di Alberto Molinari
Valerio Curcio, Il calcio secondo Pasolini, Compagnia Editoriale Aliberti, Reggio Emilia, 2018, pp. 135, € 16,00
«Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un se stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».
Queste parole di Dacia Maraini, che sintetizzano l’inquietudine esistenziale di Pasolini vista attraverso il suo rapporto con il calcio, si trovano in un’intervista di Valerio Curcio alla scrittrice pubblicata in appendice al suo Il calcio secondo Pasolini. Attraverso il ricorso a varie fonti, testimonianze e immagini, l’attenta ricostruzione di Curcio restituisce le diverse sfaccettature del legame sentimentale e intellettuale di Pasolini con il mondo del pallone.
La sua passione per il calcio nasce a Bologna durante gli anni del liceo e dell’università. Pasolini partecipa ad interminabili partite con i coetanei e si innamora dello “squadrone che tremare il mondo fa”. Nel periodo degli studi bolognesi può festeggiare tre scudetti dei rossoblù, i colori ai quali rimarrà sempre legato: “Il tifo – scriverà nel 1969 – è una malattia giovanile che dura tutta la vita”. Il suo idolo è Amedeo Biavati, il calciatore rimasto famoso per il “doppio passo” che lo scrittore cerca di emulare nelle sue apparizioni sui campi di calcio, a partire dalle estati passate a Casarsa, il paese natale della madre, quando gioca nella squadra giovanile della formazione locale mostrando una discreta abilità come ala sinistra.
Dopo il suo trasferimento nella capitale simpatizza per la Roma, la squadra del popolo, ma rimane a distanza un tifoso del Bologna. Nel 1966 riesce a coronare il suo sogno di incontrare i giocatori rossoblù – e soprattutto Giacomo Bulgarelli, un altro “mito” calcistico di Pasolini – intervistandoli per Comizi d’amore, il film-documentario sul rapporto tra gli italiani e la sessualità.
A Roma Pasolini continua a coltivare la sua viscerale passione per il pallone che, scrive Curcio, «diventa quasi una necessità fisica ed esistenziale», «un’occasione imperdibile di libertà e di spensieratezza, di socialità e attività fisica». Gioca a calcio con i ragazzi delle borgata romane sui campi sterrati evocati in Ragazzi di vita, quando è impegnato sul set cinematografico negli intermezzi delle riprese organizza partite con i cast dei film, fonda – insieme a Ninetto Davoli e Fausto Citti – la squadra “Attori e cantanti” che diventerà poi la “Nazionale dello spettacolo”, impegnata in una miriade di appuntamenti calcistici a fini di beneficenza: «le partite della nazionale erano per lui un impegno importante, tanto che cercava di non perderne nemmeno una e di farsi trovare sempre pronto, con la divisa ben stirata e gli scarpini lucidi».
Pasolini stupisce gli amici per la sua forma fisica e per la serietà con la quale affronta le partite. Ogni occasione è buona per organizzare sfide nelle quali cerca di coinvolgere anche altri scrittori e uomini di cinema, come in un match tra una rappresentanza dei ragazzi della borgata romana di Donna Olimpia e una formazione che comprende Cesare Garboli e Giorgio Bassani o nell’incontro tra il cast di Salò e quello di Novecento.
L’intera biografia pasoliniana è attraversata da una genuina estroversione ludica e il calcio rappresenta una forma immediata di conoscenza che lo porta a mescolarsi con il sottoproletariato urbano.
Se ne avvertono i riflessi nei suoi racconti dove compaiono le partitelle dei ragazzi di borgata e in un componimento di Poesia in forma di rosa (1964) che si apre con un richiamo ancestrale lanciato a Pier Paolo da alcuni ragazzi di borgata («Al Trullo il sole, come dieci anni fa/ Fermete, a Pa’, dà du carci co’ noi») e si chiude con un’immagine che evoca gli attimi di spensieratezza vissuti inseguendo un pallone a contatto con un’umanità autentica: «Chi ha detto che il Trullo è una borgata abbandonata?/ le grida della quieta partitella, la muta primavera,/non è questa la vera Italia, fuori dalle tenebre?»). Il calcio raccontato da Pasolini, nota Curcio, è fatto di «corpi, corse, calci e sudore: non importa se si gioca con una palla sgonfia o in mezzo ai rifiuti, perché rimane calcio nella sua essenza primordiale, una sorta di linguaggio universale che permette di comunicare con i piedi e un pallone».
In altra forma, il mondo del calcio è al centro di Reportage su Dio, un racconto del 1963. Lo scrittore immagina di commissionare ad un giornalista poco esperto di cose calcistiche la storia di un divo del pallone. La parabola di Juanito, dall’ascesa alla dissoluzione nella grande metropoli, offre a Pasolini l’occasione per demistificare le ambiguità e le contraddizioni del “miracolo economico” e per prendere le distanze da un mondo che inizia ad essere mercificato: “Io, su questo, sono rimasto all’idealismo liceale, quando giocare a pallone era la cosa più bella del mondo”.
Lo scritto pasoliniano di argomento sportivo più noto è Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e i suoi prosatori, pubblicato su “Il Giorno” nel 1971. Qui Pasolini tenta una lettura semiologica del fenomeno calcistico inteso come sistema linguistico costituito da unità minime di significato, i «podemi». Il «podema» corrisponde a «un uomo che usa i piedi per calciare un pallone» e la sintassi del gioco nasce dalla combinazione secondo precise norme di molteplici unità di significato. Si possono così formare infinite frasi calcistiche che danno vita alla partita, «un vero e proprio discorso drammatico».
Il football è un linguaggio universale che può farsi di volta in volta prosa o poesia. I migliori interpreti del gioco prosastico sono le squadre centro-europee che privilegiano le geometrie e la coralità, mentre il calcio poetico è quello latino-americano, fatto di dribbling e imprevedibili soluzioni individuali. L’Italia si caratterizza invece per una «prosa estetizzante», con un gioco corale che non esclude gli individualismi.
Tra i calciatori italiani, Giacomo Bulgarelli gioca «in prosa», Gigi Riva è un «poeta realista», Gianni Rivera un prosatore poetico da «elzeviri», come Sandro Mazzola che però è «più poeta di Rivera» e capace di creare «lì per lì due versi folgoranti».
Nei suoi interventi sullo sport Pasolini non risparmia critiche alla retorica e all’enfasi patriottica che accompagnano le vittorie delle squadre nazionali e riconosce che la passione calcistica può rappresentare un diversivo rispetto all’impegno politico. Rifiuta però la semplicistica visione, diffusa nella sinistra, dello sport inteso unicamente come “oppio dei popoli” e polemizza con gli intellettuali che, avulsi dal calcio, sono incapaci di coglierne i risvolti politici e sociali. In quanto tifoso, per Pasolini è impossibile misconoscere le contraddizioni dell’esperienza vissuta allo stadio: «Che lo sport (i circenses) sia “oppio dei popoli”, si sa. Perché ripeterlo se non c’è alternativa? D’altra parte tale oppio è anche terapeutico. Le due ore di tifo (aggressività e fraternità) allo stadio, sono liberatorie; anche se rispetto a una morale politica, o a una politica moralistica, sono qualunquistiche ed evasive».
In un’intervista pubblicata su “L’Europeo” nel 1970, Pasolini definisce il calcio «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», «rito nel fondo, anche se evasione». Mentre altre rappresentazioni sacre, «persino la messa», sono in declino, il calcio si configura come un «nuovo spettacolo in cui un mondo reale, di carne», si misura «con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso».
Da allora, il mondo del calcio si è trasformato profondamente. Spettacolarizzazione esasperata e logiche commerciali, interessi economici e di potere hanno eroso la dimensione rituale del calcio così come lo concepiva Pasolini. Eppure, osserva Curcio, nonostante tutto per alcuni aspetti il calcio continua «a resistere alla mercificazione consumistica e alla spettacolarizzazione televisiva: il suo intrecciarsi con le tensioni politiche e sociali; il suo fascino popolare di sport di strada ben diverso da quello giocato negli stadi hi-tech ultramoderni; il suo ruolo aggregativo, che ha nel tifo organizzato la sua espressione più rappresentativa; la sua inesauribile capacità di generare storie fortemente sovversive che evadono dal racconto egemone». Infine, «la sua innata imprevedibilità e incontrollabilità».
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