di Geraldina Colotti (da La Città Futura n. 214)
[La politica editoriale di Carmilla prevede di non ripubblicare testi già apparsi in rete. Facciamo eccezione per questo articolo della nostra amica Geraldina Colotti, direttrice dell’edizione italiana di Le Monde Diplomatique, perché pochi come lei, nel nostro paese, conoscono il Venezuela dall’interno, e pochissimi sarebbero capaci di una sintesi così riuscita.] (V.E.)
Il Venezuela al centro della scena, ma inquadrato da una sola angolatura, quella imperiale. In realtà, nel paese è in corso un golpe istituzionale organizzato dagli Stati Uniti per interposta opposizione oltranzista. Un golpe di nuovo tipo, basato su una pericolosa simulazione imposta e con la complicità della cosiddetta “comunità internazionale”. Nella versione mainstream, da una parte c’è un dittatore assai poco à la page, in quanto ex–operaio del metro, che affama il suo popolo e poi l’opprime quando chiede “libertà”. Dall’altra, c’è un giovane sconosciuto ma dinamico che ha deciso di dichiararsi presidente e di scalzare una volta per tutte l’”usurpatore”.
Il primo risponde al nome di Nicolas Maduro, il secondo è un tale Juan Guaidó. Ad appoggiare il primo – il presidente in carica, eletto il 20 di maggio 2017 con oltre 6 milioni di voti – c’è una folla di camicie rosse, donne, giovani delle periferie, operai, indigeni e afrodiscendenti. Ad assistere ai proclami del secondo – militante del partito di estrema destra Voluntad Popular, attuale presidente del Parlamento “in ribellione” – vanno settori di classe media, tanto distinti e composti sotto le telecamere, quanto dediti al golpismo e alla destabilizzazione nella realtà della politica attuale. I conflitti politici li risolvono bruciando vivi gli avversari. È successo durante le proteste violente del 2017, e di nuovo adesso, ma – allora come ora – i grandi media continueranno ad accreditare i morti all’altro campo.
Nessun esponente di opposizione ha eletto come presidente lo sconosciuto trentacinquenne, giacché la parte più estrema della destra ha deciso di sabotare le ultime elezioni, per aprire la strada ai piani di Washington. E infatti, per la prima volta nella storia del Venezuela, è stato Donald Trump a decidere che il paese bolivariano doveva avere un “presidente ad interim” direttamente nominato dalla Casa Bianca. Immediatamente, gli hanno fatto eco i vassalli: il Segretario Generale dell’Osa Luis Almagro, i paesi neoliberisti dell’America Latina e anche l’ipocrita Europa, che ha dato a Maduro un ultimatum: se non indice elezioni “democratiche” nel più breve tempo, verrà riconosciuto Guaidó come presidente.
Una situazione grottesca, che viola i più elementari principi di indipendenza di un paese sovrano e la legalità internazionale. Che non si basa su nessuna clausola costituzionale, che disconosce le istituzioni interne e la volontà degli elettori, e chiede l’invasione militare da parte di un paese straniero. Tutto questo si chiama “democrazia”? Evidentemente sì, data la lunga sudditanza dei governi europei ai diktat della Troika e del Fondo Monetario Internazionale. Evidentemente sì per quei governi latinoamericani di destra, nostalgici del tempo in cui il continente era considerato il “cortile di casa degli Stati Uniti”.
L’imposizione di una nuova “dottrina Monroe” da parte degli Stati Uniti è certamente alla base delle strategie destabilizzanti che hanno come bersaglio il Venezuela bolivariano. Un paese traboccante di risorse strategiche, dal petrolio, all’oro, al coltan e ad altri minerali, ma anche ricco di acqua. Mettervi la mano sopra significherebbe, tra l’altro, per gli USA, avere riserve petrolifere immense a disposizione a poca distanza, accorciando i tempi per il rifornimento inviato dai paesi del Medioriente agli Stati Uniti.
Significherebbe anche contrastare meglio i progetti cinesi per la nuova Via della Seta. Il Venezuela, inoltre, è governato da vent’anni da una “democrazia partecipata e protagonista” in cui a godere di quelle ricchezze non è più soltanto una ristretta oligarchia subalterna al grande capitale internazionale, ma il popolo. Un paese che in pochi anni ha dato ai settori tradizionalmente esclusi diritti e benefici prima preclusi, indicando una via diversa da quella del capitalismo. Un pericoloso esempio da stroncare con ogni mezzo: infettando e moltiplicando le antiche ferite, azionando moderni sistemi di killeraggio speculativo per “far urlare l’economia”, come fecero nel Cile di Allende il professor Friedman e i suoi Chicago Boys per ordine della Cia.
Quello del golpe cileno del 1973 è un esempio che in Venezuela hanno ben presente. Architrave della rivoluzione bolivariana, infatti, è l’unione civico-militare: Forze Armate addestrate dall’esempio dei “libertadores” e dal “socialismo umanista”, pronte a dare la vita per difendere la “pace con giustizia sociale” e non a vendersi al migliore offerente.
E questo è il primo scoglio con cui deve scontrarsi l’imperialismo per imporre al paese bolivariano il suo “governo di transizione” sul modello siriano o libico. Il secondo ostacolo è l’appoggio popolare di cui gode il chavismo, a dispetto dei costi pesanti imposti dalla guerra economica e anche a dispetto dei limiti di un “esperimento” post-novecentesco che prova a tracciare un nuovo cammino in acque infestate da squali. Il terzo ostacolo ai desiderata di Trump è la posizione del Venezuela nelle relazioni internazionali. Nel solco della politica di relazioni sud-sud costruita dai governi Chavez, il governo bolivariano ha relazioni privilegiate con Russia, Cina, Iran e ora anche Turchia. Dalla presidenza pro-tempore del Movimento dei Paesi non Allineati (la MNOAL, la più grande organizzazione dopo l’ONU) ha messo al centro la diplomazia di pace nei conflitti, che intende reiterare anche alla presidenza della Opec che le spetta ora.
Questi ostacoli hanno finora impedito che trionfasse la strategia del “caos controllato”, obiettivo perseguito dall’imperialismo sia con la guerra economica, con le sanzioni e con l’isolamento internazionale, sia con la creazione di una presunta “crisi umanitaria” di migranti alle frontiere. Argomenti con cui si è tentato di coinvolgere i paesi limitrofi, facendo del Venezuela bolivariano un problema per la sicurezza di questi stati, ovviamente alleati di Washington. Una strategia che, con il voltafaccia dell’Ecuador di Lenin Moreno ha picconato ferocemente le alleanze solidali tessute da Fidel Castro e da Hugo Chavez.
Il Venezuela è un laboratorio per le guerre di IV e V generazione che si servono dei grandi media come apripista dei conflitti armati. Come nelle precedenti aggressioni – Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – vengono costruite e diffuse grossolane simulazioni, pretesti per spingere più avanti il livello del conflitto. In questo caso, con l’imposizione di istituzioni internazionali totalmente artificiali (come il Gruppo di Lima), si evidenzia un ulteriore innalzamento della soglia e della politica dei fatti compiuti. Quel che tocca oggi al Venezuela, domani può toccare a qualunque altro paese, anche a quelli che oggi appoggiano le politiche del complesso militare industriale. Perché l’imperialismo non conosce bandiere.