César Vallejo, Guerra Verticale, Arkadia, Cagliari, 2018, pp. 126, € 14,00.
[Prosegue la riscoperta di scrittori di lingua ispanica dell’editore Arkadia. Guerra Verticale, del poeta peruviano César Vallejo (Santiago de Chuco, 16 marzo 1892 – Parigi, 15 aprile 1938), è il terzo della collana xaimaca, curata da Marino Magliani e Luigi Marfè. La sua vocazione poetica, e la sua etnia indio, si esprimono soprattutto nelle prose della seconda e terza parte di questa raccolta di racconti brevi. Una sezione è dedicata alle giornate di un carcerato, la sua visione claustrofobica e allucinata (esperienza vissuta, fu condannato in un processo farsa soprattutto per il suo impegno contro lo sfruttamento degli indios), un’altra alle notti di Lima, a personaggi con aure oniriche, alzando sipari su momenti di vita, rapide fotosintesi che passano come raggi di luce. Sono testi che non hanno un vero inizio né un finale risolutivo, ma scorrono come segmenti borgesiani su una retta che si perde all’infinito. La prima sezione è ambientata tra gli Incas, il popolo andino bellicoso e imperialista che nel XIII-XIV secolo aveva conquistato tutta la cordigliera. Vallejo immagina che il re guerriero Túpac Yupanqui (1441-1493), stanco di massacri e di violenza, un giorno decide di dire NO alla guerra e di instaurare un periodo di pace. Ma i sogni sono sogni, e gli dei, sempre avidi di sangue, non sono d’accordo… Di seguito pubblichiamo il racconto che apre la raccolta. MB]
L’ALTRO IMPERIALISMO
Tutto quel frastuono era provocato dall’esercito del principe ereditario, che stava rientrando in città, di ritorno dalla spedizione di conquista a Quito. Dalle terrazze del Sajsahuamán si vedevano sfilare i soldati, mentre facevano il loro ingresso nell’Intipampa, lungo il sentiero stretto della sierra.
In testa c’era Huayna Cápac, la cui figura ancora adolescente – era infatti la sua prima campagna militare – pareva indurita dalle intemperie, dalle vampe e dai freddi del nord. L’esercito, sfinito dal gelo nella leggendaria regione dei Chachapoya, traversava le prime strade di Cuzco, a passo lento, al ritmo dei tamburi di guerra. Le armi dell’Impero avanzavano precedute, a un tiro di fionda, dagli esperti frombolieri. Fiammeggiava poi l’Iris, ricamato su uno stendardo di lana e di piume, trafitto dai raggi solari e sormontato da un suntupáucar che raffigurava un airone d’oro. Marciavano eroi spigolosi, scavati di rughe, con in spalla la massa compatta dei queschuar, orba e sdentata per i colpi subiti; frombolieri emaciati e secchi; arcieri consunti e curvi dalle faretre logore, in mano un mazzo di frecce dalla punta metallica avvelenata, l’arco di guaco in spalla; lancieri dalle braccia enormi e ciondolanti, gli scudi di guaiaco rosi ai lembi; soldati senz’ascia, che zoppicavano penosamente… In mezzo marciava l’apusquepay, un vecchio dal mento enorme e gli occhi placidi, col suo turbante giallo, cinto da un tortigliere di piume malandato.
L’esercito entrava in città, abbattuto, menomato. Solo alcuni generali, ufficiali dell’aristocrazia o veterani, sorridevano al passaggio per le strade. Ma, in generale, gli uomini della spedizione e perfino lo stesso principe ereditario marciavano in preda a un profondo dolore.
Mentre gli ultimi soldati sparivano in fondo alla città, gli operai della fortezza li guardavano, carichi di strana indifferenza. Non risuonò nessun applauso, né un grido di entusiasmo. Le donne e i bambini facendo capolino dalle porte, osservavano i guerrieri con freddezza. Alcune donne attraversarono la carreggiata e diedero al parente che tornava qualche sorso di chicha da bere o gli portarono alla bocca un po’ di cancha e di patate dolci. Gli araldi rimanevano muti. Al posto dell’hailli della vittoria, riempiva le bocche un silenzio rannuvolato. Quando l’esercito passò davanti al tempio delle prescelte, ad Hanan-Cuzco, una vecchia scoppiò a piangere.
Da lontano vibrarono le fanfare di guerra, mentre l’esercito faceva il suo ingresso nella Piazza dell’Allegria. Erano gli ululati smorzati di trombe composte di crani di cani presi ai nemici. Alla dentatura di questi crani erano state legate corde di denti di scimmie del nord, in modo che, soffiando l’aria e suonando nel barbaro strumento, si sentiva uno stridore famelico che dava i brividi… All’udirli allora, la città sì rabbuiò in pena e silenzio.
Túpac Yupanqui, venuto a sapere dell’arrivo di Huayna Cápac, lo attese nel cortile di rame del palazzo, circondato dalla corte. Aveva la bocca contratta di rabbia. Il principe ereditario avanzò fino ai piedi del trono imperiale, con il capo scoperto e chino; fece un gesto di vassallaggio e obbedienza e, in tono sottomesso e prosternato, diede conto della spedizione.
«Padre», disse, «la conquista degli Huacrachuco è completata. Ho preso con me cinquecento mitimaes e ho lasciato sulle rive del Marañón cinquanta figli del Sole. L’audacia dei Quechua è stata eroica, per ottenere la resa di quella provincia, i cui giovani si sono difesi strenuamente, e, se non fosse stato per la decisione cui sono riuscito a indurre i loro anziani, con benefici e altre elargizioni, la sottomissione degli Huacrachuco sarebbe fallita…»
L’Inca rimase indifferente. Gli sguardi si rivolsero a lui, ansiosi di vedere l’effetto che avrebbero suscitato le parole dell’erede, il cui arrivo a Cuzco era inatteso. Non l’avevano lasciato presagire gli ordini recenti dell’Inca, né i risultati poco favorevoli che la spedizione aveva riportato fino a quel momento. I fuochi sui picchi, i chasquis, niente aveva annunciato un ritorno così improvviso.
«Dopo molte giornate attraverso la giungla», continuò Huayna Cápac, «ho attaccato i Chachapoya tra le loro mura e i loro fortini. Hanno fatto persino più resistenza degli Huacrachuco. Per tre lune ho assediato la città. Lì ho perso il grosso dell’esercito. I miei soldati sono morti abbattendo le selve che agli indigeni servivano da trincee e difese invulnerabili. Lì sono caduti anche molti reduci di Mauley Atacama. Ho replicato l’attacco. Cercando un altro lato meno inespugnabile, siamo saliti, di notte, girandoci intorno, fino all’altopiano di Chirma-Cassa…»
A quel punto, Huayna Cápac calcò nelle sue parole un accento di tragedia. La corte ascoltava attenta. Solo Túpac Yupanqui manteneva la sua aria stizzita, come sapendo in anticipo ciò che l’erede aveva da dire.
«In quella regione letale», aggiunse il principe, «ogni strategia era inutile, se non al prezzo di una grande abnegazione. In territori ignoti e assediati da una natura ostile, ho deciso di affrontare la strada maestra, quella di maggiore audacia e sacrificio. Così ho fatto, e ciò è costato trecento guerrieri del Sole, gelati dal freddo, alla vigilia del nostro ultimo e definitivo scontro col nemico. La battaglia in tali condizioni è stata impossibile. Ci siamo ritirati, siccome l’esercito era stato decimato, ho deciso, dopo un consiglio di guerra, di tornare a Cuzco…»
Così disse Huayna Cápac e si inginocchiò davanti a suo padre. L’Inca mutò aspetto e, in un attacco di collera, si stracciò le vesti, davanti alla corte spaventata, dicendo: «I figli del Sole sono stati ricacciati prima sulle montagne del Beni, da dove sono tornati a Mojos solo mille guerrieri dei diecimila che erano partiti, imbarcati su zattere preparate per due anni. Poi, all’inizio della conquista dei Chirihuana, hanno avuto paura dei selvaggi e dei cannibali. Dopo hanno ripassato il Maule, cedendo ai feroci Promoncae. E oggi, il figlio dell’Inca, il principe ereditario, nella sua prima campagna militare, ordina una ritirata vergognosa e interrompe così la conquista degli Sciri… Ebbene: niente più conquiste. Alle fatiche della pace!»
Túpac Yupanqui abbandonò la sua sedia d’oro e rientrò nei suoi appartamenti, seguito da Raucaschuqui. Gli altri rimasero indecisi sulla condotta da mantenere, dopo la sfuriata dell’Inca. L’erede si infilò nella sua testa di giaguaro e gettando il mantello su una delle spalle, con un gesto di rabbia e di dolore, si diresse al portico e sparì, seguito da due giovani huaracas, suoi luogotenenti nella campagna militare.