di Luca Baiada (da Il Ponte, LXIX, nn. 2-3, febbraio-marzo 2013)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione. Con l’occasione ricordiamo anche il tentativo in corso, da parte di piccola gente ottusa, di annientare a Bologna il Bartleby, uno spazio culturale autogestito tra i più rilevanti della città. L’intera storia è qui.]
Qualcuno ci ha trovato l’amicizia, qualcun altro l’amore, altri semplicemente una boccata di ossigeno, per sopravvivere nell’apnea culturale romana. Nessuno se n’è andato a mani vuote, anche se molti sono tornati a casa portando in tasca qualcosa di inatteso. E con la tasca a forma di cuore, più che di portafogli.
Qui affronterò un’analisi sociologica sulla funzione politico culturale del Valle occupato, a Roma. Ma voglio premettere qualche osservazione più generale.
È il giugno del 2011, quando un gruppo di avventurosi entra nel Valle, teatro elegante e appartato, uno dei più antichi d’Italia. E lì resta. Davvero sono entrati chiedendo di poter dare un’occhiata, o inventando qualche altra scusa, e poi rifiutandosi di uscire? È una delle leggende che circondano il teatro, o a sua volta è uno spettacolo, un’affabulazione?
E soprattutto, chi sono loro, il gruppo originario che si è gettato nell’impresa? Qui non si fanno nomi. E poi via, su un pianerottolo delle scale, al Valle, c’è un busto che la dice lunga sull’importanza delle capacità mimetiche: è Leopoldo Fregoli, il trasformista, un attore che calcò a lungo queste scene. Ogni tanto cambia cappello, o inforca un paio d’occhiali, si mette un rossetto, si infila una parrucca. Oggi ha un velo da vedova allegra. Manca solo il titolo, potrebbe essere Il totem se la ride del tabù. Sono sicuro che farebbe piacere, a Fregoli, essere un feticcio diversamente vivo, dove fece il pieno di applausi ed ebbe i complimenti di Eleonora Duse. Se prosegui, se ti inoltri in questi meandri, puoi incontrare i Sei personaggi in cerca d’autore, che si fecero vivi proprio qui, ieri o quasi, e magari sono rimasti in cerca di pubblico. E nella penombra, chissà che non ti capiti di imbatterti in gente che è passata di qui ancora prima: Cimarosa, Vincenzo Monti, Donizetti.
I nomi degli occupanti no, ma si dicono le cose, visto che da quel giugno 2011 un teatro storico che rischiava di diventare bottega, sala lusso, sala questo e quello, è rimasto teatro, e anzi ha vissuto un febbrile impulso artistico. Certe iniziative nate qui, hanno fatto notizia in giro per il mondo. Non si credeva che un teatro potesse reggere in occupazione per tanto tempo, e senza diventare un qualsiasi bivacco di sfaccendati, di vedo-gente, di dammi-quarche-spiccio.
Il bisogno di politica, di cultura, di vita intellettuale, dev’essere più forte di come hanno immaginato i torvi censori, se l’apertura di uno spazio nel centro di Roma, con la prospettiva di qualcosa di nuovo, è stata capace di risucchiare anche le più impreviste creatività. In pochi mesi si sono materializzate iniziative di prosa, di danza, di musica, eventi multimediali, e uno sciame di cose tutte nella cifra dell’impegno politico, dell’approfondimento, dello stare insieme.
La cornice è rimasta quella dell’antico allestimento teatrale, e le cure amorevoli degli occupanti hanno impedito che questo gioiello subisse gli oltraggi della folla. Per esempio, in sala non si mangia e non si beve, caschi e ombrelli non possono entrare, e non si transige. Il quadro invece è cresciuto su se stesso, coinvolgendo una partecipazione cui ormai la parola pubblico non renderebbe giustizia. I frequentatori abituali sono conosciuti, ci si ritrova come in un luogo appartato e allo stesso tempo legato attraverso fili invisibili a tutta la città, e all’Italia e oltre. Anche la via ha cambiato aspetto, e questo non si vedeva dal 1965, da quando Gian Maria Volonté mise in scena, in un piccolo circolo di Roma, Il Vicario di Rolf Hochhuth, con seguito di occupazione, arresti e transenne per la strada.
Ci sono persone che dormono qui dentro, altre vengono di giorno e poi trovano un giaciglio nel centro sociale, da amici, da nonna e da papà. C’è quella che vive a Vienna ma sta al Valle, c’è il ragazzo che abitava in un rustico nei boschi, spaccando legna e tirando su un orto, e ha preferito un bugigattolo nel Valle, c’è quello che progetta un ecovillaggio sugli alberi ma intanto occupa il Valle, ci sono studenti con la borsa di studio all’estero che dovevano partire il mese scorso, e pensa un po’, stanno al Valle ma partiranno presto, sì, questione di giorni.
In nessun luogo come qui, si capisce il senso della parola foyer: focolare. E il foyer di un teatro che non è solo un teatro, non è solo un foyer. Niente signore bene, niente spettacolo involontario tipo pubblico di Albertazzi, per intenderci. C’è anche il rovescio, ovvio. Il luogo attira disperati, sradicati, mitomani zainomontati, che però vengono riassorbiti e come ricoperti di una gelatina a presa rapida che li rende inoffensivi, senza uso di buttafuori. La stessa presenza degli indesiderati, del resto, è la prova di un calore e di un’attenzione altrove inattingibili.
La prima volta che ci venni fui colpito da un manifesto, appeso a un palco, più o meno dove un paio di secoli fa qualche damina si sventagliava il petto occhieggiando un cavaliere: «Com’è triste la prudenza!». Potevo forse andarmene? E poi fiutai subito un senso di spariglio e di fertile asimmetria, radiava dal brusio, dagli allestimenti, dalle installazioni d’arte che spuntavano nei palchi, confuse tra la gente. E quel modo di entrare e uscire, in punta di piedi, durante ogni cosa.
Al Valle si può lasciare la rappresentazione, la conferenza, il fare d’arte, si può uscire e poi tornare, si può vagare e sciamare nella strada. Puoi darti arie d’importanza o ciondolare come un flaneur, con una disinvoltura che altrove sarebbe villania e che qui invece mischia lo spettatore ai soggetti e agli oggetti della sua attenzione. Nessuno disturba durante le cose, chi vuole può allontanarsi, e il respiro del teatro diventa il cammino del viandante, più che il fiato grosso dello scalatore. E subito fuori del Valle si fuma, per lo più le sigarettine autofabbricate degli studenti male in arnese, degli eterni precari, degli arrabbiati.
Al Valle si possono fare e disfare programmi sui massimi sistemi, per poi progettare spettacoli spaziali con persone appena conosciute. Si può ballare il tango direttamente sul palcoscenico, ma attenzione: è inclinato per esigenze di ottica, un trucco prospettico da scatola magica. Così la milonga prende un che di sghimbescio, come un grande fiore inclinato che gira su se stesso, che sale e scende come certe vecchie ruote da luna park dei poveri. Non hai voglia di ballare? Lascia ballare gli altri, e sprofondati in una poltroncina rosso pompeiano, forse è così vecchia da aver sentito Ettore Petrolini declamare vestito da Nerone: «Più bella e più superba che pria…». Adesso le note della fisarmonica straziano l’anima, Tita Merello canta «del sórdido barrial buscando el cielo…», e puoi lasciar correre i pensieri, al lume caldo della ribalta e della sua corolla danzante che si offre al pubblico. Platea oscura di bisbigli, sono i ballerini che tramano amori, sagome ghiotte nella penombra, col cuore a Buenos Aires, e con le scarpe da danza in una busta.
Ma è quando si va tutti sul palcoscenico, che il Valle si snuda, si apre, regala il profumo del suo ventre. Assemblee vulcaniche, autorappresentazioni, e quel che di indefinibile fra la vita partecipata e lo spettacolo autoprodotto, che si può assaggiare nell’episodio Discutiamo, discutiamo di Marco Bellocchio, nel film del 1969 Amore e rabbia, con gli studenti che impersonano i professori mettendosi le barbe finte, e consegnando l’i>Estetica di Benedetto Croce alla critica sbrigativa di un fiammifero. Ma qui è più vivace e meno casinista, come se il riflusso avesse lasciato dietro di sé anche qualcosa di buono, e non solo carcasse di rivoluzioni calcinate. Sul palcoscenico senti sotto il piede il suono cavo della scena, e vedi intorno gli ingranaggi, i cordami, le carrucole, i commutatori. Hai appena lasciato il tuo posto in platea, e adesso hai cambiato prospettiva. Eppure qualcosa di te è rimasto lì, nel buio, e ti guarda e si fa guardare. Chi è, e perché è rimasto di là? Non lo so, e mi viene in mente Dino Campana: «Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo…».
Ma il lavoro del Valle non è solo al Valle, e neppure tutto per il Valle. L’impegno di un gruppo di giuristi, fra cui Stefano Rodotà e Ugo Mattei, e un magistrato di cui ora mi sfugge il nome, tenta sin dal 2011 di dare veste formale all’occupazione, e di fare da apripista per nuove esperienze, di dare insomma alla carne un’ossatura legale che la regga. È la lunga tela della Fondazione Teatro Valle bene comune, lavoro collettivo di una cittadinanza partecipe e dei comunardi. Emendamenti attraverso la Rete, e poi riunioni, proposte e discussioni. Il lavoro fondativo sul testo, indispensabile alla costruzione di una cosa valida, è passato attraverso un programma informatico per l’elaborazione collettiva, e poi riunioni nel teatro. Trovata ottima, tentativo di unire alla tecnica di rete l’alito caldo dell’assemblea: quindi, rinuncia a certi squallidi spontaneismi che furono la palla al piede dei movimenti dal 1968, e insieme diffidenza verso un uso estremo della rete che ne fa un luogo astratto spersonalizzato, un travaso delle tecniche di mercato nella politica e nel lavoro culturale.
L’operazione non è ancora finita, quindi è a buon punto. Si tenta, forse per la prima volta dopo il 1989, di costruire una cosa che è iniziativa culturale senza confezionamento di un prodotto, e allo stesso tempo realizzazione di un’istituzione legale libera dalle maglie del potere costituito in accademia. La sfida è grossa, ma a ogni riunione gli entusiasmi continuano. Mi accorgo che sto scrivendo cosa di continuo. Il Sogno di una cosa, abiterebbe la casa dei sogni?
Comunque, visto che il posto migliore per scrivere di un’esperienza viva è starci dentro, eccomi direttamente al Valle, nel foyer più creativo del pianeta. Buffo, che a un passo dallo stadio di Domiziano e dai palazzi del potere romano, formiche operaie del lavoro culturale cerchino di realizzare la cosa più trasgressiva, trasumanar e organizzar? Forse, ma qui a un passo c’è il vecchio Studium Urbis, ed è una bella rivalsa, che un laboratorio creativo si riprenda la scena.
Dunque. Sto scrivendo sul lavoro intellettuale, quello fatto nel Ventunesimo Secolo da generazioni nate nel Ventesimo, ma sono in un edificio del Settecento, seduto su un divano Ottocento con qualche molla rotta. Ahi, come trapassa il tempo!
Poco più in là, ci sono due inginocchiatoi, attestati uno di fronte all’altro, bottino da chissà quali cantine. Due penitenti, un uomo e una ragazzina, genuflessi e allegri, stanno usando il foyer per una confessione reciproca, a voce finto bassa. Quello che si stanno dicendo sarebbe considerato scandalosamente eccentrico dai poeti maledetti. Ma adesso non si sente più, troppo chiasso… ehi, ma cosa sono, uno sciame di ballerini, di funamboli, di saltimbanchi? saltano dappertutto, scalzi e scatenati, ruzzolano e gattonano, gorgogliano, miagolano, piovono qui dalla sala e alla sala rifluiscono, di corsa, spariti come erano venuti. Che dicevo?
Sono circondato da opere d’arte contemporanea, tutti doni d’autore, si dice che la collezione del Valle occupato valga già un patrimonio, e speriamo che resti bene comune. Il fatto è che artisti giovani, e giovani anche da un po’, spontaneamente considerano questo teatro come un secondo studio, un museo, un fiduciario cui consegnare la loro testimonianza. Qualcosa è qui solo in sosta, ma come nei templi dell’antichità, qui ciò che ti scivola di mano è stato chiamato dal dio, ormai è suo e non esce più. Sarà una parte di te che entrerà in circolo, con gli altri e per qualcosa che ancora non conosci.
Trovano strano, che ci si sieda a scrivere? Non più che si venga a vedere uno spettacolo. E infatti nessuno mi disturba, neppure quelli che mi vengono a salutare. Computer sono sparsi qua e là, la connessione è permanente, come l’andirivieni di personaggi dai cappotti pepe e sale, dai berrettoni di lana, con l’aria perplessa degli abitatori di soffitte. Ma chi credesse di gustare atmosfere da squatters, chi pensasse di respirare la polvere di una comune berlinese degli anni Ottanta, di sentire il chiasso degli anfibi, di inorridire vedendo un ragazzino rapato giocare con un topo, resterebbe deluso. Questo posto è lindo, e i suoi gabinetti farebbero invidia a una vecchia zia. Il controllo è continuo. Aspettati solo di sentirti chiedere con garbo qualcosina, quando entri.
Ecco, la questione dei biglietti. Non ce ne sono, dal giugno 2011. Qualcuno ci vedrà elusioni di non so che obblighi, ma il fatto è che all’ingresso un bussolotto è pronto a inghiottire una moneta, e nessuno ti dice quanto devi dare. Se poi sulla soglia vedi un tipo robusto con gli occhiali neri, che si agita su una sedia rovesciando il capo all’indietro, fingi di credere che sia cieco, e fagli scivolare qualcosa nelle mani. Ci vede benissimo, vive qui e sta solo cercando di finanziare il Valle. Comunque, se proprio non hai nulla non sarai mandato indietro.
Questo far collette è il futuro dell’impegno intellettuale? L’anima del Valle occupato dice di no, ma per ora questo è il modo per sopravvivere, e le facili accuse possono essere facilmente rovesciate. A trasformare il lavoro intellettuale in carne da obolo, sono stati i mezzi d’informazione e le agenzie che raccolgono scritti e traduzioni a pochi euro al pezzo. Gli occupanti del Valle sono costretti a convivere coi compromessi, e per ora regge. Buffa cosa, teologia da inquisitori, è questo creare le condizioni per trasformare l’opera intellettuale in merce da poco, e poi rinfacciare a chi la produce di essere un cenciaio. È questo un lavoro? Non si sa ancora, ma se i comunardi davvero fossero cenciaioli, avrebbero pur diritto all’ebbrezza da vin des chiffonniers.
In realtà, probabilmente la stessa nozione di lavoro è stata stravolta dal capitalismo cognitivo, in cui inevitabilmente i lavoratori del Valle hanno dovuto cominciare a nuotare, pur di non restare sommersi, e con successi che si vedono. Bisogna starci a far tardi, quando avvolti nelle sciarpe pendolano fra il teatro e qualche piazza, o sciamano verso le tane di San Lorenzo, dove le chiacchiere infinite ricominciano, e dolce è quel che resta del buio.
E il pubblico? e che cos’è? Anche la sua rigida distinzione dagli operatori dello spettacolo, qui salta o piuttosto si riassesta su altre misure. L’organizzazione fondativa, già adesso che non ha ancora avuto forma notarile, ha avviato la partecipazione attraverso i tavoli di lavoro. Fra questi, il Tavolo Agorà, per iniziative sul tema del Buen vivir, e per l’attenzione a esperienze ormai consolidate come il Teatro legislativo, e più in generale il Teatro dell’oppresso. Proprio su questo, sul Teatro do oprimido, ci sarebbe da riflettere, perché nasce in Brasile: uno strumento terapeutico e politico nato in un paese costretto a confrontarsi con la dittatura, la miseria e il degrado estremo, viene importato in un paese europeo. Lingua di vispi barbari, che insegnano come si sopravvive, a chi è costretto ad abitare le marmoree rovine lasciate nella cultura dall’affarismo spettacolare.
Ancora, c’è il Tavolo ragazzi, col Teatro delle apparizioni, attento allo sviluppo delle capacità cognitive, alla formazione profonda, al rapporto teatro-scuola, e dedicato ai laboratori «teatro e fiaba», «dalla parola al canto», «danza e movimento». L’intenzione di una giornata dedicata a Gianni Rodari dimostra che si è imboccata la strada giusta. E poi il Tavolo programmazione, col più diretto impegno del pubblico per la realizzazione di una serata al Valle. L’attenzione per Guy Debord, persino per la sua poco nota produzione filmica (La société du spectacle, Réfutation de tous les jugements, Critique de la séparation, eccetera), è il segno che c’è ancora sensibilità per le migliori intelligenze, in fondo all’asfittica società spettacolare prevista da quel grande.
Ci sono inconvenienti? Nel Valle ci sono anche trappole, direi. La globalizzazione ha posto un’intera generazione, forse due, nell’impossibilità di realizzarsi, malgrado la cultura. Forse proprio a causa, della cultura. Un’intera fascia sociale possiede un tesoro di nozioni e di valori, appresi tramite un sistema educativo difettoso ma pur sempre buono, e non ha la possibilità di spenderlo. In realtà, l’intreccio di capitalismo performativo e di globalizzazione è più antico di quanto sembri. La società dello spettacolo comincia insieme alla decolonizzazione: mentre alcuni si svegliano e vogliono fatti, altri si assopiscono e sprofondano nei sogni. Poi i nodi vengono al pettine.
Adesso i non impiegati, i sottoutilizzati del precariato perenne, cercano di riscattarsi anche facendo saltare il meccanismo con un uso sovversivo dello spettacolo, la stessa arma che è stata puntata contro di loro. Funzionerà? Solo i fatti diranno se tutto questo batterà la fiacca, se sarà un mimare l’orgia simbolica del potere, se sarà svago nel senso peggiore della parola, oppure se riuscirà a essere insieme terapia, riscatto, proposta. Di certo, è positiva la consapevolezza che in questo momento i rapporti di forza difficilmente permettono altra disobbedienza che quella mediante cultura. Insieme, al Valle ogni giorno si dà una magnifica sberla in faccia al senso di colpa, questo cemento torbido e superstizioso con cui lo spettacolo sorregge il potere. A proposito di fatalismo e di magia. Ora che ci penso, il foyer del Valle è uno dei pochi luoghi pubblici, nel raggio di chilometri, senza una slot machine né una rivendita di biglietti della lotteria. E già basterebbe, a farne un posto speciale.
Mi sono chiesto se al Valle c’è un gruppo dirigente. Diciamo che la presenza femminile è robusta, praticamente ogni iniziativa ha nel gruppo più assiduo almeno una donna con funzioni propulsive. E anche questo, è un po’ speciale.
C’è poi una questione di fondo, una specie di piega interiore, un noi del Valle. Il fatto è che il lavoro intellettuale, sfarinati i grandi gruppi politici strutturati, confinate le religioni nei devozionismi e nei comitati d’affari, in crisi la scuola e l’università, in Italia rischia di diventare caloroso come il cuore di uno strozzino. Invece, l’esperienza collettiva in un centro di spettacolo autogestito costruisce riferimenti domestici e comunitari che allargano il cuore di questa strana creatura, l’intellettuale appunto, spesso incapace di ammettere l’indicibile: il suo incolmabile bisogno d’affetto. Qui un’attrice che hai visto fremere in uno spettacolo, o che si è battuta in un confronto politico al veleno, poi la incontri nel foyer che sferruzza facendo la maglia, mentre si sistema la voce con una tisana alla menta e si coccola i piedini con le pianelle. E più speciale di così…
Ah, da dove ero partito? Già, la mia analisi sociologica sulla funzione politico culturale, eccetera. Sono stato imprudente, mi sono lasciato prendere dal Teatro Valle, e non c’è più spazio per scriverne. Non l’ho mica fatto apposta.
Sta cominciando una cosa, si va in platea o in un palchetto?