di Gianmario Leone
[Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2013 sul quotidiano “TarantoOggi”, e sulla rivista on line Inchiostro Verde. Ringraziamo l’autore per averci consentito la pubblicazione]
C’è un errore di fondo che governo, istituzioni locali, sindacati e azienda commettono nel valutare la vicenda Ilva. E ciò è dovuto alla miopia che avvolge gli occhi e ottunde la mente di chi, in tutti questi anni, avrebbe dovuto occuparsi e preoccuparsi di un intero territorio invece di pensare a difendere gli interessi del proprio piccolo cortile. Anche mercoledì, infatti, il ministro dell’Ambiente (non quello dell’economia o del lavoro) ha sottolineato come la priorità assoluta sia quella di garantire al siderurgico tarantino la continuità produttiva: perché se ciò non dovesse avvenire, l’Ilva finirebbe inevitabilmente per uscire dal mercato. E ciò produrrebbe un danno economico non solo alla stessa azienda e al territorio ionico, ma all’intera filiera dell’economia meccanica italiana (suddivisa tra grandi, medie e piccole imprese).
Un ragionamento se vogliamo logico, ma alquanto limitato. Perché non tiene minimamente conto dell’essenza vera del problema: ovvero il danno, questo sì tangibile e reale, che la città di Taranto ha subito in tutti questi anni a causa della presenza del siderurgico a poche centinaia di metri dalle prime abitazioni del rione Tamburi. Un danno esteso, che si è diffuso in tutti questi anni e che non ha risparmiato nessuno. E che i nostri politici, così come i sindacati, conoscono perfettamente, perché sono stati anche e soprattutto loro a contribuire a realizzarlo. Soltanto che, finendo per seguire l’Ilva sulla strada della logica del profitto, hanno finito per considerarli degli inevitabili effetti collaterali. Da sacrificare sull’altare del dio mercato. E della produzione dell’acciaio.
Del resto, chi vuoi che se ne importi se negli ultimi anni sono stati abbattuti migliaia di capi di bestiame che hanno avuto il sol torto di aver brucato l’erba nel raggio di 20 km dall’area industriale? Chi vuoi che se ne importi se decine di famiglie di allevatori tarantini hanno perso tutto quello che hanno costruito e portato avanti con l’amore per la natura sin dall’800? Chi vuoi che se importi se oggi quegli allevatori non hanno più un lavoro? Se le loro masserie sono diventate cattedrali nel deserto? Se ancora oggi non hanno ricevuto un solo euro di risarcimento per il danno subito? A loro è rimasto soltanto l’appiglio della giustizia. Quella terrena. A quella divina hanno affidato la speranza che magari, in un altro mondo ad anni luce di distanza dalla terra, un domani possa nascere una nuova umanità.
Restando nell’ambito della cultura della terra, lo stesso discorso può essere fatto per chi avrebbe voluto coltivare in libertà i prodotti tipici locali. Perché l’ordinanza emanata in questi giorni dai vari sindaci dei comuni del tarantino, è soltanto la punta di un iceberg che ha radici ben più profonde e radicate. Che si allungano sino ad arrivare alla falda acquifera sul cui reale stato di inquinamento, nessuno può ancora esprimersi con certezza. Nella nostra provincia il settore dell’agroalimentare avrebbe dovuto e potuto essere un fiore all’occhiello, un traino per l’intera economia ionica. Avrebbe, appunto.
Per non parlare della situazione in cui versa il settore della mitilicoltura. Un’attività antica quanto l’uomo, che ha reso Taranto famosa in tutto il mondo. Una produzione senza eguali per la sua specificità. Un bacino naturale che avrebbe dovuto essere preservato come il più prezioso dei tesori. Ma chi vuoi che se importi se 3000 mitilicoltori tarantini non possono più esercitare la loro professione nel I seno del Mar Piccolo perché devastato da un inquinamento infame di PCB e diossina? Chi vuoi che se importi se la famosa cozza tarantina viene bandita in tutta Italia perché non è ritenuta più sicura? Chi vuoi che se importi se dopo oltre duemila anni di storia, i pescatori dovranno trasferire i loro allevamenti e i loro impianti in Mar Grande a poche centinaia di metri dallo scarico delle fogne? Se dovranno essere costretti a vivere in uno spazio ristretto gentilmente ottenuto per concessione dalla Marina Militare (che ha contribuito in maniera decisiva all’inquinamento del Mar Piccolo? Se i pescherecci dovranno fare lo slalom tra le navi militari e le enormi petroliere che scaricano il minerale fondamentale per il ciclo integrale dell’area a caldo dell’Ilva?
Questi, signor Ministro, non sono per caso danni economici arrecati ad un intero territorio? Non è la mortificazione delle risorse naturali di una città che si vede chiusa in un angolo senza via d’uscita? Perché invece di interrogare la magistratura tarantina sul suo operare, non chiede alle istituzioni locali cosa hanno fatto per salvaguardare tutto questo negli ultimi 60 anni? Si parla tanto di economia, di mercato. Del fatto che se chiude l’Ilva, per effetto domino chiuderà la Cementir ed anche il porto di Taranto subirà effetti negativi. Bene. Perché non si chiede come mai soltanto nel 2012 è stato firmato l’accordo per rilanciare lo scalo ionico, ritardando di almeno 20 anni lavori fondamentali per quella che dovrebbe essere la prima vera alternativa economica del territorio (continuando a sabotarne altri, come il distripark, fondamentali per lo sviluppo economico del porto)? Perché non si chiede come mai l’aeroporto di Grottaglie, dotato della pista di atterraggio e decollo più lunga d’Italia è ancora oggi chiuso ai voli civili? O perché non viene utilizzato almeno con la funzione di cargo? Perché non si ammette una volta e per tutte che per via di una scellerata scelta economica e politica, Taranto è stata svenduta alla grande industria per favorire Bari, Brindisi e Lecce?
E il turismo, signor Ministro, non è anch’esso una fonte di reddito? Non è anch’esso un settore economico fondamentale per un territorio ricco di storia come quello ionico? Come mai, ad esempio, ancora oggi abbiamo splendidi scorci archeologici completamente abbandonati e chiusi al pubblico? Perché questa città non ha ancora un programma serio sul come sviluppare e far crescere il turismo culturale? Misteri della storia. Per non parlare dell’Università, ennesima colonia barese. Con migliaia di giovani tarantini da sempre destinati all’emigrazione: non è anche e soprattutto questo un danno economico e sociale per una città del Sud?
Ciò detto, caro Ministro, il danno maggiore, ovviamente, è quello alla salute. Sul quale non si scherza e non si può più tacere. Abbiamo dovuto attendere decenni per veder sorgere il famoso registro tumori. Abbiamo dovuto aprire un’inchiesta giudiziaria, affidarci alla perizia dei migliori epidemiologi italiani per vedere le cifre reali, drammatiche, del reale danno subito dalla popolazione tarantina ogni anno a causa dell’inquinamento prodotto dall’Ilva. E ancora oggi dobbiamo fare i conti con una reticenza che ha davvero dello scandaloso. Ogni tanto ci rifilano qualche studio monco, che dice tutto e non dice niente. Come se ancora una volta si voglia rinviare nel tempo ciò che non è più rinviabile.
Vede, signor Ministro: probabilmente tutto questo non fa parte del mercato globalizzato. Non rientra nel calcolo del PIL di un territorio. Non produce “ricchezza” per lo Stato e per un privato. Tutto questo forse non val bene un decreto o una legge ad hoc. E magari non riguarda gli interessi dell’intera industria meccanica italiana. Ma va a invadere lo spazio vitale di un intero territorio. Va a ledere la vita di migliaia di cittadini. Va a recidere rapporti, legami, affetti. Comporta malattia, morte, dolore. Gratuito e non retribuito. Oscura la possibilità anche solo di immaginare un futuro diverso.
Nonostante tutto questo, si vuole ancora oggi sacrificare un intero territorio, per salvare un miliardo di euro, peraltro frutto di un’attività illecita. Si vuole a tutti i costi salvare un gruppo industriale per tenerlo all’interno del mercato economico dell’acciaio. Illudendosi che quello stesso gruppo voglia davvero restare all’interno di un mercato che aveva già deciso di abbandonare per una mera questione di interesse. Perché il succo del discorso, è sempre lo stesso: il gruppo Riva non scucirà un solo euro dal tesoro di famiglia per risanare gli impianti. Tutto il resto sono solo teorie fantasiose oramai non più sostenibili.
Taranto nei prossimi anni dovrà riparare ai tanti danni causati da una classe politica ignobile. Da una classe dirigente connivente. Da un’alta borghesia da sempre silente. Da sindacati che hanno svenduto i diritti dei lavoratori. E potrà farlo soltanto partendo dalle sue risorse naturali. Sviluppando un’economia pulita attorno ad esse. Che l’Ilva esca pure dal mercato, signor Ministro. Non sarà di certo quel miliardo in più a salvarla da un declino su cui la parola fine è stata scritta dal suo stesso creatore.