Stiamo arrivando a oggi. Oggi, per esempio, è un giorno in cui si parla di un crocefisso appeso in una scuola. Ecco, non è che non se ne parlasse anche ieri, soltanto che al posto della scuola c’era una banca. Pubblico alcuni illuminanti passi da un testo straordinario, che consiglio a chiunque di comprare e leggere attentamente: si tratta di All’ombra del Papa infermo (Kaos edizioni), scritto dai Luther Blissett del Vaticano: “Discepoli di Verità” è una sigla dietro la quale si nasconde infatti un gruppo di prelati e di funzionari vaticani. L’incredibile reportage, partorito dall’interno di San Pietro, è una mappa per il futuro e un saggio analitico su quanto poco si sa dell’attuale Pontefice e delle lotte decisive che si sono svolte si stanno svolgendo alle sue malferme spalle. Malferme? Non poi così tanto. Certo meno malferme di quelle del banchiere Roberto Calvi (nella foto a sinistra). Se ieri è anche oggi, vale la pena di leggersi questa parabola non proprio evangelica…
P2, IOR, CALVI
dei Discepoli di Verità
Sette giorni dopo l’attentato di piazza San Pietro, il 20 maggio 1981, la magistratura milanese dispose l’arresto cautelare del banchiere catto-massone Roberto Calvi, accusato di frode e reati valutari. Il precedente 5 febbraio, in relazione al crac di Michele Sindona, era stato arrestato anche l’amministratore delegato dello Ior, il laico Luigi Mennini.
La detenzione di Calvi suscitò grande allarme tra le Sacre mura: si temeva quanto il banchiere massone avrebbe potuto raccontare ai magistrati milanesi. Il 6 giugno, nel corso di un colloquio in carcere, il presidente dell’Ambrosiano affidò a sua moglie e a sua figlia un biglietto da recapitare in Vaticano con scritto: «Questo processo si chiama Ior»; appena le due donne uscirono dal carcere, Alessandro Mennini (figlio di Luigi Mennini, e dirigente del Banco Ambrosiano) tentò di impossessarsi del biglietto intimando Ioro di non nominare mai la banca vaticana, «nemmeno in confessione». Calvi sosteneva infatti che le operazioni valutarie illecite che lo avevano portato in carcere le aveva effettuate per conto della banca papale, dunque voleva essere soccorso dalla Santa Sede.
Mentre Calvi era detenuto e il Pontefice era infermo, la dirigenza del Banco Ambrosiano e i vertici dello Ior si incontrarono in Vaticano. Secondo il direttore generale dell’Ambrosiano, Roberto Rosone, «in quel colloquio monsignor Marcinkus disse che non c’erano problemi, ma che bisognava attendere la scarcerazione di Calvi per parlare con lui… In quell’incontro non vennero pronunciati nomi di società, né si parlò di cifre. Monsignor Marcinkus fece solo gli auguri per un pronto rientro del presidente [Calvi, ndr], e parlò di collaborazione che andava proseguita con la dovuta chiarezza e riservatezza».
L’agente massone Francesco Pazienza racconterà che durante la detenzione di Calvi venne mandato da monsignor Marcinkus a Nassau per convincere il figlio del banchiere, Carlo, a desistere dal creare problemi al Vaticano: «Carlo Calvi, dalle Bahamas, dava i numeri: inviava telex e telefonava continuamente in Vaticano dicendo cose di tutti i tipi… “Passatemi il Papa, passatemi monsignor Silvestrini”… Venni alIora mandato a Nassau per tenerlo sotto controllo, e da lì ricordo che richiamammo monsignor Marcinkus per fargli capire che Carlo Calvi era tranquillo e che non c’erano problemi». L’agente massone sosterrà inoltre che – sempre durante il periodo della detenzione di Calvi – ebbe alcuni incontri con monsignor Marcinkus «per definire le modalità dell’aiuto che lo Ior doveva prestare a Calvi».
A fine giugno Roberto Calvi venne processato a Milano per direttissima, e durante il processo le manovre vaticane per zittire il banchiere massone si moltiplicarono. Testimonierà suo figlio Carlo:
«Durante il processo di Milano a mio padre, Pazienza mi disse che monsignor Giovanni Cheli, rappresentante del Vaticano all’Onu, mi voleva vedere subito e assolutamente. Io alIora presi l’aereo e andai a New York insieme a Pazienza. Appena arrivai, Pazienza mi portò in un appartamento di Manhattan dove ad aspettarmi c’era un noto mafioso, già amico di Sindona e di Gelli, e un prete poi arrestato per contrabbando di opere d’arte. Ebbene, questi due signori mi raccomandarono di essere gentile con monsignor Cheli, e soprattutto di dar retta ai suoi consigli. Quindi tutti insieme – cioè Pazienza, il mafioso, il prete e io – andammo all’Onu, dove Cheli ci ricevette nel suo ufficio. Monsignor Cheli, in termini diplomatici, mi disse in sostanza quello che già monsignor Marcinkus mi aveva detto al telefono; dire a mio padre di stare zitto, di non svelare nessun segreto e di continuare a credere nella Provvidenza».
I “segreti vaticani” che Calvi doveva tacere ai magistrati italiani erano legati, in particolare, a varie società-fantasma (Astolfine Sa, Bellatrix Sa, Belrosa Sa, Erin Sa, Laramie Inc, Starfield Sa), tutte domiciliate nel paradiso fiscale di Panama, e possedute da tre holding: la Utc (United Trading Corporation, proprietà dello Ior e domiciliata a Panama), la Manie e la Zitropo (con sede in Lussemburgo, entrambe partecipate dallo Ior). Le otto società-paravento erano i terminali «dei traffici di Calvi e Marcinkus, ultima spiaggia della banca vaticana che sfruttava il Banco Ambrosiano Overseas di Nassau, alle Bahamas, quale “ponte” per ingarbugliare le tracce dei capitali succhiati dalle cassaforti del Banco Ambrosiano di Milano e dispersi nel mar dei Caraibi». Erano in pratica gli strumenti di operazioni finanziarie occulte. Come appureranno i liquidatori dell’Ambrosiano dopo il crac, le varie società-paravento del duo Marcinkus-Calvi al 17 giugno 1982 avevano drenato dal gruppo bancario milanese «un miliardo e 188 milioni dì dollari, più 202 milioni di franchi svizzeri», senza che se ne potesse appurare la destinazione finale: una parte certo utilizzata da Calvi e dalla P2, ma un’altra parte – con altrettanta certezza – utilizzata dal banchiere di papa Wojtyla.
Anni di simili scorribande ai danni dal Banco Ambrosiano erano nodi che stavano arrivando al pettine, e i due principali protagonisti erano impegnati da mesi nella partita finale. Monsignor Marcinkus voleva svincolare al più presto le finanze vaticane dal pericolante partner catto-massone, e recidere ogni legame fra la banca papale e l’Ambrosiano mantenendo segreti i rapporti pregressi. Calvi, da parte sua, contava sul soccorso della banca papale per evitare la bancarotta. La contesa era comprensiva di un “grande ricatto”, raccontato così dallo stesso Calvi: «Io gli ho detto sul muso a Marcinkus: “Guardi che se per caso risulta da qualche contabile che gira per New York che lei manda dei soldi per conto di Wojtyla a Solidarnosc, qui in Vaticano fra poco non c’è più pietra su pietra”. E quando ho visto che lui non diceva niente sono andato avanti… AlIora Marcinkus ha cambiato discorso, si è messo a parlare del Casaroli che interferisce…».
Il dirigente del settore estero del Banco Ambrosiano, Giacomo Botta, dichiarerà ai magistrati milanesi che «il dominio dello Ior sul Gruppo del Banco Ambrosiano era reso palese da una lunga serie di circostanze: la fulminea carriera di Alessandro Mennini [figlio dell’amministratore delegato dello Ior, Luigi, ndr], entrato inopinatamente in banca con il grado di vicedirettore; il trasferimento dallo Ior al Gruppo Ambrosiano della Banca Cattolica del Veneto, cui non era seguito cambiamento alcuno nella direzione e nell’organo di amministrazione; il finanziamento cospicuo dello Ior (150 milioni di dollari) che aveva aiutato la neonata società Cisalpine [poi Baol-Banco Ambrosiano Overseas Limited, ndr] ad affermarsi come banca; la presenza di monsignor Marcinkus nel consiglio di amministrazione della stessa banca di Nassau; la gelosia con la quale Calvi custodiva e gestiva il proprio esclusivo rapporto con lo Ior; l’appartenenza allo Ior di Ulricor e Rekofinanz, azioniste del Banco Ambrosiano, nonché di quattro società titolari dei pacchetti di azioni del Banco Ambrosiano che la Rizzoli aveva costituito in pegno per un finanziamento ottenuto da Baol». Botta dirà ancora: «Già nel 1977-78, quando divenni consigliere [del Banco di Managua], Calvi mi disse che il gruppo che controllava il pacchetto di controllo dell’Ambrosiano era lo Ior, che deteneva all’estero una consistente partecipazione del Banco. Seppi anche che le società che a quell’epoca l’Ambrosiano di Managua finanziava erano del Vaticano. Calvi probabilmente intendeva mettermi al corrente di questi segreti che lui tutelava gelosamente e intendeva altresì giustificare i finanziamenti dicendo che erano imposti dal Vaticano, che era in sostanza il padrone del Banco Ambrosiano».
Il 20 luglio il Tribunale di Milano dichiarò Calvi colpevole di frode valutaria, e lo condannò a 4 anni di prigione e a 15 miliardi di multa. Il banchiere catto-massone ottenne la libertà provvisoria in attesa del processo d’appello.
Poche settimane dopo Calvi si recò in Vaticano, da monsignor Marcinkus, nella sede dello Ior. Era la resa dei conti, e ne sortì un accordo truffaldino. Calvi firmò un documento che liberava la banca del Papa e Marcinkus da ogni responsabilità per l’indebitamento delle società panamensi verso il Gruppo Ambrosiano; in cambio, ottenne dallo Ior lettere a garanzia della situazione debitoria di quelle stesse società, con scadenza 30 giugno 1982. Attraverso le lettere di patronage della banca del Papa, e entro quella data, Calvi avrebbe dovuto trovare gli ingenti capitali necessari al salvataggio del suo impero finanziario.
In realtà Calvi non voleva perdere la preziosissima partnership della banca vaticana, anzi intendeva renderla organica e ufficiale. Ed essendo ormai bruciati i rapporti con la fazione massonico-curiale, decise di rivolgersi a quella avversa, con l’obiettivo di arrivare a coinvolgere l’Opus Dei. L’interlocutore del banchiere massone fu il cardinale Pietro Palazzini, prefetto della Congregazione per le cause dei santi e caposaldo curiale della fazione opusiana.
Cardinale di Curia dal 1973, da sempre vicinissimo all’Opus Dei, Pietro Palazzini era «un personaggio molto chiacchierato [anche] per l’amicizia che lo aveva legato a Camillo Cruciani, alto dirigente della Finmeccanica, fuggito in Messico in seguito allo scandalo Lockheed nel 1976».
Per 143 giorni, cioè fino al 7 ottobre 1981, quando papa Wojtyla interruppe la convalescenza e tornò brevemente in Vaticano per la prima udienza generale dopo l’attentato del 13 maggio, la Chiesa di Roma restò di fatto senza Pontefice. Cinque mesi nel corso dei quali la forzosa cogestione del potere vaticano da parte delle due fazioni in guerra si rivelò difficile ma possibile, e tutto sommato conveniente per entrambe. Ne fu un esempio concreto il commissariamento della celebre Compagnia di Gesù, deciso in Vaticano dalle due fazioni per una volta concordi nel colpire un’organizzazione – quella dei gesuiti – verso la quale nutrivano entrambe una forte ostilità.
Pochi giorni prima che il Santo Padre tornasse in Vaticano, il 29 settembre, la Santa Sede diramò una notizia stupefacente: il presidente della banca vaticana, monsignor Paul Marcinkus, era stato nominato dal Papa convalescente anche propresidente della Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano ; il capo dello Ior e neo-governatore dello Stato vaticano, inoltre, era stato promosso al rango di arcivescovo, in attesa di ricevere la porpora.
La notizia della nuova carica cumulata da monsignor Marcinkus (il quale in pratica era divenuto il capo assoluto di tutte le finanze vaticane) suscitò sorpresa e sconcerto nella stessa Curia. Un monsignore della Segreteria di Stato riferì che il cardinale Casaroli era «furibondo»: da tempo infatti il segretario di Stato e il capo dello Ior erano ai ferri corti. La stessa preinvestitura cardinalizia dell’arcivescovo americano alimentò molte congetture in Vaticano, e reazioni polemiche all’esterno – il giornalista laico Eugenio Scalfari scriverà: «Dio illumini papa Wojtyla e gli trattenga la mano! Se poi Dio volesse compiere il miracolo, suggerirebbe forse al suo Vicario di accertare gli equivoci traffici del suo vescovo-finanziere e di licenziarlo sui due piedi. Una figura così alta e ispirata come quella di Giovanni Paolo II non può essere socia in affari con Licio Gelli, con Michele Sindona e con le società panamensi di Roberto Calvi».
I nuovi poteri – soprattutto finanziari – attribuiti dal Papa a monsignor Marcinkus erano strettamente collegati alla sempre più esplosiva situazione interna della Polonia.
Da alcune settimane, a Varsavia, erano in corso frenetiche trattative fra il governo e Solidarnosc mediate dall’episcopato polacco in costante contatto con l’entourage del Papa convalescente. Il congresso di settembre del sindacato aveva confermato la leadership moderata di Walesa, ma solo di misura (poco più del 50 per cento dei delegati) rispetto alle istanze radicali: il sostegno politico-finanziario del Vaticano era risultato decisivo per la prevalenza della linea moderata, ma il pericolo che Solidarnosc assumesse posizioni più intransigenti e “rivoluzionarie” era concreto e incombente. Così le pressioni sovietiche sul regime polacco si erano fatte più minacciose e ultimative, e il governo di Varsavia aveva attribuito a Solidarnosc la responsabilità di condurre la Polonia verso un bagno di sangue, anche perché la situazione economica del Paese era ai limiti del collasso.
Fu proprio in quei giorni d’inizio autunno che a monsignor Marcinkus, gestore di tutte le finanze vaticane, pervenne l’esplicita richiesta – avanzata dall’ala radicale di Solidarnosc e sostenuta da ambienti atlantici – di finanziare la militarizzazione del sindacato cattolico polacco in vista di un’insurrezione. Erano già disponibili partite di armi, mentre in Germania e Austria erano state allestite alcune basi di addestramento alla guerriglia. L’assoluta contrarietà del clero polacco, del Pontefice, e dello stesso Marcinkus, vanificarono il progetto. Secondo un monsignore di Curia, verso la fine del 1981 il capitano della Guardia svizzera Alois Estermann si recò alcune volte, in incognito, a Danzica e a Varsavia, per coordinarvi l’arrivo di imprecisato “materiale” proveniente dalla Scandinavia e destinato al sindacato cattolico polacco.
La fazione opusiana appoggiava con veemenza il sostegno papale a Solidarnosc: per questo accettava che le finanze vaticane restassero nelle mani di monsignor Marcinkus, e che l’arcivescovo americano si facesse carico dei rischiosi finanziamenti segreti a Walesa. Anche la Loggia P2 – in dissenso dalla fazione massonico-curiale, a maggioranza fautrice dell’Ostpolitik – approvava i finanziamenti “anticomunisti” a Solidarnosc, che infatti avevano nel Banco Ambrosiano del piduista Calvi l’alveo di erogazione privilegiato.
Dichiarerà il massone Pier Carpi: «Gelli sosteneva che aveva versato nelle casse del Vaticano [tramite il Banco Ambrosiano, ndr] quasi 50 milioni di dollari per la causa polacca. Diceva: “In Polonia, come in tutti i Paesi a dittatura comunista, la Chiesa e la massoneria debbono essere unite come non mai, perché entrambe sono perseguitate”. Non gli piaceva, però, Lech Walesa: lo considerava un capopopolo… Ma in Vaticano lo avevano rassicurato: “Walesa è un degno figlio della cattolica Polonia, un simbolo attorno al quale è stato possibile indirizzare la protesta. Ma, al momento di trattare, Walesa si farà da parte, tornerà nell’ombra, perché avrà esaurito il suo compito: quello di mettere di fronte, per arrivare a un accordo, una Chiesa forte con uno Stato forte”» Lo stesso capo della P2 Licio Gelli ricorderà: «Nel settembre 1980 Calvi mi confidò di essere preoccupato perché doveva pagare una somma di 80 milioni di dollari al movimento sindacale polacco Solidarnosc, e aveva solo una settimana di tempo per versare il denaro». Anni dopo emergerà che anche una parte dei 7 milioni di dollari fatti affluire nel biennio 1980-81 dalla P2 – tramite l’Ambrosiano – sul conto svizzero “Protezione” a beneficio del politico italiano “anticomunista” Bettino Craxi, venne utilizzata «per aiuti ai polacchi di Solidarnosc».
Giovanni Paolo II concluse la convalescenza e tornò in Vaticano alla metà di ottobre 1981: duramente segnato, era l’ombra di se stesso.
Secondo una voce proveniente dal suo entourage, il Santo Padre era consapevole che la regia dell’attentato poteva essere in Vaticano, o che tra le Sacre mura poteva esservi stata qualche decisiva connivenza con gli attentatori, e che il fatto poteva essere collegato alla sua decisione di elevare l’Opus Dei a Prelatura personale. Ed è forse per questo che accettò una “speciale protezione” opusiana, di lì a poco visibile nella persona del capitano della Guardia svizzera Alois Estermann, nuova guardia del corpo del Pontefice. Nei dicasteri curiali si mormorava che il Santo Padre – ancora scioccato dall’attentato subito – fosse tormentato da una umanissima paura.
Il 14 novembre la Congregazione per i vescovi, retta dal cardinale Sebastiano Baggio, inviò alle Conferenze episcopali una “Nota informativa riservata” che annunciava: «Il Santo Padre ha decretato l’erezione dell’Opus Dei in Prelatura personale, approvandone i relativi Statuti. Per disposizione espressa del Santo Padre, i Vescovi vengono informati circa le caratteristiche concrete della Prelatura e la reale portata del provvedimento preso». Lo scopo della nota, lunga tre cartelle dattiloscritte, era di tranquillizzare l’episcopato, ma in realtà confermava tutti i timori dei vescovi, con l’aggravante del fatto compiuto: malgrado le forti opposizioni, il decreto papale che avrebbe accordato all’Opus Dei la Prelatura personale sembrava cosa già fatta.
Benché fosse “riservata” e coperta dal “segreto pontificio”, la nota del cardinale Baggio finì sulle pagine del quotidiano tedesco “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. L’Opus Dei, a quel punto, si affrettò ad annunciare che molti vescovi, da ogni parte del mondo, esprimevano all’Obra le loro più vive felicitazioni per il prestigioso riconoscimento ottenuto. Ma la manovra venne smascherata nel volgere di pochi giorni.
Comincia a non vederci chiaro il cardinale Eduardo Pironio, capo della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari. Si accorge che nella “Nota informativa”, su carta intestata della Congregazione per i vescovi, mancano il numero di protocollo e la firma di un responsabile, contrassegni di rigore per ogni carta curiale, specie se destinata ai vescovi. Pironio rifiuta perciò di autorizzare l’archiviazione del documento in attesa di chiarimenti circa la paternità del medesimo.
Arrivano poi, sempre più incalzanti, le richieste di spiegazioni di alcuni vescovi italiani. La “Nota” è stata mandata anche alla Conferenza episcopale italiana, tramite il nunzio Romolo Carboni [della cordata opusiana, ndr]. E nella sua lettera di accompagnamento, i vescovi notano una contraddizione: prima si fa sapere che “la Nota non ha il carattere di una consultazione”, poi che la Nunziatura “avrà cura di segnalare con ogni sollecitudine alla Sacra Congregazione per i vescovi gli eventuali suggerimenti e osservazioni che le perverranno”. Il tutto con la “viva raccomandazione di tenere la notizia del provvedimento pontificio sotto speciale segreto fino al giorno della sua pubblicazione ufficiale, che verrà a suo tempo notificata”. La questione posta a Roma dai vescovi è la seguente: se il Papa ha già deciso, come assicura la “Nota” del cardinale Baggio, perché mandare suggerimenti e osservazioni? O la decisione è ancora “in fieri”? La risposta arriva dalla Congregazione dei religiosi ed è clamorosa: “Non c’è alcun decreto”. Come dire che la “Nota informativa” aveva bluffato. E con un obiettivo preciso: quello di suscitare una massa tale di consensi tra i vescovi, per una decisione ritenuta già firmata dal Papa, da seppellire ogni dissenso e assecondare il varo del decreto nelle forme volute dall’Opus Dei e riferite nella “Nota”.
La manovra della “Nota informativa” del 14 novembre 1981, orchestrata dall’Opus Dei per accelerare l’ottenimento dello status di Prelatura personale, confermava che il convalescente Giovanni Paolo II era in stato d’assedio: incalzato dalla fazione opusiana (che era arrivata al punto di attribuirgli un decreto inesistente), frenato da quella massonico-curiale.
Il 2 dicembre, a Londra, l’arcivescovo di Westminster cardinale Basil Hume, conclusa l’inchiesta sull’Opus Dei avviata il precedente gennaio dopo la pubblica denuncia del docente universitario John Roche, ribadì ai responsabili dell’Obra britannico la propria autorità vescovile su tutta la Chiesa locale. Quindi li invitò a «rispettare la libertà dell’individuo di aderire all’organizzazione o di lasciarla senza che vengano esercitate ingiuste pressioni», e a garantire «la libertà per l’individuo di scegliere il proprio direttore spirituale, che sia o no membro dell’Opus Dei». Il cardinale Hume stabilì infine che «nessuna persona al di sotto dei 18 anni deve essere autorizzata a pronunciare voti o ad assumere impegni a lungo termine in riferimento con l’Opus Dei».
Intanto, il precedente 25 novembre era approdato al vertice della Curia romana – nominato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – il cardinale Joseph Ratzinger. Arcivescovo di Monaco dal marzo 1977, teologo che durante i lavori conciliari si era segnalato per le sue posizioni progressiste e innovatrici, Ratzinger era il primo porporato tedesco cui veniva assegnata una poltrona al vertice della Curia vaticana. Con quella nomina, la potente “ala tedesca” della Chiesa incassava il sostegno fornito all’elezione di Giovanni Paolo II. Un avvento voluto e benedetto dalla fazione opusiana, poiché il nuovo custode dell’ortodossia dottrinaria di Santa Romana Chiesa, ex progressista “pentito”, era da tempo schierato su posizioni integraliste, e si rivelerà subito un falco restauratore. Al punto da guadagnarsi l’appellativo curiale di Adolf Ratzinger (nonché quello, appena più benevolo, di Panzerkardinal), e una laurea honoris causa dall’università dell’Opus Dei di Pamplona.
In Polonia la situazione precipitò ai primi di dicembre 1981. Nuovi scioperi e rivendicazioni di Solidarnosc, un ulteriore aggravamento della crisi economica, e le minacce di invasione da parte dell’Urss (con voci di movimenti di truppe sovietiche ai confini), indussero il generate Jaruzelski – ministro della Difesa, capo del governo, e dal precedente 18 ottobre anche segretario del Partito comunista polacco – a dichiarare lo “stato d’assedio” revocando le garanzie costituzionali.
La dirigenza di Solidarnosc – a partire dal leader Walesa – venne arrestata e incarcerata, radio e tv di Stato informarono i polacchi che tutti i poteri erano stati assunti da un consiglio militare “di salvezza nazionale”. Scoppiarono alcuni tumulti, nel corso dei quali persero la vita 9 lavoratori e 4 militari: un dramma molto contenuto, rispetto a quanto avrebbe potuto accadere. Il colpo di Stato sostanzialmente incruento del generale Jaruzelski salvò in pratica la Polonia dall’invasione sovietica e da un immane bagno di sangue.
In Vaticano, nelle stanze della Segreteria di Stato, le notizie provenienti da Varsavia resero il clima plumbeo. Il cardinale Casaroli, benché all’apparenza imperturbabile, era fuori dalla grazia di Dio. Non erano pochi i curiali che ritenevano il Sommo Pontefice corresponsabile della tragedia polacca, gravida di incognite ben più sanguinose. Si temeva, sopra ogni altra cosa, che emergessero i finanziamenti vaticani a Solidarnosc, e che il sindacato-partito cattolico voluto e sostenuto da Giovanni Paolo II a quel punto sfuggisse al controllo politico papale imboccando la strada dell’insurrezione.
Il Pontefice rivolse un appello «pressante e sincero» al generale Jaruzelski, «una preghiera affinché abbia fine lo spargimento di sangue polacco». Nel corso dei suoi notiziari, la Radio vaticana annunciò in 36 lingue: «È in atto un dramma che ha ancora le possibilità di risolversi in positivo, nonostante l’alto costo di sofferenza pagato dai polacchi. Ma nessuno si nasconde che tra le possibilità esiste anche quella del peggioramento», ed esortò i fedeli a raccogliere gli appelli del Papa alla «preghiera di tutti i cristiani».
Il 18 dicembre Giovanni Paolo II inviò a Varsavia monsignor Luigi Poggi, il quale venne ricevuto dal generale Jaruzelski alla vigilia di Natale. L’episcopato polacco era ormai completamente scavalcato, il Sommo Pontefice era coinvolto in prima persona nella crisi polacca. Dall’entourage papale trapelò la voce che il Santo Padre, ancora segnato dai postumi psicofisici dell’attentato subito, versasse in uno stato di ulteriore prostrazione psicologica per l’aggravarsi della crisi polacca, e che avesse minacciato di lasciare il Vaticano per trasferirsi a Varsavia qualora la situazione fosse degenerata.
Nel dicembre 1981 il finanziere Carlo De Benedetti, da pochi giorni vicepresidente e azionista dell’Ambrosiano (il 18 novembre aveva acquistato per 50 miliardi il 2 per cento del Banco), tentò di appurare con precisione quali rapporti legassero la banca di Calvi e la P2 alla banca del Papa:
«All’atto del mio ingresso nel Banco era fatto ampiamente notorio che lo Ior detenesse anche ufficialmente una partecipazione nel Banco Ambrosiano. Inoltre era fatto notorio che monsignor Marcinkus sedeva nel consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano Nassau. Devo precisare che ho specificamente chiesto a Calvi quale fosse l’effettiva partecipazione di Ior e se il suddetto avesse una esposizione debitoria, e quale, nei confronti del Banco. Calvi mi rispose in maniera estremamente elusiva dicendo trattarsi di cose particolarmente riservate. Devo dire che le mie preoccupazioni al riguardo, in ordine all’esigenza di veder chiaro su questo aspetto dell’attività del Banco, nascevano dalle tante notizie, di stampa e non; dallo stesso contenuto, per quanto pubblico, della relazione sull’ispezione effettuata dalla Banca d’Italia all’Ambrosiano nel 1978; dal fatto che monsignor Marcinkus sedesse nel consiglio di amministrazione dell’Ambrosiano Overseas di Nassau […].
Devo dire che il fatto che Calvi eludesse ogni domanda di spiegazioni al riguardo contribuiva ad alimentare i miei sospetti in ordine alla natura e all’entità dei rapporti Ambrosiano-Ior. Fu per questo che tentai di vederci più chiaro per altra via, attraverso un incontro privato con monsignor Achille Silvestrini della Segreteria di Stato vaticana.
L’incontro avvenne a Roma, nella mia abitazione, presente – in veste di amico e per un fatto di pura cortesia – l’onorevole Rognoni [il ministro dell’Interno e deputato Dc Virginio Rognoni, ndr]. Nella occasione, partendo io dalla esplicita affermazione essere il presidente dello Ior Marcinkus “un ladro” e apparirmi inconcepibile che uno Stato come il Vaticano avesse le proprie finanze affidate a un tipo così, rappresentai la necessità, nell’interesse del Vaticano, che si guardasse bene nell’attività dello Ior e nei rapporti Ior-Ambrosiano. Monsignor Silvestrini, con aria addolorata, prese atto del mio parlare esplicito e fermo, e mi disse che neppure loro – riferendosi anche al cardinale Casaroli – sapevano granché dell’attività dello Ior, e mi invitò a fornirgli un appunto affinché egli stesso potesse parlarne al Pontefice. Rammento che a proposito della mia definizione di monsignor Marcinkus, il predetto monsignor Silvestrini si strinse nelle spalle e disse trattarsi di una “pecorella smarrita”».
Il successivo 22 gennaio 1982 De Benedetti, sottoposto a pressioni e minacce, lasciò il Banco Ambrosiano cedendo la propria quota del 2 per cento allo stesso Calvi, per una somma che procurerà al finanziere l’accusa di concorso in bancarotta fraudolenta e una vicenda giudiziaria lunga e tortuosa conclusasi con l’assoluzione. Dirà ancora De Benedetti: «Ho riflettuto a lungo su quanto mi disse monsignor Silvestrini nel dicembre ’81, per cercare di interpretare il comportamento di Marcinkus. Avevo capito fin da allora che con Silvestrini non si poteva parlare di Marcinkus. Così come mi fu altrettanto chiaro che questo vescovo americano doveva avere un rapporto assolutamente particolare con il Papa. Del resto, già allora si diceva che Marcinkus raccogliesse soldi per la Polonia».
L’avvocato Giuseppe Prisco, dal 1980 membro del consiglio di amministrazione dell’Ambrosiano, dichiarerà: «Calvi era considerato il padrone del Banco… Una volta gli chiesi quante azioni del Banco avesse, e egli mi rispose che non ne aveva nemmeno una. Volli sapere allora a chi appartenevano le varie società estere che risultavano tra i maggiori azionisti del Banco, [e lui] fece un segno verso il cielo. Alludeva al Padre eterno, e più in particolare ai suoi rappresentanti in terra. Mi disse invero che quelle società erano dello Ior, e quindi che in sostanza l’Ambrosiano era controllato dallo Ior. Il problema di chi fosse [la proprietà del] Banco Ambrosiano io me l’ero sempre posto; mi incuriosiva il fatto che le relazioni degli amministratori si concludessero con un ringraziamento alla Divina provvidenza per gli utili conseguiti. Mi ero convinto pertanto di essere effettivamente entrato in quella che era chiamata la banca dei preti».
In Vaticano la fazione massonico-curiale era molto più radicata e potente di quella opusiana, ma anche molto meno compatta. Alla storica divisione fra concezioni innovative e conservatrici che la percorrevano, l’intrigo Ior-Ambrosiano, e l’intesa di monsignor Marcinkus con il Pontefice, avevano accentuato le divisioni intestine. Il conflitto più lacerante vedeva contrapposti il capo dello Ior e il cardinale Casaroli.
Il segretario di Stato, in perenne dissenso dal Pontefice rispetto alla pericolosa politica wojtyliana verso la Polonia comunista e il blocco sovietico, considerava gravissimo il fatto che lo Ior, attraverso il Banco Ambrosiano, finanziasse Solidarnosc: il cardinale Casaroli riteneva concreto e incombente il rischio che la morsa del regime comunista di Varsavia sulla Chiesa polacca si stringesse, o che la situazione del Paese degenerasse in una guerra civile; temeva sopra tutto un intervento militare diretto dell’Urss, che avrebbe vanificato anni e anni di Ostpolitik ed esposto l’Europa al rischio di un terzo conflitto bellico mondiale.
Con il divenire dello scandalo Ior-Calvi-Ambrosiano, la figura di Marcinkus si faceva sempre più ingombrante per la fazione massonico-curiale, proprio mentre il potere del presidente della banca papale, nominato anche governatore dello Stato vaticano, era aumentato a dismisura. Il cardinale Casaroli intendeva recidere i legami Ior-Ambrosiano mediante una trattativa diplomatica e una transazione finanziaria; monsignor Marcinkus era assolutamente contrario a una simile eventualità, ritenendo che la Santa Sede dovesse limitarsi a negare qualunque responsabilità dello Ior nell’imminente bancarotta dell’Ambrosiano. Il presidente della banca papale costituiva ormai nei fatti un elemento di debolezza per la fazione curiale, e un oggettivo complice della fazione avversa.
Gli echi del contrasto Casaroli-Marcinkus finiranno nelle memorie del massone Francesco Pazienza. L’agente-collaboratore del servizio segreto militare italiano racconterà di essere stato mandato in Vaticano dal capo del Sismi, il generale massone della P2 Giuseppe Santovito, su richiesta della Segreteria di Stato vaticana, per incontrare il braccio destro del cardinale Casaroli, monsignor Pier Luigi Celata:
«Monsignor Celata prese la questione alla larga. Ma poi, a poco a poco, arrivò al nocciolo… Il nocciolo della questione aveva un nome e cognome: monsignor Paul Marcinkus, il potentissimo capo della banca vaticana, lo Ior… La richiesta di monsignor Celata era questa: bisognava fare in modo che il vescovo di Chicago mollasse la presa sullo Ior. Sarebbe toccato a me scoprire come. Ma, in realtà, c’era un unico sistema: trovare un’adeguata documentazione che dimostrasse come le attività della banca [del Papa] e del suo capo non erano proprio consone a quelle della Chiesa cattolica. In poche parole, bisognava creare uno scandalo… Mi accomiatai dal prelato, dicendogli che gli avrei fornito una risposta quanto prima sull’accettazione di quell’incarico. “Per comunicazioni fuori dai consueti orari, lei potrà contattarmi presso l’Istituto San Giuseppe, dove c’e la mia abitazione”, mi disse prima di salutarmi […].
Era chiaro che era in corso un durissimo scontro di potere ad altissimo livello all’interno della Curia romana. Ed era anche chiaro che le motivazioni di ordine morale, o moralistico, che monsignor Celata mi aveva fornito (“Bisogna far si che lo Ior smetta di svolgere attività poco consone a quelle di Santa Madre Chiesa”) non era certamente quella vera. Ci doveva essere qualcosa di ben più grande e preoccupante. E la vicenda non poteva certo considerarsi frutto di antipatie personali o di problemi tra questo e quel prelato […].
Nel vagliare le informazioni che le mie fonti mi facevano arrivare, accadde quello che spesso succede quando entra in campo quella variabile indipendente legata al caso e alla fortuna. Ovvero che una di queste mie fonti fosse, nello stesso tempo, anche depositaria di documenti e d’informazioni che erano proprio del tipo richiesto e cercato da monsignor Luigi Celata.
In Svizzera, presso l’avvocato Peter Duft di Zurigo – il quale era stato consulente del cardinale Egidio Vagnozzi e depositario di molti documenti dello stesso – ebbi la ventura di rintracciare carte pericolosamente compromettenti per monsignor Marcinkus, probabilmente le stesse che il cardinale Casaroli, tramite monsignor Celata, stava cercando. In effetti erano documenti depositati in Svizzera dal cardinale Vagnozzi, ormai defunto. Il porporato era. stato un acerrimo nemico di monsignor Marcinkus, al tempo in cui quest’ultimo lo aveva scalzato nella gestione delle finanze vaticane. Quindi, si trattava di documenti che avevano la loro origine proprio all’interno del Vaticano».
L’agente-collaboratore del Sismi, attivato dalla Segreteria di Stato vaticana per colpire monsignor Marcinkus, nel corso della sua “missione” appurò che «il Papa era inviso alla cerchia di coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più stretti e fidati collaboratori» in quanto papa Wojtyla era «un vero e proprio “alieno” giunto dalla Polonia e completamente estraneo e avulso dal nocciolo duro dei prelati italiani che costituivano il nucleo storico della Curia, abituati a gestire a modo loro, e in maniera assoluta, la complicata ma quasi perfetta macchina vaticana», al punto che di Giovanni Paolo II «non ci si poteva fidare»:
«C’era il rischio che quel Papa mettesse a repentaglio il potere consolidato costruito in tanti anni di lavoro, dentro e fuori le mura della Santa Sede… Occorreva, dunque, nel disegno di chi deteneva il potere, “neutralizzare” il nuovo Papa, soprattutto isolandolo e impedendo che creasse uno staff di persone di assoluta sua fiducia. Il fatto che si fosse creato, invece, un asse privilegiato tra papa Giovanni Paolo II e Paul Marcinkus, il quale teneva i cordoni della borsa e quindi aveva un potere grandissimo, infastidiva non poco i “congiurati” e li aveva indotti a passare all’azione in modo brusco e con quelle modalità cosi inconsuete.
Ovviamente, c’erano anche ragioni politiche, e non solo di puro potere, alla base di questa sorta di “congiura” contro il Papa: le idee di Karol Wojtyla riguardo ai Paesi del blocco comunista non collimavano affatto con quelle del suo segretario di Stato, il quale, negli ultimi anni del lungo pontificato di papa Montini, aveva intessuto una serie d’iniziative diplomatiche molto raffinate e complesse col Cremlino e le altre capitali dell’Est europeo. Ma tale raffinatezza e tali intrecci non sembravano aver favorevolmente colpito il Pontefice e le sue idee in proposito. Anzi, Wojtyla, fin dalle sue prime mosse, dal punto di vista “politico” aveva lasciato intuire che il Vaticano sarebbe andato nella direzione di una linea dura, di scontro frontale con Mosca e i Paesi satelliti».
Francesco Pazienza era effettivamente di casa in Vaticano, e tra le Sacre mura «aveva importanti relazioni: una volta, a casa sua, ho incontrato monsignor Giovanni Cheli, che credo fosse l’ambasciatore del Vaticano presso l’Onu» . Soprattutto, l’agente massone era una specie di fiduciario di monsignor Achille Silvestrini, presso il quale aveva introdotto lo stesso capo del Sismi, il generale massone Giuseppe Santovito. Racconterà Pazienza: «Conoscevo monsignor Silvestrini da più di due anni [dal 1978, ndr]. Mi era stato presentato, nel corso di una delle mie frequenti visite romane, nel periodo in cui abitavo a Parigi, da monsignor Carlo Ferrero. Quest’ultimo era un altro personaggio straordinario, l’ideatore di quella università cattolica di grande prestigio che è stata la Pro Deo. […] Venni introdotto nello studio di monsignor Silvestrini. M’inginocchiai davanti a lui e gli baciai l’anello. La sua accoglienza fu molto calorosa, amichevole e cordiale. Gli spiegai le ragioni per cui avevo chiesto di essere ricevuto in udienza. Al termine del lungo scambio di vedute, chiesi anche il permesso dell’alto prelato per potergli presentare il direttore dei servizi segreti militari della Repubblica italiana [il generale Santovito, ndr]. Fu lieto della richiesta, acconsentì e non nascose la sua meraviglia che questa conoscenza non fosse avvenuta prima. Oltretutto, ci sarebbero state anche “ragioni di ufficio” molto importanti che avrebbero dovuto spingere il generale Santovito a chiedere udienza: il Sismi, infatti, aveva un ruolo non secondario per quanto riguardava la sicurezza del Santo Padre, quando Giovanni Paolo II era impegnato nei suoi frequenti viaggi all’estero» .
Appurata l’esistenza a Zurigo del dossier contro monsignor Marcinkus, Pazienza ne aveva riferito a monsignor Celata. «Coloro che mi avrebbero potuto fornire tali documenti, tuttavia, volevano denaro, e per quanto mi constava né il generale Santovito né monsignor Celata avevano intenzione alcuna di sborsare denaro… Quando ebbi il primo incontro con Calvi, nei marzo 1981, a Roma, egli era gia perfettamente a conoscenza di questa embrionale attività da me svolta per conto del cardinale Casaroli e nell’ambito di quello scontro di fazioni contrapposte in atto in Vaticano. Ebbi pertanto la sensazione che Calvi avesse voluto vedermi soltanto per carpirmi informazioni su questa vicenda… Gli dissi che mi ero stancato di lavorare per il Sismi [e allora Calvi] mi chiese se volessi diventare il suo consulente personale… Lasciai il Sismi per diventare consulente di Calvi».
Il tentativo operato da Calvi di coinvolgere l’Opus Dei nell’azionariato del Banco Ambrosiano si protrasse per alcuni mesi, nei corso dei quali il banchiere massone fece pervenire al cardinale Palazzini proposte, documenti, e “confidenze” sulle connessioni segrete fra lo Ior e l’Ambrosiano. In pratica, Calvi proponeva alla fazione opusiana di estromettere monsignor Marcinkus dalla presidenza dello Ior, di affidare la banca papale a un fiduciario dell’Opus Dei, e di far rilevare dallo Ior una quota societaria del 10 per cento del Banco Ambrosiano per 1.200 milioni di dollari.
A febbraio del 1982 il cardinale Palazzini diede risposta negativa. Probabilmente quelli dell’Obra «avevano fiutato l’affare, ma dovevano vedersela con il cardinale Casaroli, interessato a impedire che l’Opus Dei, così ostile ai sovietici e tanto amica dei polacchi di Solidarnosc, mettesse le mani su un impero finanziario [Ior-Banco Ambrosiano, ndr]. Il Papa la pensava come il cardinale Palazzini, pero non voleva problemi con il suo segretario di Stato», e men che meno con la fazione massonico-curiale.
Secondo la testimonianza resa da Pazienza in sede giudiziaria, in quello stesso periodo «Calvi venne a Roma e mi disse che stava recandosi in Vaticano, approfittando che era assente Luigi Mennini… Calvi, dal momento in cui non aveva potuto più disporre del suo passaporto e per di più era incorso nelle note disavventure giudiziarie, aveva preso a servirsi del sistema di comunicazione e dei telex in Vaticano, ogni qualvolta aveva bisogno di muovere capitali di sua pertinenza all’estero… Nell’occasione Calvi mi disse appunto che intendeva approfittare dell’assenza di Luigi Mennini, da lui definito un ficcanaso, per disporre movimentazioni di denaro approfittando dei telex del Vaticano. In particolare mi disse che in quel momento [nella sede dello Ior] c’era solo monsignor De Bonis, e aggiunse che, per poter ordinare l’operazione, aveva bisogno immediatamente del nome di una società panamense sulla quale operare».
La serata de la Santa Pasqua del 1982, l’11 aprile, il Pontefice la trascorse nel cortile vaticano di San Damaso, tra canti e suoni di chitarre: vi erano riuniti, a migliaia, studenti universitari di 36 Paesi, organizzati e convogliati dall’Opus Dei al cospetto del Santo Padre.
La regia dell’Obra fu come sempre impeccabile. Il Pontefice – che teneva sulle spalle uno scialle nero per ripararsi dalla frescura serale – si intrattenne a lungo con gli studenti, e l’incontro culminò quando Giovanni Paolo II li invito a recitare con lui il Pater noster in latino e a cantare in coro una invocazione alla Vergine Maria.
L’articolazione mondiale, l’efficienza organizzativa, l’assoluta discrezione e riservatezza, la capacita aggregativa dell’Opus Dei erano per il Santo Padre un’oasi rassicurante, nell’ambito di una Chiesa percorsa ancora e sempre da disordini e tensioni, con una Curia romana paludosa, ostile e infida. La forza silenziosa e ordinata dell’Obra era il solo conforto e la sola fonte di sicurezza per il Sommo Pontefice, ancora convalescente e scosso dall’attentato subito, e gravemente angustiato per la situazione polacca.
Il 13 maggio 1982, anniversario dell’attentato di piazza San Pietro, Giovanni Paolo II si recò al santuario mariano di Fatima: intendeva rendere omaggio alla Vergine Maria, la cui intercessione – sosteneva la fazione opusiana – aveva impedito che le pallottole sparate da Alì Agca lo colpissero a morte.
Nella basilica di Fatima, al termine della “processione delle candele”, mentre il Papa risaliva l’altare, tra i fedeli assembrati un uomo in abito talare gridò «Abbasso il Concilio Vaticano II! Abbasso il Papa! Abbasso il comunismo!» e tentò di colpire il Santo Padre: era armato di una baionetta di fucile. Il pronto intervento del servizio di sicurezza vaticano impedì il peggio. «L’arcivescovo Marcinkus e il capo delle cerimonie del Vaticano, il reverendo John Magee, sono stati visti parlare nervosamente con il Pontefice nel tentativo – sembra – di convincerlo a lasciare immediatamente la Basilica. Il Papa con voce affaticata ha impartito la benedizione finale all’immensa folla e si e allontanato da un’uscita laterale» .
Subito fermato e tratto in arresto, il mancato attentatore gridò ancora: «La crisi della Chiesa e colpa del Concilio, del Papa e del cardinale Casaroli!». Era don Juan Antonio Fernandez Krohn, un sacerdote trentaduenne ex seguace di Marcel Lefebvre e vicino alla setta Tfp (“Tradizione, famiglia, proprieta”).
Il 30 maggio Roberto Calvi rivolse un estremo appello al cardinale Palazzini, inviandogli una lettera dai toni accorati: «Eminenza reverendissima, sento il dovere di rivolgermi ancora una volta alla sua illuminata e degnissima persona per informarla degli ultimi spaventosi sviluppi delle mie vicissitudini con lo Ior che stanno pericolosamente conducendo i miei interessi e quelli più importanti della Chiesa verso un sicuro disastro».
Dopo aver imputato a monsignor Marcinkus «una inconcepibile insensibilità ai reali interessi della Chiesa», nella sua lettera al porporato filo-Opus Dei il banchiere della P2 attaccava la fazione massonico-curiale, accusando il cardinale Casaroli e monsignor Silvestrini di essere gli artefici di «un complotto che, in connivenza con le forze laiche e anticlericali nazionali e internazionali [massoneria, ndr], mira a modificare l’attuale assetto del poteri all’interno della Chiesa». Un complotto mosso fra l’altro da «invidia verso il Santo Padre per la popolarità e la stima di cui gode nel mondo», dalla «mancanza della più elementare convinzione religiosa e di ogni sensibilità umana», e da un «arrembaggio del potere».
«In siffatte condizioni», scriveva ancora Calvi, «cosa posso sperare io, responsabile come sono di aver svolto un’intensa opera di banchiere nell’interesse della politica vaticana in tutta l’America Latina, in Polonia e in altri Paesi dell’Est?». E infine la richiesta: «Eminenza reverendissima, perché non mi procura l’opportunità di poter parlare di un fatto così importante, cosi storicamente importante, col Santo Padre? E’ questo un fatto, una storia anzi, una storia tanto grande che va trattata nella sua dimensione integrale soprattutto al fine di impedire che si realizzino i progetti dei nemici della Chiesa e dell’intera cristianità. Soltanto attraverso un tempestivo ed energico intervento la Santa Sede potrà difendere i suoi legittimi interessi ed evitare quindi di favorire il gioco dei nemici» .
Domenica 6 giugno, festa della Santissima Trinità, nel corso di una messa in San Pietro Giovanni Paolo II ordinò sacerdoti 32 appartenenti all’Opus Dei di 17 nazionalità. L’indomani arrivò in Vaticano il presidente Usa Ronald Reagan.
Appartati a quattr’occhi in una saletta della Biblioteca privata, il Papa e il presidente americano concordarono un piano segreto per soccorrere Solidarnosc, messo fuorilegge dal giro di vite autoritario del generale Jaruzelski e in grave difficoltà dopo l’incarcerazione del vertice. Anche gli Stati Uniti reaganiani erano interessati a destabilizzare il regime di Varsavia per tentare di scardinare l’assetto geopolitico-militare di Yalta, e come il Vaticano anche gli Usa erano però costretti a operare con la massima segretezza per evitare la reazione militare dell’Urss e il pericolo di un conflitto bellico mondiale.
Il Pontefice polacco e il presidente americano concordarono di intensificare gli aiuti a Solidarnosc: non solo nuovi, massicci finanziamenti, ma anche materiale (ricetrasmittenti, macchine tipografiche, fotocopiatrici, fax, videocamere, computer, ecc.) e informazioni di intelligence. La base di coordinamento del piano venne stabilita a Bruxelles, dove periodicamente si sarebbero incontrati sacerdoti polacchi di Solidarnosc, emissari vaticani e agenti della Cia. Monsignor Marcinkus si occupo di convogliare al sindacato clandestino anche i finanziamenti Usa, che si appaiavano ai fondi Ior-Ambrosiano.
Dell’accordo Wojtyla-Reagan vennero tenuti all’oscuro sia la Segreteria di Stato vaticana, sia il Dipartimento di Stato americano. Ma in alcuni dicasteri curiali, l’indomani, c’era chi ne era perfettamente al corrente.
Il 12 giugno 1982 Roberto Calvi lascio l’ Italia. Quarantottto ore dopo monsignor Marcinkus firmò una lettera di dimissioni dal Consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano Overseas di Nassau – dimissioni molto, troppo tempestive, come dimostrava la motivazione speciosa: «E’ per me diventato impossibile trovare il tempo per essere presente alle riunioni dei consigli di amministrazione, a causa dei molti impegni collegati alle mie attuali responsabilità».
Il 16 giugno il direttore generale dell’Ambrosiano, Roberto Rosone, si recò in Vaticano, presso la sede dello Ior: «Dai responsabili del Settore estero del Banco avevo saputo che il Banco Ambrosiano Andino aveva fatto, in sostanza, del grossi finanziamenti allo Ior, ovvero a società a esso facenti capo e che erano stati garantiti con una serie di pacchetti azionari di ottima immagine, tra cui il 10 per cento circa di azioni del Banco Ambrosiano (circa 5 milioni e 300 mila azioni). Seppi in particolare che il credito complessivo del Banco Andino si aggirava su un miliardo e 300 milioni circa di dollari Usa. Alle mie perplessità, Calvi mi aveva chiesto se per caso non mi fidavo – facendo dell’ironia – della banca centrale del Vaticano, e che c’era comunque una lettera di impegno dello Ior in possesso dell’Andino.
Fu per questo che, essendo in scadenza un debito dell’Andino, mi recai – assente gia ormai Calvi – personalmente presso lo Ior perché cominciasse a far fronte all’impegno in modo da costituire una liquidità presso l’Andino con la quale questo potesse pagare il suo debito. Mi recai allo Ior con l’amministratore delegato della Centrale spa dottor Leemans. Avemmo un colloquio, presso la sede dello Ior in Roma, Città del Vaticano, con il dottor Mennini [amministratore delegate dello Ior, ndr] e il dottor De Strobel. Ci fu detto che il presidente dello Ior monsignor Marcinkus era indisponibile giacché appena rientrato con il Papa da Ginevra. Fu per questo che parlammo con gli altri due responsabili della banca vaticana.
I predetti alla mia richiesta di cominciare a far scendere l’esposizione dello Ior nei confronti del Banco Ambrosiano Andino si mostrarono estremamente preoccupati e non diedero delle risposte esaurienti. Ricordo che costellarono i loro discorsi di frasi del tipo: “L’abbiamo fatto per Calvi”, quasi a voler disconoscere o mettere comunque in dubbio la lettera dello Ior di patronage con la quale lo Ior si era formalmente impegnato nei confronti dell’Andino dichiarando la proprietà effettiva delle società debitrici dell’Andino stesso. Ricordo che ci lasciammo in maniera alquanto interlocutoria, anche perché io dovevo rientrare rapidamente a Milano; rimase a Roma il dottor Leemans, il quale mi telefonò il giorno successivo dicendomi che i responsabili dello Ior avevano manifestato un orientamento a fare una sorta di transazione, ossia a restituire il puro capitale, senza interesse alcuno.
Devo dire che questa e stata poi la ragione determinante che mi ha spinto a chiedere il commissariamento [del Banco Ambrosiano, ndr}. In banca era risaputo che il gruppo di controllo dell’Ambrosiano era costituito dallo Ior. Ritengo che Calvi rappresentasse gli interessi dello Ior nel Banco».
Il 17 giugno le autorità monetarie italiane deliberarono la liquidazione coatta del Banco Ambrosiano.
L’indomani, a Londra, sotto le arcate del Blackfriars Bridge (il ponte dei Frati neri, sul Tamigi), venne trovato il cadavere di Roberto Calvi impiccato. Il banchiere massone si era reso irreperibile, fuggendo dall’Italia, sei giorni prima – aveva detto ai suoi familiari: «Se mi succede qualcosa, papa Wojtyla dovrà dare le dimissioni». Un collaboratore di Calvi, il faccendiere Flavio Carboni, dichiarò che il banchiere della P2 pochi giorni prima di morire aveva allacciato contatti con l’Opus Dei; l’Obra smentì.
Né il loquacissimo Pontefice, né la Santa Sede, spesero una sola parola di pubblico cordoglio e di umana pietà per la tragica e enigmatica morte violenta di colui che per molti anni aveva operato sui mercati finanziari internazionali con il soprannome di “banchiere di Dio” e in società con le finanze papali. Primario interesse delle due fazioni vaticane in guerra, e dello stesso Papa polacco, era che sullo scandalo Ior-Ambrosiano, e sul cadavere di Roberto Calvi, venisse posta al più presto la pietra tombale.
Il 26 giugno, nella basilica di Sant’Eugenio, a Valle Giulia, il presidente generale dell’Opus Dei Alvaro del Portillo celebrò una solenne messa di suffragio in occasione del settimo anniversario della morte del fondatore dell’Obra, Josemaria Escriva de Balaguer. Assistettero al solenne rito i cardinali Pietro Palazzini e Umberto Mozzoni, e il nunzio apostolico in Italia monsignor Romolo Carboni (presente anche l’onorevole Giulio Andreotti).
A meta luglio la stampa riportò alcune indiscrezioni di fonte giudiziaria, secondo le quali i magistrati italiani alle prese con l’inchiesta sulla bancarotta dell’Ambrosiano avevano trovato traccia documentale di alcuni finanziamenti del Banco al sindacato polacco di Solidarnosc, fra i quali un versamento «di 14 miliardi di lire» attraverso un giro di «consociate estere collegate allo Ior».
Il 19 agosto Carlo Calvi, figlio del defunto banchiere, confermò al “Wall Street Journal” che suo padre aveva chiesto l’intervento dell’Opus Dei per salvare l’Ambrosiano dalla bancarotta. L’Obra smentì di nuovo. Secondo il giornalista spagnolo Rossend Domenech Matillo, poche settimane prima di essere ammazzato Roberto Calvi aveva ricevuto una lettera da Licio Gelli: il capo della P2 gli confermava che tali Finetti e Seigenthaler, indicati come cassieri romani dell’Opus Dei, si stavano «occupando di tutto» per salvare l’Ambrosiano dalla bancarotta.
Il 23 agosto il portavoce vaticano, padre Romeo Panciroli, dichiarò ufficialmente che «il Papa ha deciso l’erezione a Prelatura personale dell’Opus Dei», ma precisò: «La pubblicazione del relativo documento viene rimandata per motivi tecnici». Il portavoce vaticano non spiegò quali fossero i «motivi tecnici», che erano in realtà le ultime, strenue resistenze della fazione massonico-curiale.
Il 13 settembre monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea e presidente di “Pax Christi”, parlò in un’intervista dello scandalo Ior-Ambrosiano: «Quello che più direttamente può turbare sono i contatti cosi frequenti e profondi di monsignor Marcinkus con finanzieri compromessi come Sindona e Calvi, esponenti fra l’altro della massoneria. Forse e vero che la massoneria americana ha una storia meno anticlericale, ma qui turba molto vedere uomini di Chiesa che vanno a braccetto con la parte peggiore della massoneria» .
Il 23 settembre il deputato socialista Mauro Seppia (membro della Commissione d’inchiesta sulla Loggia massonica P2 istituita dal Parlamento italiano) dichiarò: «Occorre sapere quanti elementi della P2 sono iscritti anche all’Opus Dei e all’Ordine dei Cavalieri di Malta». Con un perentorio comunicato, l’Obra replicò: «Nella maniera più categorica non e mai esistito, né può esistere, alcun tipo di rapporto fra l’Opus Dei e qualsivoglia organizzazione massonica… Nessun appartenente alla P2 è, o è stato, membro dell’Opus Dei».
Dal carcere di Ascoli Piceno, nel quale scontava la condanna all’ergastolo per l’attentato al Papa, il 24 settembre Alì Agca invio una singolare missiva al cardinale Silvio Oddi. Il killer turco scrisse fra l’altro al porporato vicino all’Opus Dei: «Devo confessare che io ho paura di voi di Vaticano: un giorno potete uccidermi, direttamente o indirettamente».
Il 7 ottobre Clara Calvi, moglie del defunto banchiere dell’Ambrosiano, in un’intervista rilasciata a Washington si disse convinta che suo marito fosse stato assassinato per ragioni legate «all’ultima operazione preparata da Roberto, e per cui si era recato a Londra: l’assunzione dei debiti dello Ior da parte dell’Opus Dei. Era un’operazione rischiosa, politica oltre che economica. In cambio dell’aiuto, l’Opus Dei chiedeva precisi poteri in Vaticano, ad esempio nella determinazione della strategia verso i Paesi comunisti e del Terzo mondo. In Vaticano c’e una profonda spaccatura tra fautori e avversari dell’Ostpolitik, tra sinistra e destra… Marcinkus e Casaroli erano contrari [all’intervento finanziario dell’Opus Dei] perché per loro significava la perdita almeno parziale del potere e l’inizio della fine dell’Ostpolitik. Ma il Papa era d’accordo».
Il 27 ottobre la Sala stampa della Santa Sede informò che il capitano della Guardia svizzera Alois Estermann avrebbe scortato il Pontefice durante la visita pastorale in Spagna (31 ottobre-9 novembre), con il compito di garantirne la sicurezza. Una “promozione” sorprendente e senza precedenti nella storia del Corpo: Estermann era entrato nella Guardia svizzera pontificia solo due anni prima. Quello nella patria originaria dell’Opus Dei fu il primo di una lunga serie di viaggi apostolici che l’ufficiale legato all’Obra affrontò al seguito del Santo Padre, come “speciale” garante della sicurezza personale di papa Wojtyla.
Il 27 novembre, cioè ben tre mesi dopo l’annuncio della decisione papale, la Congregazione per i vescovi ufficializzò la erezione dell’Opus Dei a Prelatura personale – la prima, nella storia plurisecolare della Chiesa di Roma; il Pontefice ne nominò primo prelato monsignor Alvaro del Portillo.
“L’Osservatore Romano” pubblicò la notizia con un celebrativo commento del prefetto della Congregazione per i vescovi, cardinale Sebastiano Baggio il quale si era dato un gran daffare perché l’organizzazione di Escriva de Balaguer ottenesse l’ambitissimo status. Un impegno assai strano, dal momento che il cardinale Baggio era ritenuto uno dei maggiorenti della fazione massonico-curiale: già indicato come presunto affiliate alla “Gran Loggia vaticana”, aveva un fratello – Francesco Baggio – affiliate alla Loggia segreta P2.
Nell’autunno del 1982, presso l’ambasciata italiana a Washington, i magistrati milanesi Bruno Siclari e Pierluigi Dell’Osso interrogarono Clara e Anna Calvi (rispettivamente moglie e figlia del banchiere massone trovato cadavere a Londra). La vedova Calvi, tra l’altro, dichiarò:
«Credo che mio marito entrò a far parte della massoneria in quel periodo [1971, ndr] Cosa che mi disse successivamente, precisando di essere state “iniziato” a Ginevra. In quegli stessi anni mio marito aveva degli stretti rapporti di affari e degli intensi contatti con lo Ior, la banca vaticana, e in particolare con Luigi Mennini, che ne era l’esponente più tecnico [amministratore delegato, ndr]. In tale contesto di rapporti vi era una frequentazione anche delle rispettive famiglie. I contatti erano frequenti anche con il presidente dello Ior, monsignor Marcinkus, che entrò, su designazione di mio marito e proprio per gli stretti e intensi rapporti intercorrenti fra lo Ior e il Banco Arnbrosiano, a far parte del consiglio di amministrazione della consociata estera dell’Ambrosiano alle Bahamas, l’Overseas di Nassau. Per tale motivo vedevamo abbastanza spesso il Marcinkus a Nassau, dove era nostro ospite in occasione di tutti i consigli di amministrazione.
Ad avvicinare ulteriormente mio marito agli ambienti clericali fu lo stesso Umberto Ortolani [avvocato-finanziere massone, ndr], che era molto vicino a tali ambienti ed era, in particolare, molto amico del defunto cardinale Lercaro. Tengo a evidenziare che in quel periodo mio marito frequentava, come del resto successivamente, il Vaticano con assiduità, e aveva diretti contatti con il defunto pontefice Paolo VI, con cui era in rapporti confidenziali e da cui si recava in visita senza bisogno di alcuna formalità […].
All’inizio della primavera [del 1982, ndr] mio marito mi disse che voleva andare in Spagna. Gli chiesi, molto meravigliata, come mai dovesse andare in Spagna, e mio marito mi disse che in Spagna l’Opus Dei ha una grandissima potenza, giacché molto ricca. Era la prima volta che mio marito mi parlava dell’Opus Dei, e mi spiegò che la stessa poteva risolvere i problemi del Vaticano in campo finanziario e porsi come l’elemento vincente nella lotta di potere in seno al Vaticano fra le due opposte fazioni che si fronteggiavano da anni, quella della Ostpolitik e quella che la osteggiava, ossia l’ala conservatrice. Mio marito mi precisò che lui doveva favorire l’intervento dell’Opus Dei perché solo cosi potevano essere risolti i suoi problemi con lo Ior e le stesse difficoltà economiche del Vaticano, specificandomi che ciò, peraltro, avrebbe mutato radicalmente gli equilibri politici in Vaticano, giacché avrebbe dato una posizione di forza all’Opus Dei e di preminenza all’ala conservatrice […].
In quel periodo tutto a un tratto Flavio Carboni non si sentì più al telefono, e non si fece vivo per circa una settimana. Quando ricomparve, venendo a trovarci a Drezzo, mi disse di essere tornato con i vescovi massoni. Carboni in quel periodo aveva contatti continui sia con la massoneria, sia con esponenti del Vaticano […].
Mio marito mi disse testualmente: “L’Ostpolitik l’ho distrutta io. Se in questi quindici giorni Andreotti non mi mette il bastone fra le ruote, siamo a posto”… Successivamente mi parlò esplicitamente di minacce di morte ricevute direttamente dall’onorevole Andreotti… Mio marito alternava momenti di assoluta disperazione a momenti di euforia, a seconda dell’evolversi di questo problema con il Vaticano, in cui – a quanto lui diceva – si svolgeva una lotta furiosa tra le due fazioni in contrasto, che coinvolgeva direttamente la questione dei rapporti fra lo Ior e il Banco Ambrosiano.
Mio marito sosteneva con convinzione: “Se mi succede qualcosa, il Papa dovrà dare le dimissioni”, e aggiungeva che in Vaticano sarebbero stati talmente nei guai da essere costretti a spostare la sede del Vaticano stesso… Mio marito mi accennò di avere incaricato il Carboni di prendere degli ulteriori contatti in Svizzera con importanti esponenti dell’Opus Dei per accelerare i tempi dell’operazione di intervento dell’Opus Dei e di soddisfacimento dei debiti contratti dallo Ior…».
La figlia del defunto banchiere, Anna Calvi, interrogata il 22 ottobre, testimoniò a sua volta:
«In occasione di un fine settimana che io e mio padre passammo a Drezzo, credo negli ultimi giorni di maggio [1982, ndr], gli chiesi di spiegarmi che cosa effettivamente stesse succedendo. Mio padre mi disse che per risolvere il problema dei rapporti con lo Ior avevano messo su e portato avanti un progetto che prevedeva l’intervento dell’Opus Dei, organizzazione che avrebbe dovuto erogare una cifra enorme, di entità superiore ai mille miliardi di lire, per coprire l’esposizione debitoria dello Ior nei confronti del Banco Ambrosiano.
Mio padre mi disse che ne aveva parlato direttamente con il Papa, [il quale] gli aveva assicurato il suo appoggio e il suo consenso; aggiunse che, però, in Vaticano vi erano fazioni contrarie, che contrastavano vivamente la realizzazione del progetto che, ove condotto a termine, avrebbe creato degli equilibri completamente nuovi nel Vaticano stesso: ciò perché l’Opus Dei avrebbe acquisito il controllo dello Ior e quindi una posizione di diversa e grande rilevanza all’interno del Vaticano. Proprio per questi contrasti e queste lotte intestine, mio padre era molto preoccupato. Mi disse che contrario alla realizzazione del progetto era il cardinale Casaroli, e disse ancora che se l’affare non fosse andato in porto lo Ior sarebbe crollato e avrebbe coinvolto anche il Banco Ambrosiano nei suo crollo. Soggiunse che il Vaticano si sarebbe trovato nella necessità di vendere piazza San Pietro… Dopo avermi fatto presente queste cose, mio padre commentò che per cifre dell’ordine di quelle che mi aveva detto, la gente poteva benissimo ammazzare.
Il discorso con mio padre proseguì durante il pranzo, nel corso del quale mi disse che ultimamente aveva parlato con l’onorevole Andreotti, il quale aveva usato un tono strano e gli aveva mostrato di non sapere gli ultimi sviluppi con l’aria di chi, invece, la sapeva lunga… Mi disse di avere una grande paura dell’onorevole Andreotti, perché lo sapeva legato alla fazione che, all’interno del Vaticano, si batteva contro la realizzazione del progetto ruotante attorno all’Opus Dei… Mi spiegò che monsignor Marcinkus era in una posizione abbastanza precaria in Vaticano e che era stato sottoposto a una specie di inchiesta interna per via di operazioni finanziarie irregolari che aveva fatto e anche perché aveva una vita privata non degna di un sacerdote. Mio padre disse che sembrava volessero trasferire monsignor Marcinkus, per rimuoverlo dallo Ior, a un’altra grossa carica negli Stati Uniti […]».
Mentre la moglie e la figlia di Roberto Calvi rilasciavano a Washington le loro dichiarazioni ai magistrati milanesi, in Vaticano il Santo Padre si apprestava ad affrontare il viaggio pastorale di dieci giorni in Spagna. Un viaggio intorno alla cui preparazione si era consumato un nuovo scontro di potere tra la fazione massonico-curiale e quella opusiana.
Contrariamente al solito, il viaggio del Pontefice nella patria dell’Obra non era stato preparato da monsignor Marcinkus, ma dal sostituto della Segreteria di Stato, il filo-Opus Dei monsignor Martinez Somalo. Una decisione – assunta dal Papa su pressione opusiana – che aveva suscitato le ire della fazione massonico-curiale, già scossa dalla promozione del capitano della Guardia svizzera Alois Estermann a nuova guardia del corpo del Santo Padre itinerante. La mediazione era stata trovata incaricando padre Roberto Tucci – direttore generale della Radio vaticana, schierato con la fazione curiale – di recarsi a Madrid, presso la Conferenza episcopale spagnola, per concordare alcuni risvolti del viaggio papale.
La voragine debitoria che aveva provocato il crollo del Banco Ambrosiano apparve alla magistratura italiana come un rebus di difficilissima soluzione. I flussi di denaro erano stati convogliati in un reticolo di società estere protette da un ferreo segreto bancario e ulteriormente schermati da sofisticate alchimie contabili.