di Giovanni Iozzoli
Nel 2017 abbiamo celebrato l’anniversario del movimento del ’77. L’anno dopo è toccato è toccato al ’68. Nel 2019? L’autunno caldo, forse? Sia pur in forme sempre più blande, gli anniversari scandiscono anche una memoria generazionale, al di là della grande Storia, una memoria di persone concrete, in carne e ossa, che ridefiniscono dinamicamente il rapporto con il loro passato. Uomini e donne, ogni anno più vecchi, che discutono di sé, della loro storia, del senso del loro stare al mondo.
Il susseguirsi (più o meno ritualistico) delle celebrazioni mi porta a ripensare alla mia generazione – gli attuali cinquantenni – e al suo destino di apparente mediocrità. Una generazione che non pare aver depositato un vero lascito, una generazione senza slanci epici, senza una sua mitologia da tramandare – se non qualche autoironia sulla propria balbuzie tecnologica, tipica delle “generazioni di mezzo”. Quindi: non avremo anniversari, in futuro, da proporre alla memoria collettiva; niente seminari o monografie in cui sarà esaltato il nostro ruolo di “testimoni”; non riascolteremo nostalgicamente canzoni che celebrano eventi in cui siamo stati protagonisti. Siamo cresciuti con vecchi film in bianco e nero e ci siamo ritrovati all’improvviso nel più fasullo e colorato degli universi virtuali: e tutto nello spazio di un mattino, quasi senza accorgercene.
Vecchia storia, questa della “transizione”: tutte le generazioni sono sempre in transizione, ma la mia, chissà perché, mi dà l’idea di averla subita unilateralmente, più di altre. Una generazione mai davvero protagonista, come se fosse cresciuta in un vuoto artificioso, in un deserto della storia, nel quale non ha ricevuto linfa, impulsi vitali, un ambiente sterile in cui non ha interagito e a cui non ha saputo reagire.
Eppure, se si getta anche solo un’occhiata distratta ai libri di storia, ne sono successe di cose, nei decenni che separano quelli come me dalla loro infanzia civile: la totale riscrittura della carta geopolitica dell’Europa; una feroce continuità bellica ai quattro angoli del pianeta; postcolonialismi e neocolonialismi variamente intrecciati che ingoiano intere nazioni e digeriscono utopie; e le tv commerciali che formattano la psiche collettiva degli italiani ben oltre ogni pessimistica aspettativa pasoliniana; una lenta, strisciante, persistente controrivoluzione sociale che consolida i primati di amoralità, familismo, clientela. Altro che deserto.
Sotto i nostri occhi le civiltà crollavano.
I ragazzini degli anni ’80 guardavano il mondo con sguardo cinico e al contempo stupito – il disincanto verso le narrazioni sistemiche, ormai fuori moda, conviveva con l’incedere maestoso e catastrofico degli eventi. Si è scritto molto del rinculo privatistico di quegli anni, il solipsismo, la perdita di intelligenza e moventi collettivi: eppure nessuna generazione precedente aveva visto scorrere davanti ai suoi occhi il fiume tremendo della Storia con tanto fragore, dopo i due conflitti mondiali. Cosa vedevamo, in diretta, sui nostri vecchi televisori? La resa progressiva dell’URSS che dal 1986, accordo dopo accordo, retrocedeva il suo campo d’influenza fino all’autoannientamento. Tienanmen che si riempiva di migliaia di giovani anime in pena, incuranti del motto di Deng: arricchitevi! E nei brulli altopiani afghani si consolidava e avanzava la “rivincita di Dio” – che la modernità pareva aver a suo tempo espunto dalla storia – e l’islamismo politico metteva alle corde l’Armata Rossa (mentre gli amici della sinistra palestinese ci raccontavano allibiti delle madrasse che aprivano in Palestina, con i soldi del Golfo e la benedizione dello Shin Bet israeliano). Tutto era maledettamente complicato, tutto era caoticamente in movimento. Tutto era incubazione dei processi oggi in corso.
Nel novembre 1989 a Berlino il maldestro annuncio di un ministro, anonimo fantaccino della storia, provocava il primo assalto di massa di cittadini orientali al Muro, che fortunatamente non trovava resistenza: da lì a poche ore crollerà tutto il cupo e maestoso edificio che eravamo abituati a chiamare DDR. Gorbačëv era il più rassegnato di tutti e fingeva di voler “transitare” pure lui, mentre era in ostaggio delle leve potenti che ogni controrivoluzione capitalistica scatena, quando le forze produttive si liberano dei vecchi rapporti sociali decrepiti. Potenze anonime e incontrollabili, proprio come quelle che in Cina, nel decennio successivo, avrebbero prodotto il più prodigioso processo di modernizzazione della storia dell’umanità.
Guardavamo quello smottamento devastante, noi ragazzini degli anni ’80, e non capivamo che quelle macerie, quelle onde telluriche potentissime, parlavano anche a noi, alle nostre velleità, al nostro futuro indecifrabile. Cossiga, vecchio rottame catto-massone, disperato alfiere della realpolitik atlantica, stava intuendo il sovvertimento generale e si divertiva a recitare il ruolo del profeta pazzo: il crollo del socialismo sarebbe stato anche il crollo della Prima Repubblica, del suo ruolo di paese frontiera e cerniera, della sua centralità strategica, dei suoi mercati protetti, della sua lira svalutabile alla bisogna. La fine della guerra fredda ci spingeva in periferia – e non ne saremmo più usciti.
Alla fine degli anni ’80, nonostante i colossali mutamenti del teatro geopolitico, la nostra Italietta continuava a sembrarci immota provincia sub-imperiale, mentre la propaganda craxiana – l’Italia che va! – la raccontava addirittura dinamicamente in movimento (provare a diventare “moderni”, la tragica coazione italiota…).
Dopo la doppia sconfitta del movimento operaio, tra la marcia dei quarantamila e il referendum sulla scala mobile, il quadro sociale pareva stabilizzato in modo irreversibile. E milioni di italiani si percepivano effettivamente nel loro momento migliore: impiego pubblico, rendita da Bot, lavoro nero a go go, rientro degli emigranti, grandi cataclismi che muovevano altrettanto formidabili masse di indebitamento – Keynes e Antonio Gava uniti nella lotta.
Non eravamo né in crescita né propriamente fermi: diciamo una corsa sul posto.
E noi, ragazzotti degli anni ’80, più o meno figli di niente, con che animo nuotavamo in quello che ci pareva uno stagno soffocante, di cui ignoravamo la ribollente profondità? Non tutti si adattavano allo spirito dei tempi. Qualcuno più testardo si era messo in testa – addirittura – di raccogliere le bandiere cadute nel fango. Eravamo stati o no il paese più conflittuale d’Europa, un laboratorio rivoluzionario, con l’antagonismo più duraturo e il Partito comunista più forte dell’Occidente? La rivoluzione era stata o no una cosa seria – di sangue, piombo e riforme strappate con i denti? E allora perché non ricominciare? Perché non riprendere il filo spezzato dalla generazione precedente?
Quelli che coltivavano queste ambizioni si guardavano intorno perplessi. L’assalto al cielo aveva lasciato prevalentemente (ma non solo) macerie fumanti. Centinaia di uomini e donne in gabbia, erano testimoni viventi della sconfitta, della sanzione, una specie di monumento perenne all’impossibilità del cambiamento. Un monito, appunto, per le generazioni successive.
Ci guardavamo intorno a caccia di tracce fresche, indizi, reperti: da dove ricominciare? Dove sono i nostri fratelli maggiori? – ci chiedevamo – perché ci hanno lasciati soli? Dove sono gli arsenali, i giornali, le sedi, le radio – dov’era finita quell’onda di vita che pure era esistita, aveva lasciato tracce archeologiche visibili: c’erano rimasti in giro solo menestrelli queruli e strapentiti, gli unici autorizzati a parlare a reti unificate. E storie precocemente ingiallite, vendute a pacchi nelle bancarelle di libri usati (di cui eravamo, tra l’altro, accaniti consumatori).
Non era solo la repressione giudiziaria, la sconfitta operaia o la narrazione di regime: una potente comunità umana si era sgretolata, era implosa su se stessa, vittima delle sue contraddizioni – prima che degli attacchi del nemico – e noi ragazzi degli anni ’80 raccoglievamo lungo il nostro cammino rare pepite e i molti ciottoli anneriti di una stagione esaurita.
Non ho una memoria ingenerosa: me li ricordo bene i quarantenni di allora, carichi di processi e sconfitte che avrebbero stroncato un mulo, disponibili, sempre in prima fila, a organizzare la grande campagna antinucleare o il sostegno alla prima Intifada. Ma tutti loro sapevano di essere fisiologicamente il residuo ultraminoritario di una storia che era stata di massa. A guardarsi intorno c’erano ancora tutti: maoisti, anarchici, trotskisti e brigatisti; ma erano come statuine di un presepio, conservate con cura, anche belline, disposte in buon ordine, ma con legami ormai sempre più affievoliti con la società che pretendevano di rappresentare – soprattutto con i ragazzi e le ragazze italiane, gioventù inafferrabile. Non avremmo potuto contare su un ordinato passaggio di staffetta, le condizioni non lo consentivano.
I ricordi di quegli anni, a Napoli, in una città ancora endemicamente conflittuale, sono impastati di volontarismo, generosità e persistenti stati confusionali. Ricordo come negli ambienti “di movimento” non discutemmo praticamente mai dell’evento epocale del crollo del Muro, come se, assurdamente, non ci riguardasse affatto: che c’entriamo noi con quei rozzi regimi di fine secolo?
Noi siamo altro! – la benemerita futura umanità…
L’angelo della storia ci stava pisciando in testa e noi, sotto, facevamo finta di niente.
Guardavamo il passato con la nostalgia degli “sfiorati” – sentivamo l’odore della polvere da sparo senza mai aver sparato un colpo, più o meno metaforicamente. La testa volta all’indietro, verso le mitopoiesi di un passato che non ci apparteneva. E contemporaneamente lo sguardo costretto a guardare il presente indecifrabile, con durezza, con scaltrezza. Una specie di gianismo militante.
Se all’inizio degli anni ’80 qualcuno di noi poteva consolarsi, pensando che la storia fosse eterna ripetizione, che avremmo solo dovuto pazientare, perché il pendolo sarebbe tornato bene o male a girare dalla nostra parte, al giro di boa di quel decennio era ormai chiaro che un capitolo era chiuso per sempre, che dovevamo scriverne un altro usando inchiostro nuovo, e che ci mancavano le parole per riempire quelle pagine fresche.
E qui inizia la storia senza gloria di una generazione pragmatica e dimessa. Dedita all’invenzione estemporanea, alla politica del giorno per giorno, della navigazione a vista in mezzo a scogli acuminati e dentro nebbie persistenti. Una generazione senza medaglie, armata della buona volontà dei mediocri che devono tirare fuori soluzioni efficaci e alla svelta: è così che nacque, ad esempio, la stagione dei centri sociali (che all’inizio furono soprattutto sedi politiche e l’esaurimento graduale di quella funzione, negli anni, li logorò…). Scoperte inaspettate, pratiche improvvisate, sperimentazioni per ricostruire presidi e legittimazione nei territori; campagne solennemente annunciate, magari precocemente abortite per mancanza di mezzi e militanza; manifestazioni nazionali organizzate a colpi di gettoni telefonici nei bar di periferia; e poi la lenta faticosissima ripresa dei rapporti con il mondo operaio – un calvario di equivoci tutt’ora in corso.
Vite da mediani di spinta – le nostre –, vite di tenuta, di raccordo. Fatica e repressione (e un po’ di autoironia che ci portava finalmente anche a smitizzare i nostri fratelli maggiori – che, con tutto il bene possibile, a conoscerli meglio, si capivano tante cose…).
Pochi grandi scenari di massa – tra la Pantera e Genova 2001, eventi entrambi incompiuti e deludenti come ogni appuntamento mancato. Poche anche le teste d’uovo: a differenza delle generazioni precedenti, dal nostro seno non sono sortiti raffinati intellettuali e schiere di giornalisti mainstream (semmai precariato di massa delle tastiere e delle intelligenze diffuse). E pochi anche i politicanti di mestiere – in genere figure marginali anche dentro i movimenti, sempre a caccia di consulenze e improbabili mense pubbliche, nel sottobosco delle amministrazioni “progressiste”.
A differenza di chi ci aveva preceduto, a noi non era toccato misurarci con le lacerazioni strazianti delle sconfitte epocali. Ma avevamo vissuto e occupato con dignità e misura tutto lo spazio umanamente e socialmente possibile – le piazze reali e quelle virtuali dell’immaginario, sempre più ostili e contorte.
E questa cifra di “normalità” si riscontra nelle biografie dei tanti militanti o ex tali che oggi si possono ancora incontrare, qua e là, a fare il loro dovere, senza fanfare e grancasse. Una generazione con molti falliti e pochi venduti – grana grossa di gente sobria e seria, fanti e formiche. Perché non servono le primedonne davanti alle discariche napoletane o nella Val di Susa militarizzata, o a presidiare i cancelli delle grandi fabbriche o degli anonimi micromagazzini della logistica – i luoghi vecchi e nuovi in cui il potere si nutre dello stesso sangue, della stessa sottomissione dei “diversamente ultimi”.
Quei ragazzi degli anni ’80, spesso, li puoi trovare ancora lì, nei fronti sparsi del conflitto, nelle linee di frattura, nelle faglie sociali, a tagliare e ricucire, con gli occhiali sul naso, come vecchi sarti di paese.
Abbiamo fatto quanto potevamo, con i mezzi disponibili, nel tempo che ci è toccato vivere.
Abbiamo fatto quanto potevamo.
Eppure, adesso, mentre le ombre della sera (vabbè, del tardo pomeriggio), si allungano lente sulle nostre vite, sulle nostre speranze, sulle nostre bandiere – e i conti, maledetti, non tornano mai – ci sorprendiamo a chiederci: cosa resterà?