di Franco Pezzini

[Si propone qui l’inizio e un stralcio dalla prima puntata di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero, un ciclo di incontri in corso di presentazione a Torino per la Libera Università dell’Immaginario. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti.]

Penultime (agg. f. pl.) Sono le cose di cui si può scrivere e di cui verosimilmente vale la pena scrivere. Forse le sole a soddisfare entrambe le condizioni. Non le ultime, perché non sono esperibili, o almeno lo sono quando è difficile ormai tenere una penna in mano o maneggiare una tastiera.  Non le prime, perché avvolte in un passato immemore, anteriore al risveglio della consapevolezza. C’è un tratto quasi terminale della corsa – quando l’inizio è dimenticato e la fine è certa e verosimilmente prossima, ma non ancora arrivata – che viene rischiarato da una sorprendente lucidità, come da una luce più forte. Franco Ferrucci lo esemplifica nel rapporto fra l’Iliade – che racconta soltanto il decimo di una guerra di dieci anni, e neppure l’esito – e la guerra di Troia. L’impresa titanica di dire la fine, o l’inizio, ciò che precede il risveglio della coscienza, non è neppure tentata da Omero, che pure dispone di tutte le armi del narratore: il mito, il fantastico, dèi, eroi, mura e cavalli. Uscire da questi confini è prerogativa del titano, o più facilmente del ciarlatano, non dello scrivano. A cui non restano dunque, nel migliore e più alto dei casi, che le cose penultime.

Così Luca Rastello nell’introduzione – che poi prende una vena ironica e tagliente che condurrebbe però lontano – a Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 9): che mi piace citare sia perché non trovo parole migliori per inquadrare meglio quel concetto di cose penultime fondamentale per parlare dell’Iliade – come ci avviamo a fare – e sia perché la sua opera offrirà anche in prosieguo preziose chiavi ad accompagnarci. A partire in fondo dagli echi di un’altra guerra, quella in Iugoslavia, che Rastello ha conosciuto tanto bene: dove non solo sono stati coinvolti i discendenti (almeno virtuali) dei popoli in guerra a Troia, ma l’Occidente ha riscoperto con stranita sorpresa che le categorie della guerra cantata da Omero non erano meri cascami di qualche passato, o realtà “esterne” di luoghi lontani. Una guerra da dove si esce comunque male, che rende impossibile l’innocenza ma impone di cercare il massimo della lucidità; una guerra che decostruisce gli stereotipi retorici – il centenario del primo conflitto mondiale ce ne ha nonostante tutto offerto un buon florilegio – e richiama l’attenzione sugli uomini coinvolti, le loro ambiguità contraddizioni fragilità, la violenza che ci troviamo dentro e le strutture di violenza che costruiamo e insieme subiamo. Parlare dell’Iliade è parlare di noi, di un archetipo dell’assedio, di una guerra dentro che richiama sia La guerra in casa di un altro bel libro di Rastello proprio sulla guerra in Iugoslavia tra splendori (non troppi) e miserie della recezione di quegli eventi in Italia, sia la stessa percezione di un rapporto profondo con ciò che siamo nelle pieghe di noi.

Infinite sono le chiavi sotto cui l’Iliade nei secoli è stata presentata. Chi parla non è un filologo classico, e l’approccio non sarà quello, già piantonato del resto da opere eccellenti. Ciò che invece tenterei è di riprendere il testo in chiave empatica, cercando per quanto possibile di far vedere e sentire cosa progressivamente accade (un’Iliad Experience, se volessimo usare formule già oggi un po’ consunte), in fondo nello stesso solco di quell’approccio divulgativo che trionfava nella televisione degli anni Sessanta e Settanta tra documentari e sceneggiati. Un raccontare che non cannibalizza da parte di chi resta un semplice narrante (non c’è il presentatore divo, né l’intellettuale di successo che riassume l’opera appropriandosene): c’è un semplice aedo di servizio che vuole presentare al meglio una storia importante perché gli ascoltatori la riscoprano e vadano a rileggersela. Proprio come ai tempi dell’Odissea o dell’Eneide televisive, e anzi sull’onda dell’operazione condotta in precedenza sul poema di Virgilio a partire dallo sceneggiato di Franco Rossi. Con la difficoltà che in questo caso specifico lo sceneggiato – che doveva dirigere proprio Rossi – è rimasto un progetto nell’aria.

A monte di tutto, il successo dell’Odissea televisiva con regia di Rossi apparsa nel 1968: un successo tale, che immediatamente dopo iniziano a circolare voci sull’intenzione della RAI di produrre sceneggiati anche sugli altri due grandi poemi del ciclo troiano, appunto Iliade ed Eneide, con lo stesso regista. La sceneggiatura dell’Iliade viene affidata (riporta il Radiocorriere TV 15-21 settembre 1968, n. 38, p. 14) al drammaturgo Giorgio Prosperi, che per Rossi scriverà anche Il giovane Garibaldi (1973); anche se in concreto chi collabora di più con la regia è il figlio di Prosperi, Mario, già cosceneggiatore dell’Odissea e in seguito dell’Eneide. L’idea iniziale, per ragioni economiche, è di lavorare Iliade ed Eneide in contemporanea (Radiocorriere TV 29 dicembre 1968-4 gennaio 1969, n. 53, p. 35), per sfruttare le scenografie, in particolare la ricostruzione di Troia: per le battaglie dell’Iliade si prevede di affiancare a Rossi un non meglio identificato regista giapponese. Più avanti il pubblico viene informato (Radiocorriere TV 23-29 marzo 1969, n. 12 p. 48) che le riprese parallele di Iliade ed Eneide inizieranno nell’ottobre 1969 e conteranno dodici puntate. Per la sceneggiatura dell’Iliade si parla di un tandem di Prosperi con Elio Scardamaglia; e le riprese in esterni sono previste inizialmente (anche per l’Eneide) in Bulgaria. Le cose andranno però diversamente, il progetto verrà spacchettato e l’Eneide apparirà sugli schermi tra il 19 dicembre 1971 e il 30 gennaio 1972; l’Iliade resterà in fase di intenzione. E sembra quasi un ammiccamento alla produzione mancata il breve, suggestivo flashback dell’Eneide in cui Achemenide ricorda il duello tra Enea ed Achille: in una pianura lunare, remotissimi nel passato della guerra, vediamo gli eroi confrontarsi a distanza, con grandi scudi e lance barbariche. Enea fermo sulla sinistra, elmo e corazza sulla tunica bianca come nelle altre scene; Achille minaccioso e pronto ad attaccare sulla destra, con un enorme elmo dal cimiero dentato.

Passano gli anni, si chiude la stagione dei Settanta, iniziano gli Ottanta: e poco prima che lo splendido Quo vadis? di Rossi vada in onda (febbraio-marzo 1985) si torna a parlare di una produzione dell’Iliade. Una prima sceneggiatura di Vittorio Bonicelli in sei puntate sarebbe pronta, plausibilmente sulla base dei testi precedenti di Prosperi e Scardamaglia; viene detta sicura la partnership della Grecia ma vista l’entità del progetto si prevede la necessità di un intervento finanziario americano (Radiocorriere TV 8-14 luglio 1984, n. 28, p. 6). Tutto però si blocca, tanto più che la guerra in Iugoslavia – dai cui teatri veniva gran parte dei cast degli sceneggiati di Rossi, attori straordinari dal volto antico e intenso, adattissimi alle parti – impedisce le riprese sui set dell’Eneide. Le ultime notizie sul Radiocorriere TV – del 1995, ultimo anno peraltro della raccolta storica della rivista – annunciano che l’Iliade verrà girata da Rossi tra Bulgaria, Tunisia e Italia (Radiocorriere TV 5-11 febbraio 1995, n. 6, p. 51)… Però ancora una volta tutto si arena, e Rossi muore nel 2000 senza vedere quel sogno realizzato.

Traghettato dall’apice degli anni Sessanta attraverso grande contestazione, anni di piombo, Italia del riflusso, nuove guerre dell’occidente, quel progetto che fa sognare chi aveva visto l’Odissea da ragazzino ed era cresciuto cercando d’immaginare la messa in scena dell’altro poema omerico (la risposta non può ovviamente essere un polpettone hollywoodiano come Troy), quel progetto va perduto. Perduto come mille altre Iliadi, nel senso di poemi sul ciclo troiano, greci e forse non soltanto, sopravvissuti (quando va bene) in frammenti e polvere di versi: perduto e dunque invisibile, se non con lo sguardo visionario di chi è Ὅμηρος, il Cieco (ὁ μὴ ὁρῶν, Colui che non vede oppure ὅμηρος, l’Accompagnato, nel senso di ostaggio o appunto del cieco che ha bisogno di appoggio). Uno sguardo cui cercheremo di dar sostanza nella nostra avventura attraverso quest’opera. Un’avventura collettiva, perché il nome Omero – che peraltro non sappiamo neppure se abbia etimologia greca – potrebbe collegarsi anche al verbo ὀμηρεῖν, “incontrarsi”, dalle occasioni di ritrovo in cui gruppi di Omerìdi condividevano i canti poi via via integrati nel poema. E in questo collettivo ammettere di non poter guardare coi nostri occhi c’è forse già in radice la possibilità di vedere assieme in un altro modo, con un altro tipo di sguardo.

[…]

Torniamo a quel mare livido, dove le rocce si son fatte più fitte: emergono le rupi della costa, poi una spiaggia e navi in secca a perdita d’occhio. Più o meno lunghe, concave, nere, qualcuna con le prore dipinte o insegne d’animali, una serie infinita più o meno ordinata per gruppi di scafi; e a ridosso attendamenti e baracche cresciuti come a mucchi sulla spiaggia, protetti da un sistema di palizzate e di porte. Riconosciamo insegne tribali e trofei – i palladî della vergine che sorge dalla battaglia, sorta di spaventapasseri con elmo, scudo e armi –, recinti di bestiame e stallaggi, carri da trasporto e ovviamente da guerra; troviamo fuochi sotto un cielo opaco e fumo e clangore di armaioli al lavoro, squadre che si danno il cambio o affaccendate nei servizi del campo, qui e là gruppi di uomini in riposo presso i falò, più un certo numero di schiave (di età diverse, dalle bambine alle vecchie) impegnate in lavori presso le tende, di puttane e di singoli mercanti di passaggio. E voci, ordini, risa, bestemmie… Un accampamento che però rivela chiaramente di essere lì da anni: a giudicare dalle condizioni delle tende, dal salino che incrosta pali e corazze, dai cespi d’erba dura cresciuti qui e là come delimitando gli spazi dell’insediamento. E a un certo punto notiamo una fila di asini che, fatta passare da uno degli ingressi, si fa strada attraverso le schiere. Appaiono carichi sotto il peso di oggetti imballati, condotti da servi dall’aria nervosa: e in testa al gruppo è un uomo anziano che regge una benda di lana bianca attorno a uno scettro dorato. Sono le bende che i Romani chiameranno infulae, avvolte in segno di supplica, a denunciarlo al servizio di un dio e fungere in qualche modo da lasciapassare tra i guerrieri nemici. Perché lui è «Crise […], il sacerdote», arriva da un tempio di Apollo più a sud sulla costa; mentre quello è il campo degli Achei dai lunghi capelli, venuti dieci anni prima a combattere contro la grande città che si staglia – la intravediamo – sullo sfondo caliginoso oltre la palizzata. E se il Cieco riassume tutta questa scena iniziale in pochi versi asciutti per un pubblico che più o meno ha presente gli elementi del puzzle, noi a distanza di migliaia d’anni dobbiamo cercare di definire le immagini.

Il sacerdote e i servitori si fanno largo tra guerrieri che sogghignano e berciano, lasciandosi sulla sinistra le navi, mai viste tante insieme, impossibile contarle; e puntano verso il quartiere con le tende più grandi, il palladio militare più imponente dell’insediamento e le insegne coi leoni e la colonna della Dea. Lì è l’accampamento del wanax (wa-na-ka in lineare B, quindi ϝάναξ e poi ἄναξ, re sacro e capo militare) Agamennone, il Gran Re di Micene, e di suo fratello Menelao re di Lacedemone o Sparta, cioè appunto i due Atridi motori della spedizione: ed è lì che Crise e i suoi uomini sono ora attesi. Stanno recando il «riscatto infinito» per la figlia di Crise, catturata dagli Achei; e il piccolo corteo viene infine introdotto al cospetto degli Atridi, di fronte a un’intera folla di guerrieri occhieggianti.

Davanti a quei volti che lo fissano, possiamo immaginare che Crise inghiotta amaro e si faccia forza per parlare. Vede per la prima volta quei re su cui ha sentito racconti spaventosi, che da dieci anni mettono a ferro e fuoco la regione; ma è la prima occasione in cui anche noi ce li troviamo davanti, per cui non perdiamoci questa visione, prendiamoci il tempo necessario. Rendiamoci conto, sono gli eroi della guerra più grande della storia, poi ricordati indefinitamente per migliaia d’anni. Agamennone, il Gran Re di Micene, capo di una spedizione riunita da tutta la Grecia, erede primo di una dinastia dalle empietà leggendarie tra cannibalismo, violazione dell’ospitalità, assassinii e incesti: i narratori lo immagineranno grande, robusto, bruno, mentre il suo caratteraccio avremo modo di constatarlo direttamente tra poco. E poi, come alla sua ombra, silenzioso, suo fratello Menelao, l’uomo scelto dalla donna più bella del mondo – magari proprio per quella sua antica timidezza di ragazzo, che forse sconfina nella mediocrità – e poi tradito e abbandonato. E attorno i capitani dell’Argolide.

Mentre il Cieco non racconta se in questa occasione siano lì riuniti gli altri re alleati. Lo desidereremmo per l’ansia di vedere i loro volti: Odisseo, Nestore, Aiace Telamonio, Diomede, Idomeneo e tanti altri… e ovviamente Achille, il più grande di tutti, l’eroe che tanti credono una mera macchina da guerra, un tragico uomo-videogioco che nessuno è in grado di superare e la cui distanza lo rende tanto poco comprensibile agli altri. D’altra parte la presenza degli altri re colleghi non sarebbe necessaria: nell’Iliade non è ancora istituzionalizzato un Consiglio nelle forme del mondo classico, le riunioni di comandanti sono convocate occasionalmente ed esiste solo l’istituto dell’assemblea, richiamata tramite gli araldi. Dunque Crise può rivolgersi direttamente ai due Atridi, e nel contesto di un’adunata di comandanti e guerrieri di almeno due regni a rappresentare tutti gli alleati.

Crise sa bene che quelli che ha intorno sono uomini esasperati, abbrutiti da dieci anni di attesa su quella spiaggia, dal rancore per chi ha causato quella specie di esilio (Elena la baldracca, chissà cos’avrà poi di speciale), dalla deriva di chi in quegli anni ha visto di tutto. Uomini incattiviti e invecchiati, di stagione in stagione bruciati dal sole e dal freddo e dal vento: uomini che hanno cicatrici dappertutto, fuori e dentro di sé. Ma che tra attacchi periodici alle mura, raid di saccheggio nelle regioni circostanti, qualche trasbordo per missioni speciali e sghembe nostalgie di casa hanno trovato modo di sopravvivere in quel campo-trincea di fronte a una città che pare avere mille torri e altrettante risorse. Per cui il sacerdote, che non è troiano ma viene (verrà detto più avanti) da Crisa, città di un’area ampiamente devastata dagli Achei, ha buoni motivi per non sentirsi ben accolto.

E finalmente Crise parla, rivolgendosi ai due Atridi condottieri della spedizione, ma anche – con un gesto all’intorno – a «voi tutti, Achei schinieri robusti». Con l’augurio che gli dei che abitano l’Olimpo concedano davvero all’armata achea «d’abbattere la città di Priamo, di ben tornare in patria»: un augurio che può stupirci, per almeno due motivi.

Anzitutto perché Crise è sacerdote di un dio in Anatolia, probabilmente lo onora sulle sue montagne e pare strano che conosca la più alta montagna della Grecia, coi suoi 52 picchi tra Tessaglia e Macedonia: ma a parte la licenza poetica, Όλυμπος è un nome di origine pregreca, attribuito dalle tribù elleniche al monte più alto delle varie regioni via via colonizzate, dai Balcani all’Anatolia a isole come Lesbo e Cipro, e il Cieco la usa anche a volte come generico sinonimo di cielo.

D’altra parte l’auspicio pare strano o poco dignitoso anche per il fatto che Crise dovrebbe tifare per i Troiani: ma un po’ di compiacenza verso gli invasori non guasta, e in fondo l’ingombrante vicina Troia interessa assai poco a chi vuole anzitutto riabbracciare la propria figlia (che, per inciso, scopriremo più tardi chiamarsi Criseide). L’unica cosa importante è che la liberino, accettando quel riscatto in nome del «figlio di Zeus, Apollo che lungi saetta»: e gli Achei attorno lo guardano e ascoltano. È un padre angosciato come tanti altri, e quel dettaglio non può turbarli granché: ma è un sacerdote e viene in nome di Apollo, hai visto mai. Così alla fine del suo discorso ecco che tra i guerrieri prendono a levarsi voci a favore, tutti d’accordo che si onori quel ministro del dio, si accettino quei beni che vengono dal suo santuario: gli Achei non l’hanno saccheggiato e Crise ora li consegna spontaneamente – senza fatiche, senza rischi davanti ad Apollo – al modico prezzo di una ragazza come tante… contento lui, contento il dio che serve.

Però forse quelle voci irritano Agamennone, che può sentirsi forzare la mano. Oppure sotto sotto c’è altro, per esempio il pensiero della figlia Ifigenia, sacrificata per quella spedizione come è uso, non sappiamo con quanta frequenza, in occasione di grandi sforzi bellici: l’Iliade non sembra considerarne la figura, ma forse è che Agamennone cerca di rimuoverne il ricordo, di proiettarlo nel memoriale astratto del grande trofeo-palladio della vergine che sorge dalla battaglia (donde la verginità di Athana diwya, la divina Atena patrona delle guerre micenee); e insomma ciascuno viva i propri sacrifici. Di questi possibili retropensieri Agamennone non parlerà quando davanti al consiglio dei re offrirà motivi assai più banali per voler tenersi Criseide. Ma per ora il Cieco non spiega, dice soltanto che l’idea di liberare la ragazza «non piaceva in cuore al figlio d’Atreo, Agamennone»: qui oltretutto citato per la prima volta col suo nome, a introdurre la sua voce mentre caccia malamente il vecchio e lo minaccia. Se resta ancora lì presso le navi o ha la pessima idea di tornarvi, ringhia, non gli serviranno di protezione scettro e benda del dio… Per cui si rassegni, lui non libererà sua figlia: «prima la coglierà vecchiaia / nella mia casa, in Argo, lontano dalla patria, / mentre va e viene al telaio e accorre al mio letto». Per cui Crise fili via e non lo faccia arrabbiare, se vuole ripartirsene sulle sue gambe. Ora, questa scena è rivelativa del pessimo carattere di Agamennone, che verrà presto confermato da altri eventi. Ma insieme è rivelativa di una sua tragica impossibilità di vedere i fatti in prospettiva: perché ciò che accadrà al suo ritorno a casa, proprio a un passo dal telaio e dal letto, cioè la mattanza tra le mura di Micene di cui finirà vittima lui stesso, Agamennone non lo immagina ancora.

Per inciso, qui si cita Argo come città di Agamennone, mentre in prosieguo la città verrà detto regno di Diomede: ma al di là di possibili contraddizioni di dati mitici tra un libro e l’altro il riferimento sembra indicare genericamente l’Argolide come area delle grandi città micenee (appunto Micene, Argo e Tirinto) se non il complesso del Peloponneso. O se vogliamo – a dirla con il linguaggio dei documenti ufficiali dell’impero di Hatti, cioè gli Ittiti dominatori di gran parte dell’Anatolia e di un’ampia porzione del Levante  – la terra del Gran Re di Ahhiya o Ahhiyawa, termine oggi ricondotto piuttosto univocamente agli Achei e alla Grecia micenea: il che peraltro apre a una suggestione interessante. Si è detto che il nome di Agamennone compare soltanto al v. 24, mentre in precedenza il personaggio era citato ben cinque volte con il patronimico Atride: una scelta non strana per esigenze d’esametro (Ἀγαμέμνων, più lungo, presenta maggior difficoltà d’inserimento nel verso) e per l’uso ampio nell’Iliade di patronimici più o meno rapportabili alla nostra idea di cognome. Ma proprio in un contesto anatolico come quello oggetto del canto l’ampia spendita del patronimico Atride potrebbe richiamare anche altro: infatti al tempo di un Omero storico non era forse perduta la memoria di un importante personaggio dal nome affine a noi tramandato dai documenti ittiti, o almeno del suo casato. Si sta parlando di un capo militare di nome Attarsiya, più o meno corrispondente al greco Atreo, menzionato appunto come “uomo di Ahhiya” (la formula è quella d’uso per sovrani nemici), dunque acheo e vissuto tra fine XV e inizio XIV sec. a.C., quindi il primo personaggio del mondo miceneo – il primo greco, se vogliamo – su cui esista documentazione storica. E le sue lotte contro il vassallo ittita Madduwatta (documentate nella cosiddetta Accusa di Madduwatta) rappresentano la prima offensiva micenea in Anatolia di cui abbiamo notizia nonché il primo conflitto tra Achei e Ittiti.