di Armando Lancellotti
La senatrice a vita Liliana Segre – vittima e tra le ultime testimoni di una delle pagine più oscure della storia italiana, ovvero la discriminazione, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei italiani tra il 1938 e il 1945 – ha recentemente preso la parola per la prima volta nell’aula di palazzo Madama per tenere un breve discorso che per precisione, chiarezza di ragionamento, fermezza di principi espressi dovrebbe essere passato a memoria da molti dei suoi colleghi senatori.
In poco più di cinque minuti la senatrice Segre ha ribadito come i crimini di cui fu vittima siano da ascrivere innanzi tutto all’Italia e al fascismo; ha ricordato – scegliendo con esattezza “geometrica” parole allusive – di aver conosciuto la condizione di migrante e richiedente asilo, di carcerata, di lavoratrice schiava; ha equiparato la Shoah ebraica a quella di rom e sinti, per poi concludere dichiarando che si opporrà con tutte le forze che le rimangono a qualsiasi progetto di legge speciale e discriminatoria nei confronti dei popoli migranti dovesse essere avanzato da qualsivoglia forza politica. Se una senatrice della Repubblica italiana ha sentito la necessità di pronunciarsi in questi termini, allora tutti i sistemi d’allarme a vigilanza della capacità di tenuta civile, politica, culturale della nostra società avrebbero dovuto scattare all’unisono, mentre invece il paese assiste, oscillando tra la passiva indifferenza e la malcelata approvazione, all’imbarbarimento quotidiano del pensare comune e collettivo, del dibattito pubblico, del linguaggio corrente. E il piano inclinato lungo il quale stiamo scivolando di certo non ha avuto inizio – come a qualche forza politica potrebbe risultare comodo far credere – con le elezioni del 4 marzo scorso, perché le sguaiate e sbracate parole dell’attuale Ministro degli Interni differiscono più nella forma che nei contenuti dalle scelte politiche dei precedenti e recenti inquilini del Viminale; la difformità – se c’è – è di grado, non di sostanza.
Ma di certo, quando la materia trattata è così delicata e sensibile come questa, anche la forma, anche le parole assumono un’importanza decisiva e allora diventa di imprescindibile importanza chiamare le cose con il loro nome, ricorrere alla precisione concettuale e all’esattezza terminologica, che in questo caso impongono che si riconosca come in Italia oggi e da qualche anno il razzismo stia conoscendo una nuova stagione di fortuna e di diffusione e che dagli strati più sotterranei, bui e sconvenienti del pensare collettivo esso sia riemerso alla luce del discorso pubblico. Esprimersi in termini palesemente razzisti è di fatto nuovamente ammissibile, è sopportato da alcuni, accettato, se non addirittura auspicato, da altri. Ma nonostante questo – anzi forse proprio per questo – i media mainstream italiani evitano di usare il concetto, non qualificano come razzisti affermazioni, fatti, atti, scelte, dichiarazioni che tali sono e paiono tutti impegnati in un lavoro di smussatura, ridimensionamento, precisazione, rettifica e ritrattazione di parole e concetti che produce un effetto di depistante rassicurazione: gli italiani non sono razzisti!
Il razzismo è un fenomeno estremamente complesso, che queste scarne considerazioni certo non pretendono di sviscerare in tutti i suoi aspetti, pur intendendo proporre riflessioni che possano contribuire ad una sua analisi. Il razzismo si presenta e si è presentato nel corso della sua lunga storia in forme, attraverso modalità e secondo gradazioni differenti; soprattutto manifestando straordinarie doti camaleontiche di mimetismo, che gli consentono di assumere altri nomi o di indossare maschere apparentemente più accettabili, con le quali camuffare i tratti del suo vero volto: il disprezzo assoluto dell’altro, a seconda dei casi variamente definito in base all’etnia, al luogo o al paese di provenienza, al colore della pelle o ad altri caratteri somatici, alle tradizioni culturali o religiose, e così via.
Oggi le maschere dietro le quali più frequentemente in Occidente – ma soprattutto in Europa e in particolare in paesi come il nostro dove la convivenza multietnica è fenomeno recente – si cela quel disprezzo dell’altro assoluto – nel senso che può spingersi fino a non conoscere vincoli e limiti – in cui consiste l’essenza di ogni razzismo si chiamano sovranismo, identitarismo (sulla base di etnia, civiltà, cultura o religione), localismo, populismo, che, come in un complesso gioco di rimandi e di specchi, a loro volta sono schermi dietro ai quali si nasconde un pragmatismo egoistico, individuale e collettivo, che, sul piano etico, è proiezione di dinamiche e strumenti di dominio e sfruttamento, sul piano economico e sociale, a loro volta innervati nell’asimmetrico e sperequato rapporto mondiale tra capitale e lavoro. Le odierne politiche di gestione dei movimenti migratori praticate dal “primo mondo” conseguono a queste premesse e producono un’antinomia paradossale: l’Occidente, dopo aver aperto il mondo ed essersi fatto mondo attraverso la violenta imposizione economica e politica di se stesso sull’intero pianeta e dopo aver usato il razzismo come strumento di offesa e conquista, spaventato dalle più recenti conseguenze epocali di un simile fenomeno storico globale – progressiva traslazione oltre l’Occidente del baricentro economico mondiale; fenomeni migratori da cui si sente minacciato; finanziarizzazione esponenziale e fuori controllo dei processi economici; evidente difficoltà di individuazione di nuovi ed innovativi modelli di sviluppo capitalistico – si chiude e si erige a fortezza, si trincera dietro muri e fili spinati e ricorre al razzismo come arma di difesa contro alterità minacciose.
Come risulta chiaro, qui si usa il concetto di razzismo secondo una definizione a maglie larghe (o apparentemente e in un primo momento tale) e cioè come disprezzo assoluto dell’altro, in quanto disprezzo totale – poiché finisce per colpire il proprio bersaglio come un tutto, ovvero per ogni suo aspetto e non solo per alcune sue caratteristiche – e totalizzante – cioè capace di definire e determinare una totalità, un insieme, un gruppo umano (razza, etnia, popolo, etc) che vengono considerati come delle unità, come individui collettivi, omogenei ed indistinti. All’interno di questa possibile definizione rientra anche il razzismo biologico (ed evoluzionistico) ottocentesco e novecentesco, che se del razzismo costituisce la manifestazione fenomenologica e storica più importante, non ne esaurisce però tutte le possibilità o forme, e che, se posto come paradigma vincolante dei fenomeni razzisti, potrebbe, soprattutto oggigiorno, rivelarsi come uno strumento euristico inefficace.
La costruzione dell’oggetto d’odio del razzismo segue un processo articolato in alcuni passaggi fondamentali. Per prima viene l’individuazione del soggetto che è posto come bersaglio del disprezzo; nell’Italia di oggi è essenzialmente il migrante, genericamente e complessivamente inteso, che poi può specificarsi come il nero, l’africano – dell’Africa nera o del Nord Africa islamico – il mediorientale, etc ed infine per estensione la categoria si allarga fino a comprendere lo straniero in genere. A seguire si passa attraverso la definizione delle sue caratteristiche, azione questa che a sua volta si articola nella stereotipizzazione negativa, nel determinismo e nel totalitarismo. Per determinismo qui si intende il porre una ferrea e necessaria relazione di causa-effetto tra i presunti attributi specifici di una razza o popolazione e le attitudini civili ed il comportamento morale di ogni singolo individuo e quindi dell’intero gruppo. E per totalitarismo qui si intende il disconoscimento dell’individuo che è fagocitato dalla massa indistinta: i migranti, per esempio, sono sempre al plurale, e anche quando si usa il sostantivo al singolare, il migrante è tale non in quanto uomo-individuo, ma in quanto uomo-massa. Questo è un passaggio decisivo, in quanto consente di disattendere un principio cardine della cultura e della civiltà occidentali, quello che vuole l’individuo depositario di diritti, che, anche quando dalla razionalità illuministica vengono definiti in termini universalistici, tali sono perché riconosciuti come naturalmente propri dell’universalità degli individui. Se il migrante è massa indistinta, allora non detiene diritti; se non detiene diritti allora non è propriamente uomo; se non è propriamente uomo, allora è possibile intrattenere con lui relazioni che vanno dalla fredda noncuranza fino allo sfruttamento e alla riduzione in schiavitù. Al combinato disposto dei passaggi precedenti si aggiunge la contrapposizione manichea tra il gruppo-noi e il gruppo-gli altri, che è un’antitesi qualitativa e gerarchica tra positivo e negativo, tra bene e male, a cui segue la demonizzazione del gruppo-gli altri e l’adozione di misure e provvedimenti ostativi.
L’insieme del processo si sviluppa sempre in un contesto contingente particolare, materialmente e storicamente determinato: materialmente, in quanto di questa natura sono le cause primarie del fenomeno razzista, che rispondono ovviamente a logiche di relazioni di forza e di rapporti di dominio; storicamente, perché affinché l’intero processo si compia, occorre che l’obiettivo del disprezzo razzista sia credibile; attendibilità che facilmente trova il proprio fondamento nel passato storico di precedenti fenomeni di odio razziale. In termini più espliciti, le ragioni che motivano il disprezzo nei confronti dei migranti nell’odierna società italiana sono tutte strettamente intrecciate alle conseguenze della profonda crisi e della duratura recessione economica cominciata ormai più di dieci anni fa e pertanto i migranti sono accusati di togliere il lavoro agli italiani, e quindi di essere, turbando e squilibrando il mercato della manodopera, responsabili o corresponsabili della crisi e della disoccupazione; di non fuggire dai paesi di provenienza per povertà, fame o guerra, ma per usufruire senza diritto della ricchezza prodotta da altri; di ricevere denaro senza lavorare; di essere agenti del terrorismo internazionale; di costituire una minaccia per l’identità bianca, occidentale, cristiana dell’Italia e dell’Europa. Si tratta, evidentemente, di questioni che poco o nulla hanno a che fare con le ragioni che supportavano il razzismo italiano di un secolo fa, quando la grande proletaria partiva per la Libia, convinta del proprio diritto-dovere di portare civiltà e progresso agli incivili e barbari nordafricani. Allora, semmai, erano i lavoratori italiani che si facevano raggirare dalle lusinghe della propaganda e dal miraggio di ottenere attraverso la conquista coloniale posti di lavoro in Africa. E altrettanto si può dire delle premesse del razzismo fascista, che, tutto proteso verso gli obiettivi della costruzione dell’”uomo nuovo” italiano contestualmente alla realizzazione dell’impero, massacrò i libici, li concentrò nei lager della Cirenaica, sganciò bombe caricate a gas sugli etiopi, commise crimini contro la popolazione civile in Abissinia, introdusse una legislazione razzista segregazionista in AOI un anno prima di varare le leggi antisemite del 1938.
Nonostante contesti, premesse, cause e finalità siano così divergenti, non c’è dubbio però che la lunga storia di razzismo, che – con buona pace dei corifei del “mito del buon italiano” – il nostro paese ha conosciuto, continui ad agire nell’inconscio della nostra memoria collettiva, fornendo un armamentario di formule, immagini, concetti, stereotipi, pregiudizi razzisti che, nuovamente sdoganati politicamente, circolano in piena libertà nel linguaggio e nel discorso pubblici.
E una volta concepite certe idee bislacche – come quella dell’Assemblea Capitolina di intitolare una via di Roma a quel Giorgio Almirante che, tra le tante cose, fu anche una delle più assidue firme della Difesa della razza dal 1938 al 1943 – o una volta pronunciate certe frasi e parole – come quelle balorde del ministro Salvini che minacciano schedature di rom e sinti – a poco o a nulla servono i repentini ravvedimenti, le più o meno credibili smentite, i chiarimenti o le precisazioni, perché ormai il senso di simili idee o parole è entrato in circolo, ha avviato l’infezione, che si propaga e cresce rapidamente.
Se, come si è detto in precedenza, il razzismo è un fenomeno complesso ed articolati sono i passaggi del processo che lo producono, allora anche le sue interpretazioni devono opportunamente tenere conto di una pluralità di livelli e di piani di lettura che si intrecciano tra loro: morale, economico, giuridico-politico, scientifico, storico. In termini più espliciti, si fa riferimento al concetto di moralità non solo perché si ritiene che immorale sia ogni forma di razzismo e che norma etica inderogabile per ogni uomo sia da ritenersi il più netto e deciso antirazzismo, ma anche perché molti di coloro che razzisti lo sono, forse non del tutto consapevolmente, concepiscono il razzismo – seppur ex contrario – moralisticamente, sostenendo la tesi per cui coloro che denunciano il pericolo di un razzismo crescente nella società italiana altro non sarebbero se non dei buonisti, dei moralisti salottieri, dei benpensanti alto borghesi e radical chic, o gli ultimi sopravvissuti di un catto-comunismo accogliente ormai ridotto alla retroguardia, ai quali contrapporre un diverso canone morale, tanto pragmatico quanto severo e draconiano, che applicando il principio della priorità (della nazionalità, della cittadinanza, dell’identità o quant’altro) non si ritrae dinanzi alla presunta necessità di anteporre l’interesse (il bene utilitaristicamente definito) di una parte, considerato legittimo, alle pretese, definite illegittime, di un’altra parte. America first, dice Trump e gli fanno eco Salvini con prima gli italiani, Kaczynski e i suoi sulle rive della Vistola con Polska dla polakόw e, dalle parti del Danubio, Orban con számunkra Magyarország az első e così via in lungo e in largo attraverso l’Occidente.
In buona sostanza si tratta di un immoralismo che cerca di presentarsi nella forma di una moralità altra, genuina e soprattutto popolare, non elitaria, di cui i populismi oggi in rapida crescita sono i vettori politici principali. In ogni caso, il concetto a cui ci si riferisce è quello del bene, principio etico per eccellenza, anche se lo si definisce come l’utile e lo si ritaglia con contorni esclusivi, che includono solo pochi e non secondo modalità universalistiche, finendo così per rovesciarlo nel suo opposto. Approcciato in questo modo il razzismo può essere letto come una modalità immorale di impostare le relazioni interindividuali e sociali. Inoltre non va dimenticato che anche quando e laddove il razzismo assurse a visione complessiva del mondo e della storia, nella Germania nazista, esso divenne pietra angolare di una nuova moralità ariana e germanica a cui dovevano essere condotti i tedeschi ed educati i giovani.
Dal punto di vista economico, il razzismo è interpretabile come consustanziale al capitalismo e alle sue dinamiche di sfruttamento e produzione di profitto; è stato nei secoli passati – il capitalismo-razzismo – ed è ancor di più oggi in grado di predisporre un serbatoio pressoché inesauribile di produzione e moltiplicazione di plusvalore e lo fa con modalità così tracotanti che può decidere giuridicamente e politicamente, attraverso la gestione internazionale dei flussi migratori, a quanti, quando, dove, secondo quali percentuali calcolate con statistiche e proiezioni concedere l’ingresso nel sistema dello sfruttamento del lavoro. Ed è proprio quando i flussi della manodopera di riserva schiavizzata proveniente dall’ultimo mondo – lo stesso che ha subito lo sfruttamento schiavistico, la conquista coloniale, la discriminazione razziale; il medesimo, insomma, vittima di quel gigantesco fenomeno di apartheid globale che ha segregato e segrega una metà di mondo per il profitto dell’altra metà – paiono essere fuori controllo ed il sistema rischia di incepparsi, che il razzismo funge da “ideologico ponte levatoio” che interdice l’ingresso al “castello del capitale”.
Ma qui il ragionamento necessita di alcune precisazioni, poiché il fatto che lo sfruttamento razzista dei flussi migratori sia primariamente finalizzato alla predisposizione di un esercito industriale di riserva – per eccellenza flessibile proprio in quanto errante, così come sradicato e in stato mobile di continuo spostamento è il capitalismo finanziario contemporaneo più di quanto lo sia mai stato in precedenza – è argomento divenuto da alcuni anni “testa d’ariete” dell’antiglobalismo di estrema destra o delle sue versioni apparentemente più presentabili, attraverso il filtro di riflessioni intellettuali alla moda dalle evidenti sfumature rosso-brune, che oscillano tra l’estremo moderato del ricordo nostalgico di un presunto buon capitalismo radicato territorialmente, così come la sua dipendente forza lavoro nazionale e l’estremo radicale della riproposizione in chiave economica della teoria della sostituzione etnica dei proletariati europei e nazionali con sottoproletariati schiavizzati e, loro malgrado, da un lato vittime del capitalismo globale e dall’altro corresponsabili dell’impoverimento, della perdita di garanzie e di occupazione dei lavoratori europei.
Segue da quanto considerato sopra che le diverse angolature da cui è osservabile il razzismo debbano essere sempre poste in interazione tra loro, per evitare letture parziali e fuorvianti: come il razzismo non può essere inteso e combattuto solo su un piano morale, che ne ignori le basi e i presupposti materiali ed economici, così un’interpretazione ristrettamente economicistica rischierebbe addirittura di prestare il fianco al pericolo di acrobatici capovolgimenti del senso complessivo del giudizio.
Osservata da un punto di vista giuridico-politico, la questione del razzismo oggi nel nostro paese si pone in strettissima relazione con quella del diritto di cittadinanza e della sua ridefinizione. È fin troppo ovvio constatare che alla base dell’ostinato ostracismo e dell’avversione per il principio dello ius soli – così come dietro alla stessa espressione ius sanguinis – vi sia un retaggio di etnocentrismo razzista che si manifesta come decisamente duro a morire. In termini politici poi, il razzismo si presta perfettamente, come si è prestato in passato, a mille utilizzi e la sua efficacia di strumento di propaganda e di raccolta di consenso è sotto gli occhi di tutti. Una volta infrante le barriere che lo relegavano al di là dello spazio di legittimità politica, la sua potenzialità di infestazione è tale da non essere più arginabile. Rotti gli argini, l’inondazione è inevitabile. Il razzismo con le sue parole d’ordine semplici e i suoi proclami semplicistici funge efficacemente da micidiale arma di distrazione di massa che utilizza come carica esplosiva le procedure e le tecniche – antiche, ma più infallibili di droni e missili intelligenti – del capro espiatorio. Inoltre, nel caso odierno dell’avversione nei confronti dei migranti, consente di alimentare l’illusione che i problemi della società e le loro cause non siano interni all’Italia e all’Europa, all’Occidente, al modello economico-sociale capitalistico – che anzi risulta così confermato nella sua indubitabile e quasi “naturale” validità – ma che siano esterni, che provengano da fuori e che pertanto la chiusura a tetragona difesa dei propri confini rappresenti la migliore soluzione di tutti i problemi.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la scienza fornì al razzismo solide basi su cui poter erigere l’impianto della sua visione dell’uomo, della società e della storia, soprattutto prestandogli il proprio principio fondamentale, quello della pretesa oggettività del discorso e della positività dei fenomeni studiati. Quella era l’epoca in cui gli scienziati si appassionavano alla misura dei crani, alla classificazione della pigmentazione della pelle o di altri caratteri umani, al calcolo dell’“angolo facciale” e dell’’indice cefalico”. Lo scientismo positivista portava alla applicazione di teorie come quella dell’evoluzionismo darwiniano all’ambito umano e sociale e alla convinzione che i metodi delle scienze della natura potessero essere utilizzati in ogni campo del sapere. L’antropologia razziale e l’eugenetica si diffondevano rapidamente e una vera e propria ossessione tassonomica conduceva alla definizione “scientifica” delle razze e alla loro classificazione in ordine gerarchico ed evolutivo. Oggi tutto questo è paccottiglia pseudoscientifica priva di alcuna attendibilità e come in passato la scienza è stata essenziale per lo sviluppo, la diffusione e la fortuna del razzismo, così dalla seconda metà del Novecento essa è divenuta il più formidabile strumento di smascheramento delle menzogne razziste. Nonostante questo, però, qualcosa del rapporto del passato tra scienza e razza è rimasto ancora nel razzismo a noi contemporaneo e cioè l’aspirazione all’oggettività delle teorie razziste, la loro pretesa di pronunciare affermazioni obiettive. A questo si aggiunga la tendenza alla generalizzazione, la propensione a ricondurre il (fenomeno) particolare al paradigma (scientifico) universale: l’individuo è ricondotto alla sua etnia o razza, secondo il principio sopra definito come totalitario. I caratteri che un razzista odierno concepisce e presenta come oggettivi non sono più quelli biologici di un tempo, bensì quelli delle diverse civiltà e culture, coi loro valori e le differenti tradizioni; ovvero sono quelli delle identità pensate come qualcosa di monolitico, statico, assoluto, pertanto immodificabile. Civiltà e identità che, in quanto considerate come irriducibili tra loro, per non confliggere devono rimanere separate.
Ed infine la storia, in primo luogo perché tutti gli aspetti e i modi del razzismo sopra considerati si declinano storicamente e, secondariamente, in quanto la lunga storia del razzismo che accompagna quella dell’Occidente moderno fa da cornice generale che consente di comprendere più adeguatamente il fenomeno nelle sue attuali manifestazioni. In Italia le ricerche sul razzismo di storici e studiosi hanno conosciuto un consistente incremento dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, soprattutto a partire dall’allestimento a Bologna di una mostra, che poi ha toccato tante altre città, dal titolo La menzogna della razza, che con approccio innovativo dimostrava come la storia del razzismo italiano fosse stata ben più lunga del periodo 1938-1945, che non si limitasse al solo antisemitismo e come essa fosse intrecciata con la complessiva storia italiana, dall’unità in avanti. Il gruppo di studiosi che lavorò all’allestimento della mostra diede impulso alle ricerche e contribuì a risvegliare un crescente interesse per il razzismo italiano a cui si aggiunse quello per i crimini di guerra italiani e per la storia del nostro colonialismo. Molto è stato fatto nel corso degli ultimi vent’anni, per quantità e qualità di studi, ma ancora moltissimo rimane da fare dal punto di vista della divulgazione dei risultati di quelle ricerche, affinché oltrepassino il comunque ristretto ambito degli addetti ai lavori e del pubblico dei lettori interessati per divenire conoscenza e consapevolezza diffuse, che diano un contributo a far sì che il razzismo dopo una lunga storia non conosca anche un altrettanto persistente futuro.