di Domenico Gallo
“Dove arse la terra dei nostri passi
E fu fango di lacrime e sangue
Ancora lutto e grida
Ancora spine e sassi solo per noi”
(Andrea Camilleri,
“Solo per noi”)
Mercurio, 1945, n. 9, p. 77
“Usciamo come da una vita subacquea. Un silenzio ottuso e minaccioso s’era fatto attorno a noi, le voci non giungevano più al nostro orecchio, né gli inviti né i richiami. Mondi nuovi nascevano, si schiudevano, vivevano, e noi, attraverso il silenzio e il buio fondo, appena ne sospettavamo l’esistenza» (A. de Céspedes,”Premessa”, Mercurio, 1944, n. 2, p. 3). Per chi in passato ha letto queste righe, anche se possono essere trascorsi molti anni, è difficile dimenticare questa metafora del mondo subacqueo che si trova nelle prime righe della premessa che apre il primo numero di Mercurio, nel settembre 1944. Lo scritto, firmato “Mercurio”, è attribuibile ad Alba de Céspedes, la partigiana Clorinda, una scrittrice che all’epoca aveva al suo attivo due romanzi (Io, suo padre, 1936, e Nessuno torna indietro, 1938) e tre raccolte di racconti (L’anima degli altri, 1935, Concerto, 1937, e Fuga, 1940) (1). A torto considerata una scrittrice sentimentale e “leggera”, Alba de Céspedes si era apertamente dimostrata anticonformista e antifascista. Nel 1935 era stata arrestata e imprigionata per alcuni giorni perché intercettata al telefono mentre criticava l’intervento militare in Etiopia, e all’inizio del Conflitto mondiale aveva raggiunto una certa celebrità, anche per le attenzioni che la censura fascista aveva dedicato a Nessuno torna indietro. Come molti intellettuali era stata sorpresa a Roma dalla notizia dell’Armistizio e, in cerca di una liberazione, soprattutto interiore, se ne era allontanata cercando di attraversare la linea del fronte. Nei suoi diari, che definisce “strategie di resistenza individuale”, Alba de Céspedes racconta che a Roma, dopo l’8 settembre, l’aria si è fatta irrespirabile e la vita stravolta dal terrore. La comunità intellettuale italiana aveva vissuto in maniera contraddittoria la fine del fascismo, c’era stato un sincero entusiasmo che, immediatamente, aveva dovuto misurarsi con i limiti della società italiana. Le pagine dei diari di Corrado Alvaro sono ricche di note che sottolineano l’emergenza del problema morale e le difficoltà di una società che, come, come scrisse efficacemente Primo Levi, aveva imparato a convivere con la dittatura e che “aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici” (“Oro”, in Il sistema periodico, Einaudi, 1975, p. 132). Scrive Alvaro nel suo diario del luglio 1943 che costituisce una delle prime scritture della Resistenza: “Grande è stato il numero dei curiosi andati nei quartieri colpiti a «vedere il bombardamento» (“Quaderno”, in “Mercurio”, 1944, n. 4, p. 5). E ancora “A San Lorenzo, le balilla erano piene di ragazze in gita a visitare le rovine. Portavano fazzoletti eleganti legati sotto il collo, alla contadina, com’è di moda”. Pochi giorni dopo un altro bombardamento, il 21 e il 22 luglio. «Lontano, razzi illuminanti, e il tonfo delle bombe. La gente, sulle alture del Pincio e sulle terrazze, sta a ‘vedere lo spettacolo’» (ivi, p. 10). Corrado Alvaro, che era stato uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso nel 1925 da Benedetto Croce, era riuscito a ingannare la censura fascista riuscendo a pubblicare nel 1938, con poche modifiche, il romanzo L’uomo è forte (Rubbettino, 1997), una delle più chiare e profonde analisi letterarie del totalitarismo europeo. L’ambiguità dell’ambientazione gli consentì di sostenere la tesi che la vicenda si svolgesse in Unione Sovietica, e quindi poté superficialmente passare come una critica al comunismo, ma un’attenta lettura del testo consente di vedere descritte le forme espressive di ognuno dei totalitarismi che si stavano affacciando alla guerra mondiale. Una lettura che non sfuggì alla censura nazionalsocialista, che ne proibì la pubblicazione in Germania. Per molti versi L’uomo è forte è il primo romanzo italiano apertamente antifascista che riesce a descrivere come la dittatura sia capace di entrare nella vita quotidiana e giungere a modificare anche i rapporti sentimentali tra le persone, assumendo quella dimensione totalitaria che sarà poi descritta con pienezza nel 1984 di George Orwell.
Dalle pagine dei diari di Alvaro e di de Céspedes dedicate al periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si colgono un forte accento al risveglio etico e la progressiva messa a fuoco del problema della responsabilità della società italiana nei confronti della dittatura e della guerra. La parodistica e frettolosa caduta del fascismo aveva mostrato la fragilità del tessuto sociale italiano e l’immediata auto assoluzione che le classi dominanti stavano mettendo pubblicamente in atto. L’euforia di un’illusoria fine della guerra in Italia, ben presto frustrata dall’invasione nazista e dalla liberazione di Mussolini, corrisponde all’inizio di un processo di rimozione collettiva delle colpe e a un progressivo oblio riguardo al diffuso consenso verso il fascismo, ai crimini di compiuti da militari e civili italiani in Africa Orientale e Libia, al l’intervento militare contro la Repubblica spagnola, alle leggi razziali, all’aggressione alla Grecia, ai campi di concentramento in Yugoslavia, alla politica di sterminio etnico applicata nell’area dei Balcani. Per coprire tutto questo, importanti apparati di intelligence avevano lavorato con largo anticipo rispetto all’otto settembre, come documenta Filippo Focardi nel suo saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano (Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, 2014), creando quell’immagine edulcorata che serviva a giustificare l’opportunistico cambiamento di alleanze e a rendere possibile l’improvvisata guerra contro l’invasore tedesco. Le prime scritture della Resistenza partono dalla denuncia di questo goffo opportunismo e preludono a all’inevitabile tragedia della Repubblica sociale. I diari di Alvaro raccolgono frasi e commenti sulla borghesia romana, incapace di pensare a rapporti sociali diversi da quelli con cui si era ubriacata per vent’anni. “Straordinaria facoltà degli italiani di vedere i particolari, appigliarsi al cavillo, senza pensare ai fatti, alle cose generali” (“Quaderno”, op. cit., p. 10), e tra questi fatti generali c’è anche il senso di responsabilità. A una cena Alvaro notava che i suoi commensali sono unicamente tormentati da possibili conseguenze sulle loro persone, nulla li tormenta per ciò che ha consentito il loro fanatismo e la loro povertà ideale. “Le stazioni climatiche dell’Alta Italia”, continuava Alvaro, “si riempiono di fuggiaschi della ricca borghesia”). Mentre la classe dirigente iniziava la sua tattica di sopravvivenza all’occupazione nazifascista della Capitale, “in questo stato d’inerzia si raccontano leggende di fatti accaduti altrove, atti di coraggio, iscrizioni sui muri, più in là, in un altro quartiere, non si sa dove, ma in qualche luogo dove si immagina la gente sia ancora viva e abbia volontà e capacità di azione. Generalmente se ne dà il vanto ai quartieri popolari, Trastevere o Testaccio” (ibidem). L’8 settembre Alvaro è in strada a Roma. “Un tale, cui non avevo mai sentito dire nulla di impressionante, mi dice semplicemente: «Comincia una tragedia che costerà la vita a centinaia di migliaia di italiani» (ivi, p. 18). Incontra due soldati con il fucile a tracolla fermi in strada, “mentre la città convulsa ribollisce” (ivi p. 19), sono stati mandati via dalle caserme e non sanno dove andare, cacciati dai loro superiori. L’Ambasciata di Germania è affollata dai fascisti romani, accompagnati dalle amanti e dai confidenti. “Un bersagliere, un povero bersagliere, si è messo a sparare come un pazzo da un carro armato italiano rovesciato, solo, in piedi, ed è stato ucciso facilmente dai tedeschi” (ibidem).
La reazione dei letterati antifascisti all’invasione tedesca è diversificata; molti di loro avevano raggiunto un punto di equilibrio con il Regime, alcuni erano stati imprigionati o mandati al confino, altri, come Mario Soldati, avevano pubblicato sotto falso nome, e tutti erano stati alle prese con una censura ottusa e clientelare. Con l’occupazione tedesca di Roma, molti percorsero la strada attraverso l’Abruzzo, come Alba de Céspedes; Mario Soldati e Dino de Laurentis passarono il Garigliano; Alberto Moravia e Elsa Morante riuscirono a raggiungere la Ciociaria; Alberto Savinio si rifugiò a Forte dei Marmi; Corrado Alvaro si nascose a Chieti sotto falso nome, Leone Ginzburg iniziò la lotta clandestina con i partigiani di Giustizia e Libertà, mentre Natalia Ginzburg si nascose a Firenze; Vasco Pratolini, con il nome di Rodolfo Casati, partecipò alle azioni partigiane fra Ponte Milvio e Tor di Quinto come capo sezione del Partito comunista clandestino; Guido Piovene venne ospitato con Leonida Repaci dalla scrittrice Flora Volpini. Il tema della fuga dei letterati si presta a molteplici riflessioni (si veda V. Talarico, Otto settembre. Letterati in fuga, Canesi, Roma, 1965), ma è qui interessante seguire il percorso di Alba de Céspedes perché da Bari a Napoli, fino a Roma prende corpo il progetto di riunire gli intellettuali italiani in un percorso etico e politico che sia in grado di accompagnare la lotta che si sta organizzando nell’Italia centro-settentrionale. Il 15 settembre, a Roma, aveva scritto, mentre in strada si sentiva sparare forte, “non importa come e dove, ma a testa alta” (L. Di Nicola, Mercurio. Storia di una rivista. 1944-1948. Il Saggiatore, Milano, 2012), e l’abbandono di Roma non avviene per vigliaccheria, ma per raggiungere il più presto possibile un luogo dove iniziare a lottare; e da Bari, alla fine del 1943, dirige la trasmissione “Italia combatte”, rivolta ai partigiani, e “La voce di Clorinda”, in cui racconta le sue esperienze e la realtà che il quel momento la nazione divisa stava vivendo. Ed è a maggio del 1944, a Napoli, che nasce la decisione di creare Mercurio, una rivista che “fosse punto d’incontro e di scontri tra politica e cultura, tra guerra e rappresentazione” (M. Zancan, Introduzione, in M. Zancan (a cura di), Alba de Céspedes. I romanzi. I Meridiani. Mondadori, Milano, 2011, p. LXXXVI), come ricorderà Gino de Sanctis, che ne era stato il capo redattore, negli anni successivi. A Napoli, de Céspedes aveva incontrato Benedetto Croce che stava supervisionando Aretusa ( Si veda: R. Cavalluzzi, Raffaele (a cura di), Aretusa. Prima rivista dell’Italia liberata. Palomar, Bari, 1995), diretta da Francesco Flora, la prima rivista culturale dell’Italia Liberata, ma Mercurio, con la liberazione di Roma, raggiungeva la Capitale.
Il primo numero di Mercurio è tirato in 10.000 copie, una diffusione straordinaria se si pensa al razionamento della carta, alla difficoltà dei collegamenti e al fatto che, al Nord, si stanno svolgendo gli avvenimenti più drammatici della guerra di Resistenza. Il gruppo di letterati che si raccoglie attorno ad Alba de Céspedes ha molto da raccontare, sicuramente i mesi dell’occupazione di Roma, in cui “ognuno ha sopravvissuto solo in virtù della sua carica vitale”, ma soprattutto per riemergere dal ben più lungo periodo in cui “ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d’aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni mutilazioni”(de Céspedes, sett. 1944; 3). La posizione di Mercurio è molto chiara, la quasi totalità della società italiana ha delle responsabilità, e gli intellettuali non ne sono esenti, neppure se si sono schierati contro il fascismo dopo l’8 settembre. Scrive infatti de Céspedes nell’introduzione che il giudizio storico sul Ventennio spetterà alle future generazioni, che saranno prive del peccato originale di avere vissuto, fosse anche da dissidenti, nella società fascista. “Un privilegio, oggi, a noi vietato”(de Céspedes, sett. 1944; 3). Ma, anche senza associarsi al complessivo movimento di assoluzione, questi intellettuali scelgono, liberando quella parte di loro che si protende al futuro, di fissare una serie di testimonianze del tempo che hanno vissuto, per dimostrare alle generazioni future che “la notte ha pure il suo firmamento stellato”. Se da un lato troviamo questo continuo richiamo a recupero della dimensione etica che il fascismo aveva quotidianamente violentato, dall’altro si trova in Mercurio una chiara sottolineatura verso il recupero di una italianità ideale che la propaganda e la persecuzione avevano pervertito. Non si tratta di una caratteristica esclusiva di Mercurio, l’intero movimento resistenziale inquadrava la propria lotta all’interno di un paradigma nazionale che affondava i propri valori almeno nel Risorgimento, e sotto la monarchia i legami con le esperienze ottocentesche erano ancora più forti e retorici. Gli intellettuali forse ancora ignorano che, cacciato il fascismo, in Sicilia i carabinieri sparavano sui contadini, e che a Licata, a maggio, decine lavoratori socialisti e comunisti venivano arrestati durante le proteste contro la disoccupazione. Sono le contraddizioni che non saranno risolte né dalla Resistenza né dalla scelta repubblicana, ma Mercurio, almeno all’inizio, si offre come luogo di ricongiungimento tra le varie esperienze intellettuali, esprimendo divulgazione e memoria in un’ottica di cultura interdisciplinare che la rende, da subito, una rivista militante. Nei primi numeri il centro-sud liberato parla al nord occupato attraverso molte voci che già avevano parlato durante il fascismo e che intendono soprattutto raccontare. È accaduto infatti, a causa della tragedia della guerra e del progredire dei fronti, che i letterati siano stati protagonisti e non meri osservatori, e allora romanzi e racconti divengono i tasselli della storia. Non è una storia solo militare, ma di una strana guerra fatta di fuga, di resistenza civile, di opposizione, di solidarietà, di non collaborazione con i nemici, rappresentando quel quadro complessivo che si era formato nell’Italia occupata e che ha abbracciato il movimento partigiano. Numero dopo numero, Mercurio elabora questa teoria politica attraverso testimonianze e racconti, costruendo un modello sociale dell’antifascismo italiano come un mosaico di modi eterogenei di esprimere l’opposizione al fascismo. Solo in questo modo, ampliando la prospettiva del movimento combattente verso l’intera società, sembra possibile sostenere che la nazione stia lottando contro il fascismo e i suoi alleati. Per gli intellettuali è l’occasione di riprendere in mano la storia e la politica da cui erano stati violentemente esclusi. Si tratta del contraltare delle pubblicazioni clandestine che proliferano nell’Italia settentrionale “per spiegare le proprie scelte militari e politiche, assumendo la forma di volantini, giornali murali e pubblicazioni di quattro pagine. In questi spazi trovano posto commenti politici, biografie di caduti, resoconti di azioni militari, confutazioni delle notizia diffuse dalla propaganda fascista”(Gallo, Poma, 2013; 12). Gino De Sanctis, capo redattore di Mercurio, è stato l’autore di uno dei primi racconti dedicati alla guerra in Italia. “Calce sul muro”, sotto lo pseudonimo di Partisan, era stato pubblicato nel 1944 nella raccolta Due taniche di benzina, che era riuscita a circolare clandestinamente. Il racconto descrive la vicenda di una famiglia sterminata dai soldati tedeschi in un casolare della Campania. Sempre di De Santis è la poesia “Lettera alla figlia”, dedicata alla lotta partigiana. Tra le strofe, “Tuo padre aveva sognato/d’essere partigiano./È invece un uomo che aspetta/e tende l’orecchio, lontano,/all’eco delle montagne. (…) E ti dirò: le marce/e i fuochi del bivacco/gli scontri e il peso/del fucile e del sacco”(De Santis, 1944; 94).
A dicembre del 1944 la situazione italiana è drammatica, nonostante sia scontata la sconfitta del fascismo. A Palermo, un plotone di soldati del Regio Esercito aveva sparato sulla folla radunata davanti alla Prefettura e lanciato due bombe a mano, uccidendo 21 persone e ferendone oltre 150; stavano protestando per la fame. A Torino uno sciopero improvviso aveva paralizzato la città. Le truppe alleate dopo la conquista di Forlì, la città di Mussolini, fermarono la loro avanzata. Il generale Alexander aveva invitato i partigiani a sospendere le azioni militari e ritirarsi sulle montagne. Tedeschi e fascisti intensificano le azioni contro i partigiani e le popolazioni che li avevano sostenuti durante la campagna estiva. In questo clima la voce di Mercurio cerca di essere ancora più forte. Il numero quattro del dicembre 1944 è un’antologia dedicata interamente alla Resistenza, di 320 pagine e con 76 interventi; sono testimonianze, racconti, brani diario, disegni, poesie. In meno di sei mesi Alba de Céspedes ha riallacciato i fili degli intellettuali dispersi dalla guerra e li ha raccolti nella prima antologia della Resistenza italiana. I testi sono meravigliosamente contraddittori, alcuni di analisi politica e altri ricordi emozionanti di antifascisti che sono stati uccisi; comunisti, azionisti, socialisti, laici, cattolici che senza spartiacque cercano di usare la loro tecnica artistica per raccontare quello che hanno vissuto nei mesi dell’occupazione. Ognuno di loro ha in mente qualcosa di un quadro immenso a cui ancora manca una teoria completa e organizzatrice. La “Premessa”di Alba de Céspedes è ancora molto chiara ed evolve i temi che aveva affrontato in precedenza descrivendo la dolorosa e gioiosa riemersione dal soffocamento della dittatura. Innanzitutto la valutazione che “ogni partita singola prende corpo e valore solo se associata a quella degli altri”(de Céspedes, dic. 1944; 5), associando al concetto di altri quella situazione che aveva avvicinato tra loro sconosciuti che aveva portato “un granello di fede, di speranza, di rischio, di tenacia”, contribuendo a sviluppare quel modello di società che si è opposta al fascismo con ogni mezzo, valorizzando le espressioni più semplici e spontanee. Una lotta di popolo che gli italiani hanno combattuto e vinto, e che “è stata condotta senza capi e senza piani, solo sulla guida del proprio istinto, della propria coscienza, della propria ostinazione”(de Céspedes, dic. 1944; 5). Una guerra, aggiunge, che il popolo italiano non aveva voluto. L’entusiasmo, certo sincero di, Alba de Cespedes, trova il suo contraltare nelle stesse pagine di Mercurio, negli interventi di Alvaro e in un breve saggio politico di Herbert L. Mattews, un giornalista del New York Times che conosceva molto bene la situazione politica italiana e si era occupato del delitto Matteotti. Il suo intervento “Non lo avete ucciso”era apparso sul numero tre di Mercurio e faceva riferimento al fascismo, creatura italiana che, a suo, parere, era destinata a ripresentarsi sotto altre forme. Matthews osserva che “ogni persona di qualsiasi importanza, in Italia, per due decenni, è stata membro del Partito fascista”(Mattews, 1944; 21), e conclude, e che il più numeroso partito d’Italia non può essere che quello dei centinaia di migliaia di fascisti che sarebbero comunque restati nelle pubbliche amministrazioni. Nel 1944 sembra essere già evidente una storia futura dell’Italia che si prolunga almeno fino agli anni della strategia della tensione (1). Sono queste contraddizione, tutt’altro che apparenti, che danno conto del particolare momento politico in cui i sentimenti più diversi riescono a unirsi contro un nemico comune, quel fascismo tentacolare che aveva occupato e disciplinato ogni aspetto della vita quotidiana degli italiani. La premessa di de Céspedes si conclude con un tema che sarà destinato a diventare importante, quello di una felicità riacquistata, sottolineando come la vita nella dittatura fosse, oltre che ingiusta, anche infelice. La guerra, scrive, non si sta combattendo solo contro i tedeschi, ma anche contro quegli italiani “che hanno tradito o contro i più deboli che non hanno saputo o voluto resistere, scegliendo l’incertezza o il compromesso”(de Céspedes, dic. 1944; 6), ma per loro, oltre al disprezzo, esiste una forma di pietà “perché non hanno vissuto con noi questo anno terribile e bellissimo”. Questo tema è al centro del racconto “Non furono tetri”di Guido Piovene in cui si trova il ricordo del filosofo Eugenio Colorni, ucciso dalla Banda Koch. Piovene racconta che la casa in cui viveva era al centro di un’attività di supporto a un partito clandestino, che ospitava prigionieri inglesi e che distribuiva tessere false, ma che ricorda quei giorni come i più belli della sua vita. “Non furono tetri, ma allegri. Sentivo entrare in me di giorno in giorno la salute morale, come una salute fisica”(Piovene, 1944; 29).
Ma la “Premessa”di Alba de Céspedes è anche un prezioso documento su come alcune parole stessero modificando il proprio significato. Per cinque volte il concetto resistenza, come sostantivo e come verbo, è richiamato nel testo. È ancora una parola con la erre minuscola, ma sta progressivamente assumendo quell’importanza storica e politica che la porterà a diventare la Resistenza. “In questo anno, che per intenderci chiameremo «di resistenza»“ (de Céspedes, dic. 1944; 5), scrive, alla ricerca di una parola in grado di caratterizzare la straordinarietà degli eventi. Si potrebbe quasi dire che la Resistenza è quell’avvenimento storico di cui parlano i racconti del numero speciale di Mercurio, tanto è vasto il panorama delle esperienze che trabocca dagli scritti, tra gli altri, di Corrado Alvaro, Alberto Savinio, Vasco Pratolini, Sibilla Aleramo, Natalia Ginzbug, Alberto Moravia, Giorgio Bassani, Massimo Bontempelli, Libero Bigiaretti, Eugenio Montale, Guido Piovene, Arrigo Benedetti. Tra questi due racconti sono forse in grado, attraverso la letteratura, di sintetizzare quel contrasto che è alla base dell’esperienza umana della Resistenza. “Uomini bianchi”di Alberto Savinio ritrae quell’Italia sconfitta che non è stata in grado di opporsi al fascismo e alla sua violenza. A Cinquale, in Versilia, Savinio assiste alla cattura di una guarnigione di allievi marinai e dei loro istruttori. Davanti ai suoi occhi vede parecchie centinaia di “uomini giovani e sani”, militari vestiti con l’uniforme bianca della Marina, presi prigionieri da quattro tedeschi. “Gli allievi e i marinai non manifestano la minima velleità di resistenza, e a vederli così docili e disciplinati, si capisce quanto costoro sono assuefatti all’obbedienza: come costoro sono svuotati dal vivere comandato”(Savinio, 1944; 162). Sono “un magnifico esercito di uomini apparenti, di corpi senza testa, di forme prive di ragione umana”(Savinio, 1944; 164). Per Savinio la Resistenza è, filosoficamente, la guerra tra gli “uomini sostanziali”e gli “uomini apparenti”, e spera che non l’Italia, ma l’intera Europa sia rifondata dalla generazione partigiana. “Settore Flaminio Ponte Milvio”è il racconto autobiografico di Vasco Pratolini. Lo scrittore non ha tenuto un diario di quei giorni, era troppo pericoloso, ma, a caldo, riporta le esperienze dei giorni della guerriglia urbana. La guerra partigiana l’ha messo vicino a muratori, autisti, studenti dei quartieri popolari e impiegati e professionisti della piccola borghesia. Il partigiano Nino vive in una catapecchia con moglie e figli in riva al Tevere, è l’armiere del gruppo che trasporta le armi con la barca. Assieme a lui ricorda la cellula dei becchini e un fornaio, Vittorio, che viene catturato e poi fucilato; conosce tutta l’organizzazione del gruppo, ma morirà senza tradire i suoi compagni. La rassegna di Pratolini smuove un’emozione di rapporti umani, di fiducia e solidarietà; è un’umanità che, attraverso il pericolo, avendo fatto quella scelta sostanziale intuita da Savinio, ha praticato una vita che ha letteralmente sbriciolato quell’umanità dei telefoni bianchi che ha cullato il regime fascista, e ne è stata cullata. Ma ognuno degli scritti dell’antologia reca una propria riflessione originale, ed è un peccato che la maggior parte di loro non sia stata più ristampata. Ognuno meriterebbe un commento, sono i primi racconti della Resistenza italiana, e il disvelamento dei legami legano gli uni agli altri consente di ricostruire quelle molte idee che entravano in discussione tra gli intellettuali. In chiusura Bontempelli, che aveva avuto un importante coinvolgimento nel fascismo, con “Insegnamenti del ‘44”, si colloca con la sua riflessione molto lontano dall’imperativo etico di Alvaro e della ricerca della responsabilità. Il suo racconto è incentrato sull’equivalenza tra Hitler e la Germania, fino a idealizzare una radice del male tedesca che ben si allinea alla semplicistica e diffusa volontà di attribuire allo straniero invasore ogni colpa.
Le vicissitudini di Mercurio saranno molte, cambierà editore, passando da Darsena a Crero, di proprietà di un industriale monarchico, creando non pochi contrasti con una rivista diretta da una convinta repubblicana, ma, soprattutto l’Italia, dopo la Liberazione, sta vivendo il passaggio dall’antifascismo unitario e spontaneo alla contrapposizione tra i partiti. Il numero 16 di Mercurio è un’altra ponderosa antologia. Esce l’anno successivo, nel dicembre 1945, ed è interamente dedicata alla lotta partigiana al Nord. Sotto il titolo emblematico “Anche l’Italia ha vinto”, 388 pagine di testi, 77 contributi tra cui spiccano Alfonso Gatto, Dante Livio Bianco, Paolo Murialdi, Elio Vittorini. Gli scritti politici, in cui i partiti distinguono la propria linea da quella degli altri hanno preso decisamente il sopravvento, e la prospettiva futura non potrà che abbandonare la generosa spontaneità e incarnarsi negli accordi politici istituzionali. Non deve quindi stupire tra gli scritti partigiani, uno di Indro Montanelli dedicato al Generale Della Rovere. Montanelli, che aveva aderito a Giustizia e Libertà, venne arrestato e condannato a morte, fuggì dal carcere e riparò in Svizzera fino alla Liberazione. Anche lui, formalmente, era stato un partigiano.
note
Andrea Camilleri, in un’intervista con Enrico Deaglio, afferma: “Nel 1945, quando fecero scempio del corpo di Mussolini, – un caso di disillusione degli italiani, queste disillusioni violente – sulla rivista Mercurio, un grande giornalista inglese, Herbert Mattews, scrisse un articolo che mi è sempre rimasto in mente. Si intitolava “Non l’avete ucciso”. Diceva: il fascismo sotto forme diverse, magari di finta democrazia, ve lo porterete dietro per un centinaio d’anni. Invito a rileggerlo. E ti dico che siccome l’italiano ama il Mussolini prima maniera, come avrebbe amato Perón, così ama Berlusconi. È semplicistico, però purtroppo è così.”(Andrea Camilleri, “Se vince lui. Ma forse no”, supplemento al n.13 del Diario, marzo 2001).
- I volumi pubblicati da Alba de Céspedes prima della nascita di Mercurio sono:
- L’anima degli altri, Maglione, Roma, 1935.
- Io, suo padre, Carabba, Lanciano, 1936.
- Concerto, Carabba, Lanciano, 1937.
- Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano, 1938 (in M. Zancan (a cura di), Alba de Céspedes, Romanzi, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2011).
- Fuga, Mondadori, Milano 1940.
bibliografia
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