di Marco Galeotti
Tutti i capitoli di “Poco di buono. Il romanzo”
Arrivarono alla macchina quando era già possibile pensare che la notte fosse finita e con le prime luci del mattino si addormentarono.
Li svegliò una calda giornata senza stagione e non stavano bene. Avevano bevuto molto e cresceva in loro la voglia di vomitare tutto.
“Che cazzo. É tutta colpa nostra! Stanno succedendo cose che non devono succedere e abbiamo iniziato noi”.
“Sí, cazzo” — aggiunse Ito, profondo e balordo, “siamo davvero due cretini e non abbiamo neanche una ragione per esserlo”.
Pensarono che non avevano capito niente della vita, perché non è possibile dimenticare che violenza genera violenza e le Arpie parlavano loro del Rimorso e la Tragedia si stava consumando ed era giorno ormai, troppo tardi o troppo presto per supplicare il buio di riavvolgerli.
Violenza genera violenza e non c’é un colore giusto e neanche uno sbagliato, quando si vive nel ventunesimo secolo e si hanno più di trent’anni. C’é la vita, ci sono le persone. E basta.
Oltre al rimorso, la sensazione di non capire, la sicurezza di non sapere che cosa fosse successo.
“Dunque: c’é stato un omicidio ed é molto probabile che in qualche modo noi c’entriamo, vero Ito?”.
“Sì. E tu hai una pistola sotto il culo”.
“Ah, già, cazzo! Che facciamo?”.
“Forse non dovremmo fare più niente.”.
“Vero. Però Ito… é sabato e, fanculo, siamo vivi! Facciamo colazione, no?”.
“Sí, e compriamo il giornale… era notte però magari c’é scritto qualcosa”.
“Dubito, dovremmo chiedere in giro…”.
La pistola era fredda e nera, come nei film.
Ito ne aveva vista una a Tepito, nella Colonia Juarez, a Cittá del Messico. Gliel’avevano puntata contro durante un assalto che aveva fruttato ai rapinatori 200 pinches pesos, ossia 13 fottuti euro, e a lui una fottuta paura, anche se un gentile assaltatore gli aveva lasciato poi una manciata di spiccioli “para que regreses ”. [trad. “Così torni a casa”]
Anche l’Altro aveva già visto un ferro, là dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, nei pressi del Fiz, vicino al porto di Genova, e l’aveva anche usato quel ragazzo, per sparare ad un altro figlio vittima di questo mondo.
Nessuno dei due, però, l’aveva mai avuta, una pistola.
Era un’arma “corta da sparo”. Così la definiva la legge, ed era carica.
LE DONNE
Vanno alla stazione e comprano il giornale che dice solo “tombini da rifare” e “no agli escrementi dei cani in centro”. Sono stanchi e affamati di cibo e di pace, sono stanchi e non si riposano da anni. Entrano da Nadine e le dicono due cappucci e due brioches. Lei guarda fisso negli occhi l’Altro:
“Che cazzo é successo?”.
Ito non sapeva bene dell’Altro e di Nadine, ma acconsentì al progetto di entrare nel bar di un’amica per vedere di capirci qualcosa.
La ragazza, sui ventotto, abbronzatissima, un po’ sensuale un po’ volgare, avrebbe potuto recitare in una nuova versione del Padrino. Era figlia di una sorta di boss, la figlia che esce dalla Famiglia per farsi i cazzi suoi. Aveva talento, Nadine: era brava a dipingere e nell’arte dell’amore, anche. Se n’era andata di casa giovanissima ed aveva girovagato per l’Italia prima, per l’Europa in un secondo momento ed infine era tornata lí, tra mare e monti. Aveva conosciuto un tipo e aperto un bar. Non era felice.
L’Altro aveva conosciuto Nadine ai tempi in cui il mercoledì sera usciva da solo a bere e le si era concesso diverse volte in cambio di un quadro e tanti complimenti per la sua intelligenza. C’erano stati problemi, anche, quando si erano rincontrati in Francia, dopo tanto tempo, dove all’epoca lei abitava con il compagno. L’Altro non lo sapeva, ed era un mercoledì sera in una Promenade per inglesi sulla Costa Azzurra, per cui, ubriaco, la sedusse e lei, ubriaca, ci stette, e l’altro, il vero altro, il suo compagno, non ubriaco, li sorprese. L’Altro scappò all’Iguana Cafè — scappava sempre verso un locale – e li si rinchiuse fino a mattina. Uscì e fortunatamente non c’era più nessuno.
Ito non sapeva di queste cose, sapeva quasi tutto ma non tutto.
Seppe ciò che gli mancava circa dieci minuti dopo perché entrò il compagno della ragazza e l’Altro corse via gridandole “chiamami ti devo parlare”.
Lei, temprata dalle storie di famiglia e dalle sue, non si preoccupò troppo, anzi, rise a crepapelle.
Ito si limitò a correre dietro all’amico.
Per strada, vicino alla macchina, ancora di corsa, l’Altro iniziò il racconto di lui e di Nadine e anche Ito rise di gusto e così convinse l’amico a fare lo stesso.
Finalmente, dopo quel risveglio di merda, si rideva.
Durò poco, però, perché la sagoma del compagno sbucò da un carruggio.
Una risata li seppellirà?
No.
Sono molto bravi a capire quando é ora di andarsene e se ne andarono: prima, seconda, ripresino fino ai 65 all’ora, semaforo giallo — che culo — terza e ciao a tutti.
A pochi chilometri dal bar, quando ancora lo stomaco era vuoto, suona il telefono:
“Ciao, sono io”
“Ciao Nadine. Ma ce l’ha ancora molto con me il tipo?”.
Risate.
“Nooo, é che deve comportarsi così per dimostrare la sua fottuta forza. Guarda, é un coglione, te lo assicuro, stai tranquillo”.
“Ma lo sai… sono talmente spaventato da quel tipo che… ho una pistola e scappo!”.
“Ah. Una pistola? Ma che cazzo ti sta succedendo?”.
Paletta. Due pattuglie ferme sull’Aurelia.
“Ti richiamo, scus… buon giorno agente. Vuole i documenti?”.
“Innanzitutto lei stava parlando al cellulare e sono 5 punti”.
Cinque punti in meno sulla patente, conseguente multa ma, al contrario di altre volte, nessuno dei due aveva voglia di polemizzare. La cosa fu rapida e indolore anche perché subito dopo passò un bergamasco a cento all’ora e gli sbirri, sghignazzando libidinosi, lo seguirono per fargli male.
Niente perquisa, nessun problema per il ferro. Culo.
“Richiama subito Nadine o comecazzosichiama. Ma quanti punti ti restano?”.
Si diceva che Ito non avesse la patente, ritiratagli secondo fonti attendibili nel ’98 neli pressi del Parco Naturale del Gran Paradiso per guida in stato d’ebbrezza e mai più ripresa. Si dice che girasse con un ottimo falso proveniente da Forcella che non gli aveva mai creato problemi al momento dei controlli. Lui, però, negava sempre tutto e tirava fuori la storia che quella era la patente originale e che aveva ancora un sacco di punti.
“Mah…ne avevo nove o dieci, mi pare. Ora sarò a 4 o 5… Nadine?”.
“Ciao caro, allora mi dici che cazzo succede? Stamattina avevi una faccia…”.
“Tranquilla, sto bene. Piuttosto, sai se stanotte é successo qualcosa tipo un omicidio?”.
“Sí. Hanno ucciso uno, perché?”.
“Chi era? Lo sai?”.
“Stai calmo. So che hanno ucciso un francese… uno fuori, pare che sia stato come un regolamento di conti… la settimana scorsa dei ragazzi di qui sono stati pestati a Juan les Pins o Antibes, non ricordo, e si dice che il tipo era uno di loro”.
“Ma sei sicura?”.
“Penso di sì, lo raccontavano stamattina presto al bar dei ragazzi che erano lí in spiaggia dove é successo tutto a farsi una canna quando é arrivata la pula”.
“Nadine….”.
“Sí?”.
“Ti amo e ti ho sempre amata”.
Erano contenti come i bambini ai tempi in cui si giocava liberi per strada. Erano fuori dalla gioia: si sentivano migliori, quasi buoni.
In fin dei conti, cosa c’entravano loro? Avevano scatenato una rissa, questo si, ma con l’attenuante che almeno uno dei quattro era fascista e che molto probabilmente anche gli altri erano comunque degli stronzi. E poi… poi, sì, é vero che violenza genera violenza, però chissà com’era andata la storia di Ready. Loro non sapevano bene, secondo Rave lo avevano preso di striscio e magari non si era fatto quasi niente. La storia del francese era un’altra storia che non volevano nemmeno conoscere. La loro, invece, era cambiata e sicuramente non sarebbe stato nemmeno stavolta un racconto di pace e di redenzione, come avevano pensato qualche ora prima, però era di nuovo una bella storia: era sabato, innanzitutto.
“E splende il sole sul Principato di Monaco” — aggiunse Ito.
“Nooo”. Gli fece l’Altro fra il terrorizzato e l’entusiasta.
Splende il sole sul Principato di Monaco significava due cose: la prima era ricordarsi della frase con cui Radio Montecarlo apriva ogni sua trasmissione, ogni giorno dell’anno, un po’ perché in quel culo di mondo davvero c’é quasi sempre il sole, un po’ perché secondo qualche creativo evidentemente fa bello iniziare così i programmi radiofonici. Era tuttavia improbabile che il significato della battuta di Ito fosse questo. Se non era quello, era il secondo. Parlava di quattro pazzi che partivano facendo la costa verso Ponente, fermandosi in un bar per ogni paese, fino a Monaco, appunto. Le poche volte che ci arrivavano.
Verso Ponente, ora. Perché il vento era cambiato e la ruota sembrava proprio girare bene.
“Nadine, chiudi il bar e vieni all’inizio del Budello: ti aspetto in macchina, per sicurezza”.
“Ma… dove andiamo?”.
“A festeggiare: splende il sole sul Principato di Monaco”.
Ito aveva convinto l’Altro con una sola frase, potere dell’amicizia idiota e complice che li univa. E l’Altro, dal canto suo, sapeva che la donna, furba, avrebbe portato un’amica e che, pur non sapendo niente del giro dei bar, si sarebbe divertita.
Nadine salì in macchina e non chiese niente di niente.
Niente che cosa é successo, niente perché avete una pistola, niente.
“Viene anche una mia amica”.
Ito gongolava.
Dopo poco si stagliò nitida la sagoma di una ragazza molto bella: alta, magra, un passo che era una danza e andava verso la Storia Grigia che quel passo faceva sembrare una limousine.
Anche la macchina grigia era ammaliata dal suo fascino e Ito capì.
“Jaz!”. Fece.
“Sì”. Ammise.
“Vi conoscete?”. Chiesero in coro gli Altri.
La risposta fu muta e bellissima, data da quel sorriso che solo due amanti veri potevano sorridere.
Jaz era figlia di un croupier e Ito la conosceva bene. Si commosse, quando notò che era come la ricordava.
“Quando é stata l’ultima volta che ho ballato con lei?”. Pensò fra sé e sé. “Un paio di anni fa?”.
Entrò in macchina ed affermò sicura: “Splende il sole sul Principato di Monaco”.
Il sole, in effetti, splendeva già nel cielo di quella terra arsa, assetata. Non pioveva da mesi e la Liguria leggiadra s’avvivava di pampini.
“Tomo, para no enamorame. Me enamoro, para no tomar” — cantavano.
La musica forte, una fame boia e tanta felicità per il fatto di essere vivi. Guidarono per circa milletrecento metri e decisero che anche se non c’era piú Hans, quel pub era comunque il luogo giusto per cominciare. Un pub aperto alle undici di mattina aveva tutto il loro rispetto, d’altronde.
Quando c’era Hans c’erano storie là dentro, ora non più, ma il suo ricordo era un motivo sufficiente per ritornarci.
“Sai Jaz, qui una volta si doveva dare una scarpa per poter entrare”.
”Come?”.
“Semplice: ti toglievi una scarpa e potevi entrare”.
“E perché?”.
“Perché perché
la domenica mi lasci sempre sola
per andare a vedere la partita
di pallone?”.
Cantava un vecchio juke-box.
Il giro dei bar aveva almeno due regole, anche se non proprio ferree: ci si doveva accontentare di una-bevuta-solo-una in ogni paese e il tasso alcolico doveva salire e mai scendere.
Per questo era dura arrivare in Francia.
Ordinarono così una birra, una Hoegaarden, in onore dell’amico belga scomparso e la bevvero lentamente.
“Che cosa fai? Dove vivi?”. Chiesero le donne agli uomini che non erano i loro.
Milano. Lavoro fondamentalmente banale, risposero insieme. ma viviamo quando smettiamo: il venerdì sera ci colleghiamo ad una rete sovversiva ed iniziamo a vivere.