di Franco Pezzini
Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali. (Odissea 18, 136-7)
Fa uno strano effetto recarsi ai Bray Studios, nel profondo della campagna inglese. Se in tempi recenti è stato possibile accedere all’interno solo in speciali occasioni memoriali (e con le nuove destinazioni immobiliari è difficile comprendere cosa sarà dell’area), anche il semplice colpo d’occhio sull’ingresso può emozionare chi ami il cinema popolare: da quel cancello degli studios (un tempo) della casa di produzione Hammer sono passati personaggi che hanno modellato in modo impressionante il nostro orizzonte immaginale, muovendo archetipi e dinamizzando strutture mitiche. A partire dai quattro moschettieri che sotto i vessilli Hammer hanno segnato in modo più evidente – senza far torto a tutti i compagni nelle retrovie produttive, organizzative e di collaborazione artistica – la rinascita del gotico/horror alla fine degli anni Cinquanta. Cioè il regista Terence Fisher (1904-1980), col suo immaginario vittoriano, la fascinazione per la Scienza e l’approccio allusivo che evoca senza mostrare; lo sceneggiatore Jimmy Sangster (1927-2011), il cui stile sogghignante svela dall’inizio una potente carica critica; e soprattutto i due interpreti Peter Cushing (1913-1994), già divo del piccolo schermo, la cui carriera conosce al tempo una nuova nascita nel segno del gotico, e l’allora quasi esordiente – aveva avuto in precedenza solo piccole parti – Christopher Lee (1922-2015).
Il fatto è che il peso di quell’epopea, avviata nel 1957 con La maschera di Frankenstein e subito dopo – stessa squadra, sull’onda dell’enorme successo di pubblico – dall’ancor più fortunato Dracula il vampiro del 1958, non tocca solo la storia del cinema fantastico. Attraverso un complesso interscambio con fenomeni culturali, economici e sociali di vario genere, in un Occidente che sta uscendo dai postumi del Secondo conflitto mondiale e fa i conti con la Guerra fredda, la Hammer si pone come un potente motore di quella riscoperta del linguaggio dell’insolito, del gotico e dell’occulto che influenzerà ad ampio raggio non solo la fiction popolare – e i relativi studi – ma letteratura e arte “canonizzati” e più in generale il modo di comunicare e pensare in tutto l’Occidente. Un fenomeno che, fermentato lungo il corso degli anni Sessanta, condurrà alla fine del decennio in tutto l’Occidente al grande revival magico, spesso in chiave antiautoritaria (a sfatare un po’ la vulgata che abbina magia e pensiero reazionario) e con declinazioni – va detto – anche bizzarre. Se poi in questione è un orizzonte (come detto) occidentale, soprattutto del Vecchio Mondo ma con impatto potente in quegli Stati Uniti che per anni lasciano all’Inghilterra il timone dell’immaginario gotico, occorre considerare che le ripercussioni saranno planetarie. L’influsso per esempio sul fantastico dell’Oriente, anche estremo, sarà avvertibilissimo.
A ricordarci topoi, impatto e sviluppi di questa mitopoiesi sono oggi due studi straordinari, usciti a un po’ di mesi l’uno dall’altro e di diverso taglio, ma che idealmente si integrano: due volumi varati con rigore e passione – ben avvertibile, il che è sempre una marcia in più – da specialisti riconosciuti e destinati, per la loro ricchezza, a restare punti di riferimento e basi ineludibili da cui partire per successive ricerche.
Il primo e più recente, a firma di un’autorità nel campo degli studi sulla teratologia sociale, Fabio Giovannini, è il monumentale Dracula il vampiro. Il capolavoro gotico della Hammer 60 anni dopo, volume autoprodotto a tiratura limitata (2018, pp. 363, euro 49, cfr. sito), perché “nessuno degli editori con cui sono in contatto o collaboro abitualmente avrebbe mai pubblicato un volume illustrato, di molte pagine, tutto a colori e con le caratteristiche che desideravo”. Il risultato è una festa dell’immaginazione gotica in otto capitoli più introduzione e allegati, con un corpo impressionante di foto – da quelle più note alle rarissime –, una esaustiva presentazione del film, la sceneggiatura comprensiva di scene rimosse o invece aggiunte rispetto al testo originale, il cineromanzo trattone, un commento puntuale alle scene e poi uno generale, più tutto il resto che si può chiedere su una pellicola. Informazioni sugli attori e sulla scenografia, sulla critica, i flani e il merchandising… Un regalo che l’autore si fa per i suoi sessant’anni, quelli del film e la sessantina di pubblicazioni al suo attivo, a celebrare l’opera che anche più profondamente de La maschera di Frankenstein dell’anno prima ha segnato l’avvio di un fenomeno di massa: basti pensare che Lee, già imbastito nel trucco “da incidente stradale” della Creatura di Frankenstein (mancavano i diritti sul classico make-up Universal costruito da Jack Pierce) ora nei panni del Conte può mostrare tutta la sua eleganza da danzatore, torrida seduttività e aristocratica distanza. Se d’altra parte nella rivisitazione della storia di Frankenstein si aveva già il botto del gotico (la Hammer aveva varato fino a quel punto solidi film di fantascienza, ma negli anni Cinquanta le fantasie gotiche erano state in generale abbandonate dal cinema un po’ in tutto l’Occidente), con Dracula il vampiro irrompe il sovrannaturale e quell’occulto – con richiami sempre più avvertibili al pagano e al magico – che poi emergerà per mille rivoli. Quella che oggi è uso chiamare occulture.
Come ricorda una delle frasi un po’ enigmatiche del disegno ad anelli concentrici sul pavimento della biblioteca dove si consuma la distruzione di Dracula, “Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali” (Odissea 18, 136-7: nel disegno il testo è in greco). Come a dire che la giornata che sorge a Bray, quella idealmente degli anni Sessanta coi demoni e dei del pandemonium Hammer, impatta sulle menti di uomini che si affannano a proclamarsi moderni, baloccandosi anche con l’atomica, per riscoprirsi affascinati da un mondo mitico-magico ancora dotato evidentemente di buone ragioni simboliche.
Giovannini si basa su una bibliografia molto ampia – e penso, oltre ai libri, alla quantità di articoli su riviste. Tra i volumi citati mi fa però piacere ricordare un testo solido, completissimo e relativamente recente di Stefano Leonforte, A qualcuno piace l’horror. Il cinema della Hammer Films (Leima, Palermo 2014) che oltre a ricordare per ariosità di formato il volume recensito, permette di collocarne l’oggetto in una più generale galleria di titoli.
Al di là dell’estrema godibilità, la summa di Giovannini sul film del ’58 non si consuma nell’orizzonte del puro fandom; e addentrandoci nel dedalo di suggestioni che propone ci imbattiamo in una quantità di indicatori di un’epoca (l’immaginario visivo e il nuovo uso del colore, la dimensione musicale, i rapporti con la censura…) e insieme di provocazioni verso gli anni che verranno. Inizia in sostanza l’età del Swinging Gothic in cui s’incrociano mantelli di Dracula e minigonne alla Carnaby Street, vertigini della modernità e vaghe nostalgie imperiali; sesso e sangue – mostrati e soprattutto allusi – vengono celebrati nell’ambito di film-liturgie con un linguaggio rituale molto articolato, in cui il pubblico partecipa (oltre lo schermo, come da un palco teatrale o sulle panche di un tempio) delle trasgressioni del Conte e dell’affidabile maturità del suo avversario; e il pubblico – compresi i giovani come nuovo target di riferimento, da cui suggestioni iniziatiche del rito – torna a interessarsi in via derivata di un certo tipo di narrativa che pareva aver perso appeal. In particolare Dracula il vampiro si pone come causa principale del boom orrifico e specificamente vampirico dei primi anni Sessanta: anche in termini di fiction e saggistica, e si pensi alle scampagnate vampiriche di Tony Faivre, Ornella Volta, Valerio Riva, Emilio De’ Rossignoli. Ed è qui che passiamo al secondo volume.
Fabio Camilletti, professore associato e Reader a Warwick ha nel giro di pochi anni pubblicato non solo ottime curatele di classici gotici ma illuminanti studi saggistici e anche testi divulgativi di qualità come una Guida alla letteratura gotica per Odoya (Bologna 2018). Il suo terreno è la letteratura e il suo nuovo volume Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Lang, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-New York-Wien 2018, pp. X-248, euro 51,47) è anzitutto un grande saggio di letteratura; ma non solo, perché le spettro è più ampio, e nei quattro capitoli più introduzione e conclusione troviamo cinema, studi sociali e un po’ di storia contemporanea. Si tratta di uno studio pionieristico (soprattutto le conclusioni potrebbero figliare parecchi altri volumi) ma con una compattezza e una ricchezza d’analisi che lo rendono fin d’ora preziosissimo.
Camilletti prende le mosse da un prodotto televisivo italico, cioè Il Segno del comando del 1971: un prodotto popolare di ottimo livello e dalla complessa genesi che si colloca al termine di quella stagione dei Sessanta che il Dracula di Fisher preparava. Dalle suggestioni occulte di quegli anni – nei due sensi, quello magico e quello poliziesco-spionistico (trame, servizi, golpe, Italia dei misteri e quant’altro) Il Segno del comando è epifania e metafora: e di qui un carotaggio nella cultura a monte per identificare una serie di radici di quest’Italia “lunare”.
Il panorama è ricchissimo, e l’autore segue quattro principali piste immaginali. Anzitutto (non a caso) il vampirismo tra Landolfi e Valerio Riva, Ornella Volta e De Rossignoli, Scerbanenco e i film di Polselli, Bava e Mastrocinque, ad analizzare le ricadute nostrane di un mito che al tempo spiazza i critici. Quindi i fantasmi: ed ecco entrare in gioco Fruttero e Lucentini (partendo dalla straordinaria antologia Storie di fantasmi, Einaudi 1960) e poi Soldati e Pitigrilli, Rol e tutta la stagione di una ghost story italicissima, nel complesso poco nota al grande pubblico odierno ma spesso qualitativamente alta, coi suoi perturbanti e perturbati. Si passa poi all’Italia dei dannati tra Charles Fort, Pauwels e Bergier, Folk Horror, Urban Wyrd e quel concetto di insolito che trova in Buzzati un grande anfitrione, in De Martino e Ginzburg studiosi d’eccezione e in Talamonti e Inardi curiosi repertoriatori. Fino al quarto tema, il demoniaco, alla luce livida del Toby Dammit riletto da Fellini e Bernardino Zapponi e delle risposte pontificie di quattro anni dopo. A quel punto Il Segno del comando “segna anche il momento in cui l’‘Italia dei misteri’ delle ‘Guide’ Sugar e dei vagabondaggi di Buzzati e Fellini lascia il posto a ‘misteri d’Italia’ di natura ben diversa”, nel segno del potere (il “comando”) e dei suoi giochi spregiudicati: dove i nessi tra paradigma esoterico – con quanto di paranoia implichi – e complottismo politico trovano rapporti in realtà concretissimi.
Di qui vicende che purtroppo conosciamo, compreso quel caso Pinelli che ha visto spesso il palazzo della questura presentato come sorta d’inconoscibile spazio gotico (con patologie misteriose come il malore attivo – prima considerazione del recensore), dunque con buona pace dei tentativi di avere giustizia (meglio pacificazioni senza verità scomode, e l’Italia-mamma ha riportato tanta bella concordia – seconda considerazione del recensore). È insomma “possibile che prodotti culturali come Il Segno del comando […] intercettino un preciso clima politico-sociale piuttosto che essere, rispetto a esso, strumenti di evasione”, disseppellendo “in pieno 1971, la capacità del gotico di afferrare obliquamente le tensioni e i conflitti di una società che si percepisce sempre di più alienata rispetto al ‘Palazzo’”.
D’altronde (come ben mostra l’autore) il gotico va “letto”, e la sua fittizia narrazione del passato in realtà parla del presente, di tutti i “presenti” che via via scorrono; ed è vero che a volte pare di trovarsi collettivamente in un romanzo gotico di cattiva qualità. In un castello d’Otranto dove l’occulto è spesso solo ciò che non si vuol vedere: e vengono in mente altre letture recenti che aiutano a guardare dietro quel velo di Pulcinella. Le impressionanti pagine di Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla repubblica (Laterza, Bari-Roma 2017) e Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi, Torino 2017) mostrano per esempio con chiarezza il pacifico e anzi onorato perpetuarsi di personale fascistissimo nell’amministrazione repubblicana, dove l’epurazione è stata limitata: e questi personaggi hanno avuto tutto il tempo di selezionare propri simili, perpetuare convinzioni mentalità atteggiamenti, e relativizzare valori (presuntamente) condivisi. Solo un tassello nell’Italia di misteri tra i decenni Sessanta e Settanta, ma che può dire qualcosa su quel passato e per li rami ancora su un certo fetore del nostro presente.