di Alessandro Bresolin
Raggiungo Cavazzale un tiepido e luminoso pomeriggio di fine ottobre. Una volta in paese mi fermo e chiamo Vitaliano: “Sei arrivato?” “Sì, sto in un incrocio, tra la chiesa, il bar Cin-cin e una banca” “Ti raggiungo”. Vitaliano, come forse nessun’altro è riuscito a descrivere le nevrosi e i magoni siderali del Veneto contemporaneo. La sua ricerca spazia dalla scrittura di romanzi e racconti a quella di testi per il teatro e il cinema, sviluppando collaborazioni importanti, come quelle con Toni Servillo e Matteo Garrone. Facciamo un lungo giro per il paese diffuso, così simile al mio, e alla fine ci rifugiamo in un bar.
– Abiti qui, a Cavazzale, se tu potessi definire/descrivere le coordinate del luogo?
– Il paese è nato intorno a una fabbrica e al lavoro più di cento anni fa, ma adesso la fabbrica si è spenta da una decina d’anni, per cui si è spento anche quello che in qualche modo lo teneva, ed è esploso, come tutto il resto. Durante la guerra la fabbrica ha avuto un exploit di vendite, come tutti i fornitori militari. E’ normale, anche Marzotto per dire, si favoleggia sugli archivi di Marzotto, per le strette relazioni che aveva con il regime fascista. La cosa è un po’ rimossa però, d’altronde tutte le grandi industrie hanno qualcosa da nascondere. Tutto questo comunque è finito, ma resta un residuo urbanistico, un tentativo di progettazione che dopo non c’è più stato. Se non altro quella prima industrializzazione ha lasciato alcuni residui di un qualche interesse, c’era un tentativo anche sociale di organizzare il quartiere operaio fianco di un grande teatro, le scuole elementari, etc. Per cui sembra che ci fosse più scienza, o comunque il tentativo di farla. Tutta la parte che è venuta dopo non ha lasciato una minchia, neanche delle rovine interessanti. Sta cominciando a lasciare capannoni.
– Che rapporto hai con la tua terra?
– Dissociato, da borderline.
– Quale percorso individuale ti ha portato alla scrittura?
– In parte è stato, abbastanza, per disperazione. Ma d’altra parte avrei sempre voluto farlo, fin da bambino. Poi però, siccome non sono di estrazione borghese e neanche piccolo-borghese, ho fatto altre cose. Non era comunque un’opzione quella di occuparsi di letteratura e quindi a lavorare, molto semplice. Mi mancava una qualsiasi relazione con un tipo di mondo in cui fosse legittimo occuparsi di queste cose, e magari anche farne una rispettabile professione.
– Il tuo rapporto con l’ambiente della cultura?
– E’ un ambiente in cui comunque non sono entrato, resto al bordo. Quest’anno comunque sono dieci anni esatti che vivo della scrittura, il che vuol dire che un percorso si è delineato, guardando indietro, perché davanti non vediamo. Sto con quelli che pensano di camminare con le spalle rivolte al futuro e non viceversa. Con il mondo della cultura ho un rapporto individuale, non mi sento all’interno di. E’ un mondo di estrazione almeno piccolo-borghese se non borghese, alto-borghese lasciamo perdere, diciamo borghese e/o piccolo-borghese, di fatto.
– A lungo per vivere hai fatto i lavori più diversi. Quanto ha influito la tua vita lavorativa nella scrittura?
– Tantissimo, naturalmente, e ne sto scrivendo in questo momento, sarà il tema del mio prossimo libro. Ho però il timore di essere incappato, ed è una cosa che accade a chi scrive, in uno di quei libri che distruggono l’autore e che sono sempre dietro l’angolo. Perché scrivere è da megalomani, pensare che quello che scrivi, da solo, possa interessare altre persone vuol dire avere almeno il germe della megalomania, per cui è sempre possibile che questo germe si sviluppi e la megalomania diventi tale; per cui uno progetta un lavoro letterario che dopo lo schiaccia. Finché non l’ho finito mi rimarrà il dubbio, per adesso posso dire che mi ha molto complicato la vita, negli ultimi due anni e spero me ne basti un altro. Economicamente è un disastro, perché è un progetto che non può rendere, per il tempo che richiede: non vendo abbastanza per potermi permettere cinque anni tra un lavoro e l’altro. Economicamente il teatro per ora mi sta salvando, i teatranti mi sono simpatici e mi hanno accolto tra loro.
– Come nasce il tuo rapporto con il teatro?
– Nasce sempre dalla mia megalomania, cioè dal pensare che posso scrivere un testo teatrale essendo andato al teatro solo una volta da adolescente. L’ho fatto, ne ho scritti diversi, e la cosa miracolosa è che arrivano in scena.
– Quali sono stati e quali sono i tuoi punti di riferimento, dal punto di vista narrativo e stilistico?
– Senz’altro Beckett e Bernhard.
– So che sei appassionato di Goldoni.
– Goldoni è un mio modello per certi versi, cerco di seguirlo sempre quando possibile e mi ha anche dato dei risultati. Nei Mémoires, un libro splendido, è interessante vedere il rapporto che aveva con il teatro in quanto autore. Aveva un rapporto diretto con gli attori, in cui per esempio un attore gli chiedeva un testo e lui glielo scriveva. A me è capitato di incrociare degli attori, o attori-registi, Roberto Herlitzka, Alessandro Haber, Alessandro Gassman, Toni Servillo, che hanno messo in scena e che mi chiedono dei testi. Anche Michela Cescon, che ho conosciuto lavorando al film di Garrone, mi ha chiesto un testo e gliel’ho scritto. Quindi ho un rapporto diretto con gli attori, che salta i registi e tutta la questione della produzione e dei rapporti anche politici. Perché il teatro è sempre molto legato al potere, inevitabilmente, dal momento che ha bisogno di soldi. E questo non lo dico io, è storicamente così, lo dice Heiner Müller ad esempio, per citare un drammaturgo importante. Il teatro è anche affascinato dal potere e non a caso molte volte lo mette in scena. Però con me tutto questo resta fuori, perché ho un rapporto diretto con gli attori, un rapporto episodico e individuale e non di sistema, è sempre un percorso e mai uno spazio.
– In Una notte in Tunisia l’agonia e il delirio del signor X sembrano riflettere l’agonia dello Stato italiano.
– Mister X è Craxi, per me un ricordo abbastanza vivo come tutta la fase di Tangentopoli, che secondo me non ha risolto nulla. Il fatto è che, adesso come allora, ci si concentra sul criminale ma non si smantella il sistema, anzi. Bisogna fare delle leggi nuove, perché si è trovato il modo di bypassare le altre. Comunque restando a Craxi, che è morto effettivamente di tumore, mi sono accorto che il suo celebre ultimo discorso alla Camera prima di fuggire, di fatto, paragonava lo Stato italiano a un malato in cancrena dove era rischioso operare… Craxi incarnava in sé quella crisi, anche perché poi si è prestato a fare il capro espiatorio andandosene, come se avesse scritto lui la sua fine. Il che dal punto di vista del personaggio lo alza, perché lo toglie dalle indagini normali e banali che si fanno a teatro di solito. Una questione credo di orgoglio, dunque umana e interessante.
– Sostieni “non scrivo per comunicare”, che intendi dire?
– Non nel senso in cui s’intende ormai la comunicazione, sennò dovrei avere qualcosa da vendere. Perché spesso ho il sospetto che i libri siano fatti per vendere altro, cioè se funzioni tendi a diventare marchio e questa è una cosa pericolosa. Perché l’industria culturale comunque segue tutte le altre industrie. Quindi per avere un prodotto vendibile deve abbassare e questo da sempre. Però adesso siamo arrivati alle estreme conseguenze, che sono la ramificazione di genere e l’elevazione del genere a priori, fino a trovare le nicchie. In questo tipo di organizzazione sociale che intende la comunicazione come vendita, come consumo, siamo arrivati a consumare il fondo e non si sa come uscirne. Anche se è possibile, bisogna capire quale spazio può avere la scrittura.
– Quale può essere questo spazio?
– Non saprei, la narrativa ha invaso tutti gli altri campi del discorso. Ormai si usa, raccontare. Penso ai politici come Vendola, che dicono “la capacità di raccontarsi”… Siamo un mondo che si basa sulla comunicazione, dunque sulle difficoltà e sulla complicazione della comunicazione. Se insegnassero a comunicare in modo semplice, dovrebbero smantellare Università intere! Invece è il contrario, insegnano a comunicare in modo mirato, ma è un’arte complicata che complica anche i discorsi semplici. Quindi scrivere è complicato, se uno vuole scrivere senza comunicare come vorrei fare io.
– Hai lavorato molto sul concetto di periferia diffusa e di città diffusa.
– Enfatizzavo sulla periferia proprio perché la città non funziona più come termine, rispetto a com’è sempre stata concepita. Quando pensi a una città, pensi a un centro storico che si sviluppa ad anelli. Non è più così da tempo, la città è esplosa, però tu quando pensi alla città inevitabilmente tendi a pensarla, secondo il tuo condizionamento culturale, nei termini di qualcosa che si sviluppa intorno a un centro. Il centro è quello che ti serve per disegnarti in testa la città. Ma come abbiamo visto anche oggi passeggiando, a un certo punto ti dico “qua siamo in centro”, ma il centro non c’è. Per cui viviamo in una grande periferia diffusa, con le sfighe della periferia e senza i vantaggi delle città grandi. Qui si diventa metropoli, perché più o meno la densità degli abitanti c’è, però senza definirla nelle teste, per cui si sviluppa in modo assolutamente caotico.
– E le teste? Quali sono secondo te gli effetti più visibili del vivere una periferia diffusa?
– Che non hai un vero riferimento, culturale innanzitutto. Ci si sposta in assenza di gravità o con delle mini-gravità che non permettono di fare comunità. Tutte le nostre città, Padova, Vicenza, Verona, sono compenetrate nelle periferie, ma siccome purtroppo non ragionano e non ragioneranno mai come una comunità più estesa, ognuno fa per sé. Si è sempre parlato di fare rete, ma in questo territorio sembra abbastanza impossibile. Ci vorrebbe un punto di riferimento forte che non c’é, con tutti i rischi della parola forte, che evoca altre cose, a cui ognuno cede una parte della sua sovranità e pensa il modo di essere in un organismo che di fatto non ha centro.
– La cultura in Veneto, oggi?
– Si organizzano un sacco di cose e si spendono molti soldi, a Vicenza come a Bassano del Grappa, e nulla si può dire, la qualità è alta. Molte iniziative, però mi sembrano… non so… innanzitutto sono apprezzate solo quando cominciano a rendersi conto che muovono dei denari; e poi sono disperse, e anche se a Vicenza succedono tante cose non c’è la percezione di una città viva in questo senso. Ad esempio non c’è una scena teatrale, ma delle entità.
– Quali differenze vedi, cosa è andato perso e cos’è andato acquisito, tra il Veneto in cui sei cresciuto e quello attuale?
– Beh, partirei dalla sparizione delle grandi famiglie. Penso ai miei nonni, che avevano dodici figli, mentre adesso la famiglia, se c’è, è molto più piccola. Dopo c’è un rapporto con la terra che è andato completamente a farsi fottere, rispetto alle persone, anche se poi andando a guardare l’agricoltura rimane un settore grosso, così come in Lombardia. Però… “non ha narrazione”, se non quella economica, ma allora diventa enogastronomia. Lì si è lavorato molto, sono cambiate moltissimo le trattorie. Ti faccio un esempio: ieri sera sono andato a mangiare fuori e ho ordinato una birra, fatta sui colli torinesi o piemontesi, una birra doc che è stata portata con un carrello dentro nel ghiaccio e il cameriere l’ha stappata come fosse una bottiglia di Champagne. Queste procedure non esistevano, e si diffondono in modo capillare. La narrazione del sapore è arrivata anche nella trattoria veneta. Questa cosa prima accadeva in modo naturale e non idealizzato, c’era un rapporto con la terra e quindi con i prodotti. Mio padre e mio nonno stavano vicino al fiume e tra ciò che componeva la loro dieta c’era anche il pesce di fiume, che è scomparso completamente. Adesso la differenza è che vai in una trattoria strutturatissima dove viene spiegato il pesce di fiume e le sue proprietà. Attualmente c’è in atto uno sforzo mostruoso per narrare tutte queste cose che nella vita reale sono scomparse.
– Si fa un gran parlare di recupero delle tradizioni…
– Secondo me le tradizioni quando le interrompi muoiono nel giro di breve. Muore la lingua, perché tutta una serie di cose e attrezzi non ci sono più per cui muoiono nomi, verbi, eccetera. Allora se le fai riferimento devi inventartela, il problema è che lo fanno in un certo modo, e in Veneto pescano su alcuni scrittori in modo un po’ ossessivo, su Meneghello, Stern, adesso c’è Corona, che fa un po’ la variante impazzita di quella che era lo scrittore di montagna, come genere. Il problema è che vengono usati per vari scopi e le cose si recuperano in modo bonario. Il veneto ha un sottile piacere a far commedia di sé, lo diceva Piovene, lo si sente molto anche in Goldoni, e allora oggi si parla del filò, ma non del fatto che quando vivevano in quindici in due stanze gli incesti erano molto frequenti, come tutta una serie di altre cose che sono state rimosse.
– Cosa pensi delle parole di Andrea Zanzotto che, riprendendo un’espressione di Wilhelm Reich, definiva la mentalità veicolata dalla Lega Nord come una “peste emotiva”?
– Trovo che in generale ovunque oggi si tende a calcare apposta sulla grossolanità e sulla parte più popolare, una cosa che si fa anche a livello nazionale, è un modello. D’altra parte riflette anche una parte di questo carattere veneto, il sentirsi poco capiti o poco valutati. Comunque per tornare a quello che diceva Zanzotto trovo che sì, quel sottile piacere a far commedia di sé di cui parlavo, e che può avere anche aspetti divertenti, sarcastici e ironici, quando diventa becero come nel caso dei leghisti è micidiale.