Giancarlo Visitilli, E la felicità, prof?, Einaudi Stile Libero Extra, Torino 2012, pp. 204, € 16.50
[Questa recensione è stata pubblicata sul n. 3 (marzo 2013) dell’Indice dei libri del mese]
«A volte c’è il rischio di perdersi, in questo mestiere, affrontando tanti temi che possono rimanere astratti rispetto alla vita degli alunni. Ti dici che è importante toccarli comunque: non li stai preparando a un esame di maturità, ma alla maturità, alla vita. Il tempo che ci è dato, però, non basta mai. E così le cose accadono».
È così, questo libro d’esordio di Giancarlo Visitilli: lo stile leggero, in apparenza colloquiale; il rapporto con i ragazzi come svolgimento di un continuo interrogarsi su se stessi e sulla vita; e, soprattutto, la nuda vita degli studenti, l’intreccio di desideri, passioni, ansie, aspettative sempre sottoposte al vaglio di un mondo che non ha alcuna benevolenza, che non aspetta, che impone e sanziona.
Giancarlo insegna in una scuola di Bari vecchia. Un piccolo sud incastrato dentro un grande sud: il rapporto tra centro e periferia, come quello tra città e campagna, è sotteso dalla stessa grammatica delle relazioni di potere che governa le pratiche e le retoriche del sottosviluppo meridionale – e Visitilli lo sa. La stessa scuola è, in una società che della scuola sembra non sapere più che farsene, un diverso meridione, sottoposto alle stesse retoriche del senso di colpa, dell’incompiutezza, del mancato raggiungimento degli obiettivi sempre fissati da chi esercita il potere: gli insegnanti, Bari o Brescia, nordici o sudici, sono i nuovi meridionali, sono quei maledetti professori che, come annota Ilvo Diamanti, «pretendono di insegnare in una società dove nessuno – o quasi – ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli». Perché non abolirli, dunque? Perché ogni nord del mondo ha bisogno del proprio sud, e persino una società come quella attuale ha bisogno di una scuola. Per far cosa? Per prendersi cura di qualcosa che sfugge alle rilevazioni degli apprendimenti, ai test o alle statistiche dell’OCSE: quella vita adolescente «condizionata da un magma di intelligenza sfrenata e di fanatica stupidità, l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi, e un giorno ti schiaccia e l’altro la fotti, non può non venire trascurata, poco considerata, malintesa. Troppo inquieta e troppo inquietante, troppo complicata», come la definiva un altro insegnante-scrittore, Sandro Onofri. Quella vita che ogni giorno la scuola deve prendersi in carico, facendole da insegnante e compagna di strada, psicologo e curatore di anime, badante e carceriere, e ancora insegnante, elargitore di premi e punizioni, raddrizzatore e indicatore di strade da percorrere, e ancora e sempre insegnante. Per un pugno di soldi, va da sé, gettati in faccia come elemosine tra un insulto e uno sputo, come si gettano gli ossi ai cani o gli ammortizzatori sociali conditi da sensi di colpa ai miserabili che ringraziano e baciano la mano che sfrutta e deruba il valore del lavoro prodotto.
La scuola è un microcosmo che produce relazioni e conflitti, che attutisce e prepara alla vita: se non lei, chi potrebbe farlo? E dentro questo microcosmo la cooperazione orizzontale e verticale di docente e studente, di docente e docente, di questa generazione con le precedenti produce a sua volta un valore non misurabile in numeri, statistiche o salari: la vita, appunto. La vita dello studente che ha perso il padre, suicidatosi per la disperazione indotta dalla crisi; della studentessa che non torna a scuola perché aspetta un figlio dal migrante che è stato espulso, o da quella che racconta all’insegnante della lotta col proprio corpo, con l’immagine alienata con cui combatte per non perderla, quella vita ridotta a poca pelle sulle ossa; del ragazzo autistico che si esprime sempre con la stessa frase: “è bugia!”, e di quello che vive in una perenne menzogna costruita dall’amore di un genitore che si fa padre e madre per nascondergli, finché sarà possibile, la tragica origine della sua disabilità; dei ragazzi che si fanno arruolare dal politico di turno nella speranza di un’assunzione dopo le elezioni – “Questa è gente che dà lavoro“; dei due fratelli che si tolgono la vita il giorno del loro compleanno, e di quello che stigmatizzato nella sua “malattia sessuale” dagli insegnanti, in un’altra città e in un’altra nazione troverà finalmente la felicità cui ha diritto.
Già: la felicità. Che sarebbe il tema del libro, ed è anche nel titolo: dov’è questa felicità? Nelle giornate di quest’anno scolastico narrato a metà strada tra il diario e l’epistolario, la felicità è sempre un passo avanti alla vita. Le vite dei ragazzi la inseguono, e quasi mai la afferrano. La felicità, sembra volerci dire l’autore, non è qualcosa che si possiede – e forse è un bene: se non è un oggetto, non è una merce. La felicità è una condizione, un modo di esprimersi della vita, può scomparire o pulsare senza preavviso, può durare un istante o o due e poi scomparire con l’ultima piroetta dell’attore che esce dal palcoscenico, oppure ricomparire e indicare una strada da percorrere. Può nascondersi in una scampagnata, in un film o in un buon racconto: o può risaltare nella sua negazione, nel dispiegarsi di esistenze sempre precarie, incerte, impaurite. Non è facile, parlare di felicità al tempo della crisi: ma ancora più difficile, è farlo senza cadere nella retorica di tanta cattiva letteratura pseudo-scolastica o adolescenziale, nella quale gli autori agitano i propri ego ipertrofici e deformano a proprio uso e consumo degli studenti che credono di aver incontrato, e di cui poco sanno, e forse poco gli interessa sapere. Merito di questo esordiente è, per contro, di aver affinato una scrittura che fa quasi scomparire l’io narrante, rendendone quasi impercettibili i segni: come l’ultimo Rossellini cancellava le tracce della macchina da presa per lasciare la narrazione alla propria autorappresentazione. Cancellare le tracce dell’io narrante significa andare all’origine della scuola narrata – quel Cuore anch’esso fatto di lettere e pagine di diario – per sottrarvi l’impianto moralistico, il dover-essere sabaudo, l’ombra eccessiva del padre che rimprovera il figlio per quegli attimi di felicità nella prima neve d’inverno.
Non saranno certo gli affossatori della scuola, i devoti della valutazione, i difensori della primazia dell’economia e della finanza a imparare qualcosa da questo libro. Quasi certamente non lo leggeranno neanche: e di certo Visitilli non ha avuto la scaltrezza di certi suoi colleghi-scrittori che si fabbricano il lettore ad hoc prima ancora di cominciare a scrivere. A trattenere un frammento, un ricordo, una riflessione con questo testo, e con le vite che si agitano ad ogni pagina sfogliata, saranno quei pochi a cui sta ancora a cuore il destino della scuola, e con essa il futuro di una generazione, vorrei dire di una nazione. A quelli che hanno ancora a cuore l’utopia di una vita degna di essere vissuta, questo libro aiuterà a capire che quello che oggi accade alle e nella scuola accade nei sud del mondo – uno dei quali, varrà la pena ricordarlo, si chiama Italia – al tempo della crisi, che batte ancora più forte tra i miseri e i miserabili: quando vai avanti ogni giorno, e ogni giorno è una battaglia, e avresti voglia di rifugiarti nel bagno per scrivere anche tu sul muro: Gesù, non ce la faccio più. Scendi dalla croce, ti do il cambio io.