di Valerio Evangelisti
[Quella che segue è la mia prefazione alla raccolta di lettere di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti Altri dovrebbero aver paura, a cura di Andrea Comincini, con uno scritto di Andrea Camilleri, ed. Nova Delphi, 2012, pp. 312, € 12,00.]
La vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti è nota a parte del grosso pubblico grazie a un film di Giuliano Montaldo, alla canzone di Joan Baez che ne costituiva la colonna sonora e, in minor misura, ad alcuni articoli. L’immagine prevalente dei due anarchici è pero quella di pure “vittime”: poveracci colpiti da un’ingiustizia di dimensioni clamorose, perché amplificata dall’accanimento di un intero sistema politico e giudiziario.
Non vi è dubbio che in questo profilo vi sia molto di vero, tuttavia è insufficiente. Mancano la dimensione ideologica di Sacco e Vanzetti, la loro militanza, il loro anarchismo. Questi elementi sono sfumati nel tempo, e forse era inevitabile; del resto furono gli stessi imputati che, durante il processo, rifiutarono la linea difensiva troppo politicizzata dell’avvocato socialista Fred Moore, a favore di una strategia più tecnica.
Ciò però mutila la storia di Sacco e Vanzetti della sua componente principale, fino a trasformarli spesso, almeno in passato, da “i due anarchici” a “i due italiani” — come se fossero stati uccisi solo per via della nazionalità. L’appassionato lavoro di Andrea Comincini, nel curare e proporre la corrispondenza di Sacco e Vanzetti rimasta inedita, viene a colmare dunque una lacuna gravissima, specie se si tiene in considerazione che si trattava di due figure niente affatto secondarie del movimento anarchico americano. Soprattutto Vanzetti, ma in minore misura anche Sacco.
Attraverso l’epistolario, incluse anche le lettere degli interlocutori, emerge il contesto in cui una condanna a morte a prima vista assurda (gli autori veri dei delitti furono individuati prima dell’esecuzione, i testimoni a discarico erano numerosi), maturò e fu perseguita con fanatico rigore.
L’anarchismo, negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti, non fu per niente una forza secondaria, né fu priva di un autentico seguito di massa. Nel paese aveva origini in gran parte autoctone, e pensatori schiettamente anarchici come Lysander Spooner, Benjamin Tucker, William B. Greene, Josiah Warren, Stephen P. Andrews e Voltairine de Claire avevano elaborato le loro teorie senza passare per Proudhon o Bakunin, ma attingendo direttamente al filone più radicale del liberalismo americano, arricchito da tematiche sociali ed egualitarie.
Perché però l’anarchismo diventasse movimento articolato e diffuso occorse attendere le grandi ondate migratorie dall’Europa centrale e meridionale. Giunsero negli Stati Uniti, mescolati alle folle immigrate, prima gli esuli della Comune di Parigi, poi altri militanti libertari che già lo erano stati in patria, oppure che lo divennero nel Nuovo Mondo. Il tedesco Johann Most, sbarcato nel 1882, fu pugnace divulgatore di un anarchismo che non rifiutava il ricorso al pugnale e alla dinamite, pur senza trascurare il lavoro di agitazione tra le classi subalterne. Altri anarchici migranti portarono invece una visione libertaria maggiormente in linea con la visione della Prima Internazionale. E’ il caso di Luigi Galleani, che ebbe in Vanzetti, e attraverso questi in Sacco, due dei più fidati collaboratori.
Il filone più fruttuoso fu però quello anarco-sindacalista. Gli Industrial Workers of the World furono sindacato di massa, ancorché minoritario. Nati su posizioni sindacaliste rivoluzionarie, sottoposti a tentativi di influenza da parte di leader socialisti come Eugene Debs e Daniel De Leon, mantennero la loro indipendenza e, pur tenendosi distanti dall’estremismo di Johann Most, finirono con l’accostarsi a un anarchismo tutto giocato in chiave sociale.
Mi spingerei a dire che la componente libertaria del movimento operaio e di protesta statunitense oltrepassò sempre, sotto un profilo strettamente numerico, l’influenza più aggressiva e vistosa dei comunisti, quando presero vita (lo stesso accadeva nel vicino Messico, e in buona parte del Sud America). Ebbero sorte comune allorché si scatenò una repressione generalizzata, preceduta dai raids di Palmer contro anarchici e sindacalisti rivoluzionari, con deportazioni illegali. Sta di fatto che dopo che la persecuzione, culminata nel maccartismo, cessò, il partito comunista ormai non esisteva più. Invece sopravviveva il movimento libertario entro alcuni sindacati, nei movimenti studenteschi e di base, in esperienze locali, in ardite speculazioni accademiche. Magari frammentato in correnti, però vivo.
Evidentemente aveva trovato un terreno ideale, sotto il profilo culturale e sociale, in cui impiantarsi. Tante erano le bandiere rosso-nere a Seattle nel 1999. Le troviamo, ancor più numerose, nel movimento Occupy dei giorni nostri.
Sacco e Vanzetti furono vittime di un potere che intuiva il pericolo e sapeva vedere lontano. Finalmente, grazie a questa corrispondenza integrale, ne cogliamo l’immagine intera, di militanti. Vanzetti prevale, ha più dimestichezza con la scrittura, una cultura più ampia, tanto da citare la psicanalisi e una folta serie di letture. Sacco non è al suo livello, eppure si legge in trasparenza un eguale grado di dignità e di coerenza ideologica.
Non mancano i brani semplicemente poetici e volti agli affetti familiari. Non sono il nocciolo, che risiede invece in una convinzione spinta fino all’estremo sacrificio. La si legge nei toni talora aspri, nella costante attenzione all’attualità. C’è chi si è speso in tentativi assai goffi di “revisionismo storico”, con esiti fallimentari (non a caso, un testo di quel tipo, a firma Francis Russell, è l’unico libro sulla vicenda tradotto in italiano). La risposta migliore è scoprire l’identità completa dei due protagonisti. Anarchici coscienti e convinti, e mandati a morte per questo.