di Girolamo De Michele
Prima di leggere questo intervento, ascoltate le parole di questo medico, Giuseppe Merico, nella puntata del 1 dicembre 2012 di Ambiente Italia (RAI3) [qui: l’intervista comincia al minuto 01:40]: parla di diossina nel latte materno, di bambini a cui viene diagnosticato un tumore — della diagnosi di un tumore alla prostata a un neonato di 3 giorni. È un’intervista rilasciata nei giorni della presentazione del decreto salva-Ilva (dl 3 dicembre 2012 n. 207 convertito in legge 24 dicembre 2012 n. 231), la legge ad aziendam che consente all’Ilva di continuare le proprie attività, e sulla quale pende il giudizio della Corte Costituzionale dopo il ricorso del Tribunale di Taranto. Con le parole di Adriano Sansa, ex sindaco di Genova e attuale presidente del Tribunale dei minori del capoluogo ligure (sempre nella stessa puntata di Ambiente Italia, al minuto 14:40):
«Noi stiamo accettando collettivamente l’alta probabilità (in diritto si chiama “dolo eventuale”) che alcune persone – non ne conosciamo i volti ma sappiamo che esistono, a Taranto, adesso, adulti e bambini – si ammaleranno e moriranno per via di queste emissioni e dell’esenzione che viene autorizzata».
Questo è lo scenario su cui scorrono le notizie degli ultimi giorni, e in base al quale il governo oggi, martedì 21 gennaio, emanerà «un provvedimento che consenta di sbloccare la situazione».
La dichiarazione sul provvedimento, quale che sia (Un decreto? Una legge di interpretazione autentica? Il “lodo Vendola”? [1]), è di venerdì 18 scorso, al termine di una riunione tra governo, sindacati (CGIL CISL UIL e UGL), Confindustria, Regione Puglia e Comune di Taranto.
Di cosa si tratta? Del presunto, o preteso, blocco delle attività dell’Ilva, dovuto al perdurante sequestro del materiale (un milione e 700mila tonnellate fra coils e lamiere, del valore di circa 1 miliardo di €) prodotto illegalmente nel periodo intercorso tra l’ordinanza del GIP Todisco, il 26 luglio 2012, e il 4 dicembre 2012. A causa del sequestro di questo materiale — merce illegale, che l’Ilva non era autorizzata a produrre, e di cui non è autorizzata ad avere la disponibilità — la fabbrica, si afferma, non può andare avanti non ostante il decreto, perché il materiale accumulato impedirebbe lo stoccaggio di nuove produzioni. Né, in assenza dei profitti derivanti dalla vendita di questo materiale, l’Ilva è in grado di garantire il pagamento dei salari (pari a 75 milioni di €). In sintesi, la magistratura tarentina col blocco del materiale illegale impedirebbe l’applicazione di una legge dello Stato.
Così Monti: «La legge salva Ilva, pur in pendenza del giudizio della Corte Costituzionale, deve essere applicata dalle istituzioni e dall’azienda, che conferma il proprio impegno al rispetto delle prescrizioni Aia e alla tutela dell’occupazione, assicurando il regolare pagamento delle retribuzioni a tutti i lavoratori».
Così Clini: «La norma è molto chiara: la legge prevede che l’azienda rientri nella disponibilità dei prodotti finiti per la loro commercializzazione. Questo prevede la legge e lo abbiamo ribadito».
Così Camusso (che il 2 agosto, mentre il treruote entrava in piazza, invocava la carica della polizia): «il decreto è la chiave per risanare la città di Taranto, la fabbrica e per garantire il lavoro a 20mila persone».
Così Passera: «Sul blocco dei prodotti finiti i magistrati stanno proprio sbagliando. Non si difende così lavoro e ambiente».
Così Vendola: «Ho detto a Monti che c’era la necessità di fare il punto perchè non credo che si debba aspettare che scoppi l’incendio per chiamare i pompieri. Ci sono 12 mila stipendi da pagare e non ci sono i soldi».
Così Giuseppe Farina, segretario confederale FIM CISL, il sindacato di maggioranza all’Ilva: «È bene che anche la procura di Taranto capisca che non c’è alternativa alcuna alla piena applicazione della legge e al conseguente dissequestro delle produzioni finite, oggi giacenti nei piazzali e nei magazzini dell’Ilva. In assenza di ciò, c’è solo il concreto rischio di chiusura dello stabilimento e di sicuro in questo modo, non si tutelerebbe né l’ambiente, né la salute, né il lavoro. Si precipiterebbe invece in una vera catastrofe sociale e industriale che fatalmente rischierebbe di diventare un grave problema di ordine pubblico, e non solo nella città di Taranto».
In definitiva, afferma la nota comunicata alla stampa al termine della riunione di venerdì 18, «le parti affermano che la legge, pur in pendenza del giudizio della Corte costituzionale, deve essere applicata dalle istituzioni e dall’azienda. L’azienda conferma il proprio impegno al rispetto delle prescrizioni dell’AIA e alla tutela dell’occupazione, sotto la vigilanza del Garante nominato dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2013, assicurando il regolare pagamento delle retribuzioni a tutti i lavoratori».
Fuori dal coro, il Comitato Donne per Taranto: «Ancora una volta chi ha l’obbligo di tutelare la salute dei tarantini con la complicità di chi è delegato a tutelare i diritti dei lavoratori ha scelto di tradire il proprio mandato per difendere, ancora una volta, gli interessi economici di un’azienda la cui proprietà è accusata di gravi crimini oltre agli interessi delle banche che in questo “gioco” hanno un ruolo rilevante e non sottovalutabile» [2].
Tutti d’accordo, dunque. Ma d’accordo su cosa?
Su una menzogna!
Non è vero, infatti, che l’attività dell’Ilva è in stato di blocco per effetto dei provvedimenti della magistratura tarentina. Lasciamo la parola al giornalista Gianmario Leone, che dalle pagine on line di una coraggiosa testata, Inchiostro Verde (oltre che dal quotidiano “Taranto Oggi” e dal “manifesto”) segue giorno per giorno la vicenda [qui l’integrale]:
«In pratica, tutti coloro i quali in questi anni hanno contribuito a creare il caos in cui ci troviamo, appoggiando le politiche scellerate del gruppo Riva, oggi si travestono da pompieri recitando la parte di chi vuole salvare il sistema economico italiano ad ogni costo, anche andando contro la Costituzione italiana ed una Procura che altro non tenta che far applicare la legge.
Eppure, basterebbe che tutti questi signori venissero a Taranto, all’interno dell’Ilva, per rendersi conto di come stanno effettivamente le cose. […] L’attività produttiva del siderurgico più grande d’Europa è andata avanti senza alcuna interruzione: se un domani ciò non dovesse più avvenire, è soltanto per volontà dell’azienda. Le materie prime vengono scaricate al porto, l’area a caldo lavora e produce, il prodotto viene spedito negli stabilimenti di Genova e Novi Ligure.
Non vi è alcun blocco delle attività, né vi è mai stato sino ad oggi. Dunque non capiamo il perché si continui ad urlare ai quattro venti che si deve consentire all’Ilva di “riprendere la produzione”. Invitiamo tutti questi signori a venire a vedere gli impianti dell’area a caldo che producono continuando ad avvelenare l’ambiente e l’aria che respirano i polmoni degli operai e dei cittadini di Taranto. Così come siamo ancora una volta costretti a sottolineare come sia assolutamente falsa e infondata la teoria secondo cui il materiale sequestrato lo scorso 26 luglio impedisca all’Ilva di liberare i magazzini e le aree del porto in dotazione al siderurgico. L’azienda, grande due volte e mezzo la città, dispone di una serie di capannoni vuoti e di grandi aree libere in cui poter spostare il materiale sequestrato, continuando così la sua regolare attività.
Il blocco dell’area a freddo, che peraltro non è mai stata sequestrata né dalla magistratura, né dalla Guardia di Finanza, è a tutt’oggi ferma soltanto per volere dell’azienda. Del resto, la contraddizione è nei termini: come può essere che l’area a caldo (che è ancora sotto il sequestro virtuale della Procura) lavora senza problemi mentre l’area a freddo non ha di che lavorare? Perché il governo, le istituzioni e i sindacati non chiedono spiegazioni ad un’azienda che chiude con i lucchetti gli accessi alle aree invece di studiare l’ennesimo atto incostituzionale per continuare a proteggere un gruppo industriale diviso tra arresti domiciliari, carcere e latitanti? E che come avvenuto l’altra notte, per evitare che si vedano ad occhio nudo le emissioni inquinanti, spegne le luci nell’acciaieria mettendo a serio rischio la vita degli operai?
Così come è bene ricordare che sostenere la teoria secondo cui l’Ilva senza il miliardo derivante dalla vendita del prodotto sequestrato non può garantire la sopravvivenza dello stabilimento, è assolutamente fuori dalla realtà. Si vuol far credere ad una città e ad un paese intero che un gruppo industriale che ha incassato miliardi di euro per decenni, oggi dipenda da un solo miliardo con il quale dovrebbe svolgere una serie infinita di attività: dal pagamento degli stipendi dei lavoratori all’ottemperare le prescrizioni dell’AIA per le azioni di risanamento degli impianti. Inoltre, si vuol far credere ai tarantini che da quel miliardo dipenda il piano industriale per i prossimi anni. L’Ilva può tranquillamente vendere quanto prodotto dallo scorso 4 dicembre e incassare nuova liquidità, in attesa che la Consulta si pronunci sui vari ricorsi sollevati dalla Procura di Taranto».
Pochi giorni or sono Adriano Sofri [3], uno dei pochi cronisti ad essere sceso a Taranto per vedere con i propri occhi cosa succede davvero, ricordava l’assenza di programmazione dell’impatto ambientale al tempo della costruzione della grande fabbrica, e l’assenza di un piano siderurgico nazionale laddove ce ne vorrebbe uno europeo. La strategia concordata dalle istituzioni nazionali e locali – governo, sindacati, padronato, regione e comune – sembra chiara:
– Avallare il ricatto dell’Ilva fingendo di non vedere la strategia di fuga con la quale la famiglia Riva, che ha accumulato enormi quantità di capitali in paradisi fiscali che nessuno sembra in grado di rintracciare intende abbandonare Taranto per non farsi carico delle spese di bonifica, come lascia intendere un’analisi interna dal titolo La sostenibilità economica e finanziaria degli investimenti dell’ILVA, a cura del Centro Studi Siderweb [4].
– Imporre la riapertura oggi della fabbrica, fingendo i non sapere che non ha mai chiuso e accampando il ricatto occupazionale, demandando a un indeterminato domani una bonifica della quale non è chiaro chi se ne dovrà fare carico, con quali prospettive e con quali tempi.
– Identificare nella magistratura tarentina – per una volta, giudici che si limitano ad applicare le leggi, com’è loro compito, e a rivolgersi al superiore livello giuridico per l’interpretazione delle leggi stesse, senza show televisivi, entrate, salite o discese in politica con questo o quello schieramento — il capro espiatorio ideale su cui scaricare ogni responsabilità passata, presente e futura.
– E, soprattutto, mantenere intatte le miserabili rendite di posizione che politici e sindacalisti, locali e nazionali, hanno accumulato negli anni di piombo, di fumo e di fandonie del lungo autunno tarentino.
Il caso-Taranto dimostra, una volta di più, come l’uso capitalistico della crisi abbia tra i propri scopi l’instaurazione di una politica della paura, dell’insicurezza e dell’indebitamento; e che da questa precarizzazione senza fine i governi traggono quel consenso che non riescono a captare in altro modo — ad esempio, dimostrando una reale capacità di governo, pianificazione e soluzione della crisi. Ma questa, direbbe l’indimenticabile Moustache, è un’altra storia… o forse no.
Note al testo
[1] Si legge in un comunicato a firma di Nichi Vendola, postato sul proprio sito: «L’Ilva deve presentare subito istanza di dissequestro dei materiali finiti vincolando i ricavi della vendita dei prodotti al pagamento delle retribuzioni e all’avvio gli interventi di ambientalizzazione, così come previsti dall’Autorizzazione integrata ambientale. Piuttosto che un nuovo decreto, che porterebbe solo in un vicolo cieco, questa soluzione, subordinata agli interventi della Corte Costituzionale, consentirebbe di gestire nel processo penale il conflitto che sta soffocando tanto l’industria siderurgica italiana che la città di Taranto. Mi aspetto che il governo voglia sostenere questo lodo e che l’Ilva, piuttosto che diffondere comunicati ostili nei confronti del proprio giudice naturale, si concentri invece su una linea difensiva che non preveda leggi ad aziendam ed applichi il codice di proceduta penale, impegnandosi, con documenti rilevanti processualmente, a pagare gli stipendi e ad avviare investimenti di cui parla da mesi ma che Taranto non ha ancora visto».
[2] Il comunicato integrale è qui.
[3] Adriano Sofri, La siderurgia rovesciata, “Repubblica”, 16 gennaio 2013; La giudice, l’Ilva e l’impossibile scelta, “Repubblica”, 19 gennaio 2013.
[4] Nel documento, datato 11 dicembre 2012, si sostiene che «le dinamiche economiche e finanziarie più recenti pongono quindi un grave problema di sostenibilità degli investimenti chiesti per ottemperare alle sopra menzionate prescrizioni, che pongono sulle spalle dell’ILVA uno sforzo economico calcolato in circa 3,5 miliardi di euro», e si conclude che «senza un intervento dello Stato per alleggerire gli oneri connessi agli investimenti che l’ILVA dovrà sostenere nei prossimi anni e/o un apporto di capitali freschi da parte dei soci attuali o altri che potrebbero entrare nella compagine azionaria, la prosecuzione dell’attività dell’ILVA nel medio periodo appare molto difficile». Il documento può essere letto qui.