di Paolo Lago
Che non ci sono poteri buoni. Il pensiero (anche) anarchico di Fabrizio De André, a cura di Paolo Finzi, numero speciale della rivista anarchica «A», editrice A, Milano, 2019, pp. 196, € 40,00.
A vent’anni, ormai, dalla scomparsa di Fabrizio De André, nascono come funghi i libri dedicati alla sua opera e alla sua biografia, un vero e proprio stillicidio di parole e fotografie miranti a indagare ogni aspetto dell’esistenza del cantautore genovese. A De André rischia di capitare quello che è successo a Pasolini il quale, secondo un’efficace espressione utilizzata da uno studioso, si è trasformato in una sorta di “ovetto kinder” della cultura italiana, nel senso che tutti si aspettano di trovarvi, al suo interno, la sorpresa che più gli aggrada, dai politicanti di destra a quelli di sinistra. Anche il cantautore genovese rischia di trasformarsi in una sorta di icona estetica utilizzabile da ogni bandiera politica, anche quelle più lontane dal suo pensiero (e la mente corre ai recenti apprezzamenti da parte del ministro degli Interni). Eppure, è uscito da poco un volume che si differenzia dalla maggior parte dei libri dedicati a sondare i più svariati aspetti dell’opera deandreiana: si tratta di una raccolta di saggi e di interviste che mirano a indagare il pensiero di De André da un punto di vista prettamente politico e sociale.
Se leggiamo Che non ci sono poteri buoni. Il pensiero (anche) anarchico di Fabrizio De André, curato da Paolo Finzi, direttore della rivista anarchica «A» – un volume che rappresenta appunto un numero speciale della rivista – ci rendiamo conto quanto sia difficile trasformare le canzoni di Fabrizio De André in tanti “ovetti kinder” manovrabili e apribili da chiunque, perché dietro ogni singola frase, dietro ogni singola nota, è possibile incontrare un pensiero ben definito sorretto da un solido rigore morale. Si tratta fondamentalmente di un pensiero libertario, schierato dalla parte degli ultimi, degli emarginati, di chi, sostanzialmente, il potere non c’è la l’ha e continuamente lo contesta. Un pensiero di indubbia derivazione anarchica: De André, nonostante la sua provenienza da una famiglia dell’alta borghesia genovese, ha sempre manifestato, fin da giovane, la sua simpatia per il pensiero e il movimento anarchico. Il «pensiero (anche) anarchico» di De André, insomma, come bene dimostra il libro curato da Finzi, non è una qualunquistica aspirazione a una libertà di matrice utopica, bensì si tratta di un pensiero sorretto da solide letture di studiosi dell’anarchismo come Malatesta, Bakunin, Stirner e dalla frequentazione di militanti anarchici. Il libro in questione si differenzia da tutti gli altri appunto perché guarda all’opera e alla vita di De André attraverso il filtro dell’anarchia e del pensiero libertario del cantautore: si tratta, come già accennato, di un approccio di natura politica e sociale.
Lo stesso De André, del resto, amava inserire la parola “anarchia” in alcune canzoni in versione live, modificando il testo. Ad esempio, in Se ti tagliassero a pezzetti, la parola «fantasia» è sostituita da «anarchia»: «E adesso aspetterò domani / per avere nostalgia / signora libertà, signorina anarchia / così preziosa come il vino come gratis come la tristezza / con la tua nuvola di dubbi e di bellezza». Oppure, in Amico fragile, in cui «anarchia» sostituisce la parola «arrivederci»: «…potevo chiedervi come si chiama il vostro cane / il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero / potevo assumere un cannibale al giorno / per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle / potevo attraversare litri e litri di corallo / per raggiungere un posto che si chiamasse Anarchia….». E, sotto le bandiere rosso-nere dell’anarchia, si sono svolti anche diversi concerti di De André: uno a Carrara nel 1982, uno a Napoli nel 1991 (a favore di «Umanità nova» e di «Arivista») ma anche, molto meno noti, uno a Rimini nel 1975 e uno a Bologna nel 1976.
All’inizio del libro (che trae il suo titolo da un verso di Nella mia ora di libertà, una canzone di Storia di un impiegato, un concept album del 1973) incontriamo una interessante intervista a De André del 1993, in cui il cantautore parla della sua predilezione per ogni tipo di ambiente libertario, sia che fosse rappresentato dai carruggi di Genova che dalle campagne della Sardegna, e tale predilezione è maturata anche grazie «a chiacchierate con persone che erano dichiaratamente di fede anarchica». E poi, per la vena libertaria dell’autore, è stata fondamentale la scoperta di George Brassens, del quale De André ha anche tradotto diverse canzoni: «E Brassens era anche lui un libertario, le sue canzoni scavavano nel sociale. Brassens non è stato solo un maestro dal punto di vista didattico, per quello che può essere la tecnica per fare una canzone, è stato anche un maestro di pensiero e di vita. Mi ha insegnato per esempio a lasciare correre i ladri di mele, come diceva lui. Mi ha insegnato che in fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra società che non tra i potenti».
Come afferma Paolo Finzi in una successiva intervista a Renzo Sabatini, «la sua eccezionale sensibilità umana e culturale verso le persone più “sfortunate”» contiene «anche il suo anarchismo». Secondo Finzi, «Fabrizio non si limita a mettere in luce» gli strati sociali più emarginati, «ma sembra indicare la via dell’affermazione concreta della loro dignità in contrasto con il potere».
Il nucleo più importante del volume è infatti costituito da una serie di interviste radiofoniche realizzate fra il 2005 e il 2006 da Renzo Sabatini, allora residente in Australia e successivamente pubblicate sulla rivista «A» dal 2012 al 2014. Gli intervistati sono tutti personaggi che, in un modo o in un altro, ruotano o hanno ruotato attorno alla figura di De André: musicisti, scrittori, militanti per i diritti umani. Ogni intervista affronta una tematica legata al pensiero libertario di Fabrizio, abbracciando diverse tematiche connesse a figure di emarginazione, dai detenuti alle prostitute e ai transessuali, dagli immigrati ai rom e ai tossicodipendenti. Ad esempio, per focalizzare la figura della donna nelle canzoni deandreiane, vengono intervistate Carla Corso, fondatrice del Comitato per i Diritti delle prostitute, e Gabriella Gagliardo, impegnata per i diritti delle donne, in particolare in Afghanistan. Secondo quest’ultima, se in molte canzoni, «il maschile, visto in maniera guerrafondaia, aggressiva, prevaricatrice, viene senz’altro denunciato», in Verranno a chiederti del nostro amore, inserita in Storia di un impiegato, la strofa «continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?» denota una sorta di presa di coscienza di sé e della propria vita da parte del personaggio femminile della canzone, la possibilità finalmente di uscire dal mito (nel quale sono avvolte molte altre figure femminili di De André, da Nancy a Marinella) e di entrare nella storia per mezzo di un gesto che rivendica una autonomia decisionale.
Fra gli intervistati vi sono anche degli ex detenuti che, nel carcere di San Vittore, hanno partecipato al «Gruppo della trasgressione», un gruppo di riflessione che coinvolge i detenuti per aiutarli nel loro percorso umano e, all’interno di esso, di fondamentale importanza erano le canzoni di De André, che portavano a riflettere su innumerevoli atti di umanità (e, a proposito di carcere, chi scrive questa recensione può piacevolmente ricordare, alla conclusione di un anno di esperienza di insegnamento in carcere, di aver suonato con la chitarra, insieme ai suoi alunni detenuti, canzoni come Don Raffaè e Nella mia ora di libertà, nella quale si può ascoltare il verso: «Di respirare la stessa aria / di un secondino non mi va»).
Un altro importante tema affrontato è l’antimilitarismo e l’assurdità delle guerre, tematiche esemplificate soprattutto da La guerra di Piero e Fiume Sand Creek, dedicata, quest’ultima, allo sterminio dei Cheyenne da parte del colonnello Chivington. Un altro tema tocca l’attenzione dedicata da De André al popolo rom, un popolo che – diceva – meriterebbe il Nobel per la pace perché da duemila anni gira l’Europa senza mai aver provocato una guerra. Secondo Santino “Alexian” Spinelli, rom abruzzese, studioso di linguistica e musicologia, insegnante di cultura romanì all’università di Trieste, con la canzone Khorakhané, inserita in Anime salve (1996), De André ha compreso perfettamente la sensibilità dei rom, considerandoli inoltre portatori di valori, in contrapposizione alla vulgata comune all’interno della società, la quale li considera invece portatori di problemi.
Nelle interviste viene affrontato anche un tema di scottante attualità come l’immigrazione: Amara Lakhous, uno scrittore algerino che vive in Italia e che ha dovuto affrontare tutti i disagi e le sofferenze dei migranti, afferma che De André, in un momento che vede contrapposti brutalmente Islam e Occidente, «è un testimone straordinario che ci ricorda che i punti in comune ci sono, c’è una storia comune», insieme a una diversità che si trasforma in ricchezza (in relazione soprattutto alle sonorità arabe e orientali presenti nell’album Creuza de mä). E, in tema di migrazioni, l’intervistatore Renzo Sabatini ricorda una frase di De André sul fatto che, al giorno d’oggi, gli uomini valgono meno delle monete: se il mercato del denaro è libero, gli uomini invece no, «a ogni punto di imbarco devono attraversare oceani di carte bollate».
Infine, un tema che spesso torna nelle interviste è l’equivalenza fra Sardegna e popoli nativi americani (una equivalenza attuata dallo stesso cantautore nell’album ribattezzato L’indiano, del 1981 e, del resto, si deve ricordare che De André ha scritto molte canzoni in sardo, soprattutto nella sua variante gallurese): un po’ come gli indiani, che sono stati emarginati e rinchiusi nelle riserve dagli invasori europei, così i sardi più poveri sono stati sfruttati dai ricchi provenienti dal continente. E, vittima di un sequestro insieme alla moglie Dori Ghezzi nella loro fattoria in Sardegna, nel 1979, il cantautore perdonò i suoi sequestratori in quanto essi rappresentavano soltanto i ‘manovali’ del crimine, costretti ad essere dei fuorilegge dalla necessità, dallo sfruttamento di mandanti ricchi e senza scrupoli. Ancora una volta, l’anarchico e libertario De André si è posto dalla parte degli emarginati, dei perdenti, delle «vittime di questo mondo», come scrisse ne La città vecchia, regalando loro una profonda dignità contro le dinamiche di tutti i poteri.