di Gioacchino Toni

«Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono […] un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo» («Fata Morgana» 38/2018)

Il numero 38/2018 di «Fata Morgana» – rivista che dedica fascicoli  monografici ai nodi problematici della contemporaneità affrontati attraverso il cinema e le diverse forme audiovisive – prende in esame il tema della “paura”. L’immagine cinematografica, che sin dalla sua nascita ha saputo suscitare insieme alla dimensione della fascinazione anche quella della paura, soprattutto nella sua variante horror contemporanea, cinematografica o seriale che sia, si presenta come uno degli spazi in cui prendono forma, in maniera concentrata, quelle paure dell’esistenza che caratterizzano i nostri tempi e che ritroviamo, ben oltre il genere horror (mai come ora genere ibrido), magari in forma meno diretta, un po’ in tutte le produzioni audiovisive contemporanee. Per certi versi gli audiovisivi sembrano essersi trasformati in testimoni dell’orrore contemporaneo tendenti a riflettere e mettere in scena l’esistenza sotto forma di paura.

Nell’introdurre il numero di «Fata Morgana» dedicato alla paura, gli autori sottolineano che da qualche tempo le sue forme, nell’impossibilità di individuare un oggetto concreto capace di suscitare paura, che dunque possa essere individuato ed affrontato, si sono indirizzate vero l’immateriale, l’invisibile e l’informe. «Una nuova forma di “paura assoluta” forse, la paura di un conflitto invisibile e allo stesso tempo diffuso, che rende insicuro e a rischio ogni gesto quotidiano come quello scatenato dal terrorismo contemporaneo, produce spesso l’immagine dell’assedio […] negli ultimi anni prolifera in modo esponenziale. L’assedio come una delle figure, delle immagini dell’esistenza. Il cinema lavora infatti da tempo sulla necessità di dare un’immagine allo spazio vuoto che il nemico occupa nello scenario attuale. L’immagine documentaria o l’immagine di finzione costruiscono, ognuna a suo modo, narrazioni della contemporaneità, nuove immagini del nemico forse, ma sempre più spesso, immagini della paura del nemico, della paura della sua irriconoscibilità».

Ci soffermeremo qua sul contributo di Massimiliano Coviello e Giacomo Tagliani, “Le intensità variabili del terrore: migranti e terroristi nel mediascape contemporaneo” («Fata Morgana», 38/2018), in cui viene messo in luce come nell’universo mediatico contemporaneo il sentimento della paura sembri ruotare attorno a due questioni: il terrorismo e l’immigrazione. Dall’analisi condotta dai due studiosi sulle rappresentazioni audiovisive dei media italiani, facendo riferimento in particolare al 2015, emerge come i due fenomeni, attorno ai quali si rimette in gioco il rapporto con l’alterità, siano stati affrontati dai media attraverso retoriche differenti pur riconducibili all’interno di campi discorsivi non troppo distanti.

Tanto la retorica della chiusura delle frontiere per sottrarsi all’invasione migrante, quanto quella della sicurezza preventiva per preservare il paese dalle minacce terroristiche, fanno leva, pur a livelli differenti, sulla paura di una minaccia incombente. Con riferimento al periodo esaminato gli autori indagano le modalità di creazione della paura che coinvolgono migranti e terroristi indicandole, in base al diverso grado di “intensità passionale” che le contraddistinguono, rispettivamente come “bassa” ed “alta”.

Se il cinema ha storicamente avuto a che fare con la messa in forma della paura, è interessante valutare il processo inverso: «ovvero come la produzione della paura abbia attinto e tuttora attinga dall’immaginario, dall’estetica e dalle retoriche cinematografiche per incrementare la propria efficacia discorsiva» (p. 114). Dunque, si chiedono Coviello e Tagliani, «Cosa accade invece nel momento in cui la trasmissione della paura e del terrore avvengono utilizzando esplicitamente gli strumenti del cinema, ricalcando i modelli consolidati di Hollywood, dal montaggio all’uso degli effetti speciali, dai paratesti al marketing, e dunque rivoltando le armi e gli strumenti del consenso contro chi li ha originariamente pensati?» (p. 115).
Ruggero Eugeni, ad esempio, nel suo saggio “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia” – in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) –, mostra alcuni esempi di come il terrorismo mediorientale abbia assorbito la cultura visuale occidentale e non esiti a ricorrere ad essa per potenziare il livello di terrore che intende esercitare.

Coviello e Tagliani approfondiscono le modalità con cui le immagini massmediatiche di migranti e terroristi contribuiscano a rafforzare paura e terrore non di rado attingendo da un’iconografia del contagio e da un immaginario epidemiologico costruito sulle figure dello zombie e del clone.
Da ormai diverso tempo gli zombie vengono presentati dalle produzioni audiovisive come una massa indistinta, feroce ed in continua crescita, che invade gli spazi cittadini a caccia di prede, mentre la figura del clone compare in diverse varianti che vanno dai replicanti agli ibridamenti tra essere umano e parassita alieno. Zombie e cloni, nella loro potenziale riproducibilità infinita, rappresentano, sostengono i due studiosi, «il perfetto personaggio distopico dell’era della riproducibilità genomica».

Visto che parallelismo tra le immagini del terrore e la loro diffusione virale e tra l’insediarsi dei terroristi all’interno del corpo sociale e la clonazione è già stato efficacemente proposto da William J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La Casa Usher, 2012), Coviello e Tagliani preferiscono concentrarsi sul parallelismo tra zombie e migranti.

L’anno 2015 si rivela importante per lo sviluppo della percezione dei migranti e dei terroristi per alcuni eventi in particolare: l’attraversamento dei confini europei di migliaia di profughi iniziato il 4 settembre a Budapest e gli attentati che hanno colpito Parigi, soprattutto il 13 novembre al Bataclan. Secondo i due studiosi tanto la marcia dei migranti, quanto gli attentati parigini si sono rivelati particolarmente eclatanti, oltre che per la loro portata storica, anche perché «si sono innestati […] su delle configurazioni visive ampiamente riconoscibili, incrinandone al contempo lo stato di normalità e serialità e i conseguenti effetti di assuefazione e anestetizzazione sugli spettatori» (p. 119).

Al fine di comprendere tale dinamica, nel saggio vengono ricostruiti i tratti salienti che si sono sedimentati nell’immaginario collettivo analizzando alcune immagini ricorrenti nei media italiani in cui i due eventi risultano rappresentati distintamente con specifiche modalità iconografiche e ciò risulta particolarmente evidente  se si mettono a confronto due servizi giornalistici trasmessi da canali Mediaset, «TgCom24» e «Tg5», a distanza di un solo giorno uno dall’altro.

Nel servizio del 16/02/15 di «TgCom24» viene trasmesso un video diffuso da Daesh contenente le immagini della decapitazione di cattolici egiziani sulle coste libiche, in cui il commento giornalistico (con voce fuori campo) sottolinea come sembrino accorciarsi tanto le distanze fisiche, quanto culturali (il ricorso alla lingua inglese) tra “noi” e “loro”. Evitando di mostrare esplicitamente le decapitazioni il servizio si chiude «con l’immagine del mare tinto di rosso: l’inizio del contagio (il sangue degli infedeli che arriverà sino alle coste europee) si unisce all’imminenza dell’attacco trasmessa dalla frontalità della minaccia» (p. 120).

Il servizio del «Tg5» del 17/02/15 mostra, invece, una colonna di migranti, di cui non si vede né l’inizio né la fine, incamminata verso una direzione indefinita. «La ripresa da dietro e in lontananza rassicura lo spettatore, ponendolo a una distanza debita dalla marcia». Alle immagini che mostrano un incedere apparentemente casuale di tale massa umana, succedono quelle di una tendopoli, forma instabile dell’abitare per eccellenza. «Il messaggio implicito viene designato principalmente dal reticolato di rimandi e allusioni che emerge dalla dimensione visiva e sonora: l’accenno ad un numero esorbitante di sbarchi verso le coste italiane si sovrappone all’immagine finale di un barcone ripreso dall’alto sovraffollato da migranti, elemento ricorrente nell’iconografia delle migrazioni» (p. 120). Tale servizio si inserisce all’interno di un immaginario diffuso ormai convinto di trovarsi di fronte ad un fenomeno che, giorno dopo giorno, erode la stabilità socio-economica occidentale con la sua forza trasformatrice continua seppure a bassa intensità.

Nonostante di tanto in tanto l’analogia tra migranti e terroristi faccia capolino nella retorica dei media e dei politici, in generale le rispettive rappresentazioni restano differenziate, pur contribuendo a dar ad un insieme omogeneo. «La polarità vita-morte è la potente cornice semantica entro la quale entrambi i fenomeni vengono inscritti, benché posti sugli estremi opposti dello spettro. La bassa intensità del terrore migrante corrisponde anzitutto a una edulcorazione dei toni cruenti per garantire la massima capacità di circolazione del discorso (che consiste principalmente nello scongiurare l’accusa di razzismo) e al contempo la massima potenza “terrorifica” (evidenziare la minaccia per la condizione attuale degli “ospitanti”)» (p. 121). Sovrapponendosi alla figura dello zombie, sostengono gli studiosi, il migrante si presenta come «non-(ancora) morto, alternativamente vittima da compatire o elemento infetto da non toccare. Un umano troppo umano che condensa sul proprio corpo i due poli antitetici che circoscrivono la condizione biologica del vivente» (p. 121).

Se lo zombie-migrante, nel suo suscitare terrore a bassa intensità, minaccia di contagiare il corpo sociale occidentale, il terrorista-clone, con il suo produrre terrore ad alta intensità, minaccia la negazione dell’umanità, la sua distruzione. «Privato di qualsiasi tratto umano, il terrorista è dunque un clone, un replicante senza soggettività alcuna, contro il quale è lecito scagliarsi preventivamente. Se il migrante era come noi, il terrorista non lo è mai stato: alle sue spalle non c’è una storia altra, ma solo una conferma di una progettualità tanatopolitica. Il terrore di cui si fa portatore è evidente e non c’è ragione di celarlo: se il migrante tiene la morte con sé senza mai lasciarla, il terrorista non aspetta altro che donarla al prossimo. Terroristi e migranti si fanno dunque portatori di una dialettica tra vita e morte opposta, che permette loro di mantenere inalterate le proprie peculiarità per continuare ad essere strumento propagatore – agente patogeno attivo o passivo – di terrore» (p. 121).

Su tale categorizzazione generale vanno dunque ad innestarsi i tratti specifici delle rispettive iconografie. Il terrore a bassa intensità incarnato dai migranti si struttura sull’immagine della moltitudine, quello ad alta intensità incarnato dal terrorista tende alla singolarità. Se il migrante esiste soltanto nell’anonimato di gruppo (la massa-zombie), il terrorista sfodera la sua potenza dirompente nell’imprevedibilità del gesto isolato che necessita però di dotarsi di un’immagine riconoscibile nella rivendicazione.
Ed ancora, se «il terrorismo è identitario in quanto i suoi esponenti sono sempre più indistinguibili dal corpo sociale che intendono aggredire, l’immigrazione è costitutivamente sotto il segno dell’alterità. Possiamo scorgere inoltre una seconda linea identitaria questa volta interna al fenomeno terroristico stesso, nei termini di un esercito di replicanti tutti uguali fra loro; al contrario, la massa informe e indistinta che governa la rappresentazione del viaggio del migrante si scioglie in una diversificazione interna per quanto concerne l’immigrato. Il migrante non è portatore di confusione circa la sua natura, che rimane necessariamente altra rispetto alla comunità nella quale intende inserirsi; l’incubo peggiore per quanto riguarda il terrorista, invece, è la sua capacità di replicarsi all’interno del tessuto sociale che intende colpire» (p. 122).

Nelle immagini mediatiche, sottolineano Coviello e Tagliani, il terrorista ci guarda negli occhi mentre il migrante procede indifferente al nostro sguardo. «L’interpellazione implica dunque un obiettivo e un progetto sottesi all’azione, l’oggettiva invece una casualità senza scopo e una messa a distanza utile a rassicurare lo spettatore che vuole immedesimarsi nel punto di vista che inquadra la scena» (p. 123).

È sul suolo libico, luogo di partenza dei viaggi ed al contempo avamposto di Daesh vicino al suolo italiano, e proprio durante il 2015 che le categorie dei migranti e dei terroristi hanno iniziato a vedere sovrapposte le rispettive configurazioni iconografiche e con esse i due livelli di intensità del terrore negli occidentali, dando luogo ad una sorta di intensità mista, come accade in un servizio del «Tg2» del 15/05/15 in cui sia la voce narrante che le immagini palesano il rischio della presenza di terroristi tra la folla in attesa di provare a raggiungere le coste italiane. La folla migrante viene mostrata non di spalle, come avviene di solito, ma frontale e mentre si dice del rischio di presenze terroristiche lo sguardo della telecamera si fissa sul volto di una donna indossante un burka. «Il cambio di prospettiva dal generale al particolare introduce così la sovrapposizione tra la figura del migrante – privo di identità e forte solo della presenza numerica – e quella del terrorista, resa efficace dalla ricerca da parte dell’obiettivo del dettaglio all’interno di una pluralità apparentemente omogenea » (p. 125).

Ad evitare la sovrapposizione terrorista/migrante, sostengono gli autori, hanno concorso gli eventi. «La marcia dei migranti e gli attentati parigini hanno infatti originato effetti passionali opposti, ribaltando paradossalmente la percezione del pericolo proveniente dall’esterno e dall’interno. Così, i profughi in marcia attraverso l’Europa hanno stabilito un principio di soggettivazione svincolandosi dalla rappresentazione di massa priva di volontà e progetto, costringendo i media a posizionarsi diversamente» (p. 126). I giornalisti sono stati costretti a mostrare la marcia frontalmente e ad altezza d’uomo, conferendo ai partecipanti l’immagine che nell’immaginario collettivo richiama l’avanzare delle masse proletarie ottocentesche. Quell’attraversamento europeo ha, perlomeno per qualche tempo, riscritto l’immagine migrante dimostrando come questa sia comunque sottoposta a negoziazione.

Nonostante non manchino esempi di ricorso a terrore ad intensità media in cui si sovrappongono migranti e terroristi, secondo Coviello e Tagliani, in generale se i migranti-zombie, continuano ad essere mostrati come massa indistinta di esseri privi di identità e di parola, i terroristi-cloni sono invece presentati come “esseri di slogan”, dunque dotati di una soggettività replicabile e trasmissibile.


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