di Mauro Baldrati
Periferia sud ovest di Gaza, dicembre 2012, ore 00:18
Abul Khayr accarezzava dolcemente i seni di sua moglie Afrah, distesa accanto a lui. Le aveva appena rivelato tutta la sua rabbia. Diciamo che aveva riversato su di lei la sua rabbia impotente. Ne avevano discusso per giorni, al comitato: la collina degli aranceti, che si trovava circa 25 chilometri a sud dalla sua casa, lungo il confine, era stata spianata dalle ruspe israeliane, e ora i tecnici stavano tracciando le fondazioni. Un nuovo insediamento! Era inaudito. Un ennesimo gesto aggressivo, in spregio a tutti gli accordi. Venti ettari di stupendo aranceto, che davano lavoro a quindici persone, distrutti. E il mondo stava a guardare. Qualche ipocrita dichiarazione euro-americana e poi silenzio. Avevano progettato proteste, rivolte, ma nessuno si muoveva. Non era il momento, non c’era la spinta. C’era stanchezza, rassegnazione. Una mozione di censura all’ONU non era neanche da prendere in considerazione. Si sarebbe immediatamente arenata sul veto americano.
Abul baciò Afrah. La leccò sul collo, l’annusò dietro le orecchie. Lei rise. Da quando aveva ripreso il lavoro di danzatrice del ventre in un ristorante sentiva odori di zenzero, tabacco, curcuma, tè alla menta. L’odore di lei, fresco come la brezza dell’oasi.
Fece scorrere la mano sui seni, indugiando quando rabbrividiva, scese sul plesso solare, sulla pancia, sui fianchi. La sua pancia, resa più dolce e morbida dalla gravidanza, e i suoi fianchi così meravigliosamente larghi: erano l’arma della danzatrice, la calamita che attirava gli occhi di tutti gli uomini, e anche delle donne. Ma Abul era andato varie volte a vederla, al ristorante, sapeva che Afrah aveva un’altra arma vincente: gli occhi. Danzava tra i tavoli, scivolava sul pavimento, leggera, poi si fermava e iniziava a fissare un uomo. Uno solo. Lo inchiodava con uno sguardo pieno di promesse e di richieste: mi vuoi? Cosa sei disposto a fare per me? A cosa sei disposto a rinunciare? Partiva una sfida, mentre la donna che sedeva accanto all’uomo fissava lei, fissava lui, si accigliava. Nessun uomo riusciva a sostenere quello sguardo. Chi resisteva un minuto, chi fino a tre o quattro, ma alla fine tutti abbassavano gli occhi.
Era geloso Abul?
Sì, ossessivamente, meravigliosamente geloso. Ma sapeva che Afrah rifiutava tutte le somme di denaro che quegli uomini, stimolati, tormentati, le offrivano. Ogni notte rientrava a casa, in taxi.
Per lui solo.
Tutta la rabbia che induriva il suo cuore e i suoi muscoli aveva voglia di uscire. Aveva voglia di dare: donare a lei quello che le piaceva, che la faceva felice. Le baciò i capezzoli, glieli succhiò. La leccò a lungo sulla pancia, intorno all’ombelico, le sussurrò le parole che adorava sentirsi dire, le baciò l’interno delle cosce, si avvicinò al suo bocciolo di rosa, già schiuso per lui. Vi immerse la bocca, il naso, cercò il suo piacere con la lingua, con tutta la faccia, finché lei gli strinse la testa tra le gambe, con una forza straordinaria, serrandogli le orecchie in una morsa, tanto che non udiva più nulla, neanche i suoi sospiri e i suoi gemiti.
Poi lei lo volle. Lo prese tra le labbra, lo sfiorò, lo succhiò, ma Abul la fermò prima che la sua capacità di resistenza venisse meno. “Baciami” disse, e la tirò a sé. Lei lo fissò, ma senza sfida, senza domande. Non era la danzatrice ora. Era Afrah, la sua amata. Nei suoi occhi bruciava solo desiderio, solo amore. “Ma sai di…” disse, ridendo, con tono di protesta. “Anche tu sai di” rispose lui. Era come un doppio scambio, lui che sapeva di lei la baciava, che sapeva di lui. Di nuovo i loro sapori si fondevano, si completavano. La prese sul fianco, la prese di nuovo da seduto, in quello che una volta aveva letto essere l’abbraccio tantrico. Era dolce, una posizione che richiedeva un abbandono totale, un lasciarsi andare al desiderio e all’estasi. Tutto volava via nell’abbraccio tantrico, la rabbia, la frustrazione, l’odio. Era l’ingresso nel paradiso.
Giacquero nella loro posizione preferita, lei stesa sul fianco con le gambe ripiegate, lui che aderiva alla sua schiena, e con la mano le sfiorava la pancia.
Abul si sentiva calmo, appagato, pronto per iniziare una nuova giornata. Le affondò il naso tra i capelli, cercando di non svegliarla. Si sentiva un uomo fortunato. Tutti gli uomini la desideravano, impazzivano per lei. Litigavano con le loro donne, dopo quelle sfide. Le loro donne impazzivano di gelosia dopo quelle promesse, quei sogni.
Afrah era sua, solo sua.
Era la sua donna.
Voleva amarla per tutta la vita.
Sei la mia luce lunare, pensava Abul.
Sei la mia stella del mattino.
Che Allah ti benedica.
Tre ore dopo, a 19.685 piedi di altitudine
Il caccia F-16 Fighting Falcon della Israeli Air Force volava lungo la circonferenza di un cerchio di due chilometri di diametro, come un gigantesco rapace pronto a gettarsi sulla preda. Ephraim Barak, 28 anni, un diploma di pilota della marina militare americana conseguito sulla portaerei Lincoln, controllò con cura le coordinate.
“Salomon 1 a base, passo.”
“Qui base, avanti Salomon 1.”
“Sono sull’obiettivo.”
Dodici secondi di silenzio. Ephraim stava per ripetere la comunicazione, quando la radio gracchiò.
“Procedi, Salomon 1.”
“Ricevuto.”
Tirò a sé la cloche, stringendo i denti. La forza brutale del motore a turboventola Pratt & Whitney lo schiacciò contro lo schienale, mentre l’aereo si impennava e iniziava un giro completo a 360 gradi, formando una ruota panoramica sospesa nello spazio. Vide il cielo stellato che ruotava davanti a sé, finché si ritrovò in picchiata lungo un angolo di 48,21 gradi, che corresse portandolo a 62,45 gradi.
Perché 62,45? L’angolo ideale per la deflagrazione è di 45.
Perché era necessario avere il massimo della penetrazione, senza perdere l’onda d’urto verso l’angolo complementare opposto all’impatto.
Quando fu a 7.400 piedi inviò le coordinate al satellite, poi spinse il pulsante rosso della cloche. Due missili AGM-65 Maverick con testate all’uranio impoverito si staccarono dalle ali e iniziarono il primo e unico viaggio della loro esistenza, guidati con precisione millimetrica dal navigatore del satellite.
Perché le testate all’uranio impoverito?
Perché il Mossad non era riuscito a stabilire se la casa fosse dotata di un magazzino sotterraneo blindato pieno di armi ed esplosivi. Nell’incertezza si sceglieva sempre l’opzione più sfavorevole.
Ephraim inquadrò la casa col visore digitale a infrarossi con doppia interfaccia termica. Vide le scie dei missili che correvano rapidissime verso la sagoma. Le seguì finché sparirono, sostituite da una vampata e da una nuvola silenziosa. Alzò la cloche e la inclinò a destra, iniziando una virata verso l’alto, allontanandosi dall’obiettivo.
“Salomon 1 a base, passo.”
“Qui base, avanti Salomon 1”
“Missione compiuta.”
“Ricevuto, Rientra alla base, Salomon 1.”
Ephraim stava già volando verso la base, mentre entrava in Mack1.
La casa di Abul e Afrah non esisteva più. Al suo posto c’era una voragine nera e fumante.
I “danni collaterali” previsti erano i seguenti: le case poste ai lati sarebbero state gravemente lesionate, probabilmente crollate. La casa retrostante, che si trovava nell’angolo complementare opposto, sarebbe stata rasa al suolo, e quella dietro gravemente lesionata, probabilmente crollata. Morti presunti, oltre all’obiettivo: da otto a quattordici. I morti eventuali dovuti all’aerosol dell’uranio impoverito non erano di competenza degli analisti.
Abul e Afrah erano passati direttamente dal sonno al nulla.
Nella camera attigua dormiva Naeema, la loro bambina di due anni.
Dalla scheda top secret redatta dal Mossad non risulta che Abu-al-Kahyr, ufficiale coordinatore del servizio segreto militare di Hamas, avesse una figlia, né che fosse sposato.
[Immagini di Magnus: in apertura “Le femmine incantate”, all’interno “Vacanza a Zahlè”]