così, siamo comunque un fuoco che ritorna, più caldo e più cattivo si spera, e citando lo Jacob:
verremo ricordati – e torneremo d’attualità – per l’apocalisse che sapremo annunciare.
Non per le analisi puntuali, non per le inattaccabili disamine, per il controesame delle teste; non per la solidarietà, il mutuo soccorso, lo sport popolare. Ma per la capacità che avremo, profeti dispersi e annichiliti, guerrieri dalle armi contate a guardia d’un ridotto di montagna, di vaticinare la catastrofe. Di indicare un nemico oltre la cortina fumogena degli interessi pubblici trasversali. Di evocare – dinnanzi alle plebi affascinate dal fantasy – i draghi del futuro prossimo venturo. Di legittimarci come gli unici padroni del fuoco.