Ed eccomi qui, come ogni martedì pomeriggio, davanti alla grande porta blu metallica. Quasi istintivamente il mio sguardo scivola sui metri di muro e filo spinato per cercare poi velocemente, quasi annaspando, l’azzurro del cielo, le nuvole, il sole. Faccio un respiro e le mie nocche battono con forza contro la porta, facendola risuonare e vibrare all’interno. Si apre. Ormai i nostri visi sono conosciuti e per superare quel primo livello non ci chiedono più di mostrare le carte, basta un cenno.
Salgo i tre scalini di pietra e ad attendermi c’è una delle solite donne dure, arroganti, con gli anfibi e il cappellino rigorosamente neri. Ognuna di loro ha differenti modalità di approcciare il mio corpo. Alcune mi accompagnano silenziose in uno stanzino, altre invece si avvicinano di fretta, senza curarsi troppo del mio imbarazzo. Le loro mani scorrono rapide sulle mie spalle, dentro il reggiseno, sulla pancia, la schiena e le cosce. Nulla di sospetto. Attendo che anche Simone venga perquisito per superare il livello successivo.
Si apre anche la porta a sbarre, ci sediamo sugli scalini di legno e attendiamo. Ogni volta che il portone bianco, l’ultimo, quello che separa noi da loro – presidiato da due guardie impegnate a seguire l’ennesima puntata della telenovela pomeridiana – si apre sul cortile interno, corriamo a sbirciare per vedere se dall’altra parte scorgiamo qualche volto a noi noto. Dall’altoparlante esce una voce squillante che rimbomba nel patio e richiama i diretti interessati al curso de maltrato familiar. Tutti i martedì, quando sento queste quattro parole, mi irrigidisco e penso invece a quanto è stato complesso e coinvolgente decidere, assieme a tutti i partecipanti al laboratorio, che nome dare allo spazio che stavamo creando: Género, Masculinidades y Relaciones de Poder entre los Sexos. Nome che, a quanto pare, la guardia che fa uscire la sua voce dall’altoparlante trova troppo complicato e preferisce riassumere e riadattare, in modo del tutto personale, con maltrattamenti in famiglia.
Finalmente dal portone, aperto giusto quel tanto da farci sgusciare fuori il corpo, escono loro: 1, 2, 3, 4…40 privados de la libertad del carcere di Ibarra. Tutti, dopo essere stati minuziosamente perquisiti, si avvicinano a noi con un sorriso, ci stringono la mano con forza e corrono su, nella capilla, l’unico spazio che l’amministrazione del carcere adibisce, oltre che alla messa domenicale, alle poche attività formative previste.
Quando anche l’ultimo di quelli che stavano in fila al di là del portone inizia a salire i gradini a due a due per raggiungere gli altri, ci incamminiamo anche noi verso la cappella. Entriamo, alcuni di loro sono già corsi alle finestre e stanno con gli occhi socchiusi ad annusare l’aria o a farsi scaldare dal sole, altri schiacciano la fronte sulle sbarre per riuscire a osservare un pezzettino in più di quello che succede fuori, nella calle Salinas, e mentre fischiano per salutare qualche passante condividono, con un filo di voce, frammenti di pensieri: “Guardo fuori e provo nostalgia. Fisso la strada nella speranza passi qualcuno che conosco. Lì fuori c’è un altro mondo. Non riuscirò mai a togliere dalla mia mente questa scena di me che guardo fuori, da qui, dietro le sbarre. Sembra quasi un quadro.” Qualcun altro poggia semplicemente la schiena contro il muro e contempla l’imponenza del Taita Imbabura, la montagna che sovrasta e protegge la città di Ibarra. I più volenterosi, invece, stanno già spostando le panche di legno, posizionate in fila una dietro l’altra per gli incontri precedenti, in maniera circolare.
Se c’è una cosa che abbiamo voluto ribadire con forza la prima volta che abbiamo messo piede in questo luogo è stata anzitutto l’esigenza di costruire uno spazio il più orizzontale possibile, in cui tutti potessero sentirsi accolti, a proprio agio e in cui ognuno fosse libero di esprimere ciò che sente e pensa, senza sentirsi giudicato. Noi, al pari loro, condividiamo le nostre esperienze e conoscenze, cercando di facilitare questo cammino congiunto. Ecco perché l’importanza di spingere tutte le panche verso il fondo e posizionarne al centro, in circolo, giusto quattro, per guardarci sempre negli occhi e imparare a riconoscerci, cominciando dal dare dignità ai nostri nomi.
Come di consuetudine cominciamo con l’appello, presenzia uno dei detenuti incaricato dal personale del carcere di annotare su una lista l’effettiva presenza di tutti gli iscritti. Al termine di ogni corso, infatti, ai partecipanti viene rilasciato un certificato con il quale, se dimostrano di aver tenuto una condotta impeccabile, possono provare a chiedere una riduzione della pena. Simone scandisce i due nomi e i due cognomi di ognuno. Quando pronuncia il nome di D. riecheggia nella stanza un corale: “Se fue libre ahorita!”.
L’incontro vero e proprio inizia come sempre con una dinamica di gruppo, per conoscerci, per scaricare le tensioni e reir un rato, farci quattro risate. L’ultima volta che ci siamo visti i partecipanti si sono divisi in cinque gruppi differenti e hanno messo in scena, con grande entusiasmo e ironia, alcuni frammenti di vita quotidiana da cui le figure della donna e dell’uomo risultavano decisamente stereotipate.
Oggi decidiamo di ripartire da alcune delle riflessioni emerse negli ultimi mesi e nel corso dell’ultimo laboratorio in particolare, provando a identificare assieme alcune delle varie forme sotto cui si può presentare la violenza nella nostra società. I partecipanti si dividono in coppie e rappresentano con il corpo cosa significa per loro la violenza. Tutti, tra una risatina di imbarazzo e una di divertimento, si ritrovano a raffigurare unicamente scene pregne di violenza fisica. Simone e io ci poniamo allora nel centro del cerchio, lui si inginocchia, io lo sovrasto e porto l’indice sulle labbra con fermezza. Si accende immediatamente una vivace discussione tra i partecipanti: zittire qualcuno può essere considerata una forma di violenza? Si creano diverse fazioni, ognuno cerca di argomentare la propria posizione condividendo esperienze e riflessioni personali.
Al termine di tale confronto i partecipanti giungono alla conclusione che mettere a tacere una persona, così come umiliarla, condizionarla o svalorizzarla può decisamente essere considerata una forma di violenza psicologica. Appena si giunge a una conclusione più o meno condivisa ecco però che già si affaccia un altro quesito: e la gelosia allora? In modo molto spontaneo e sincero molti uomini iniziano a indagare le varie sfumature di questo sentimento insidioso cercando di comprenderne, assieme ai compagni, motivazioni e origini. Alcuni, toccati dalla discussione, si spingono più in là, raccontando, non senza nascondere una grande commozione, la loro difficoltà nel gestire i propri sentimenti e le proprie emozioni. Il resto del gruppo, cogliendo la sacralità di quel momento di apertura e condivisione di vulnerabilità e fragilità, cerca di far sentire la propria vicinanza ai compagni offrendo presenza e ascolto.
Cerchiamo sempre di concludere gli incontri chiedendo, a chi se la sente, di condividere il suo stato d’animo, di raccontarci se c’è qualcosa che non lo ha fatto sentire a proprio agio o, in caso contrario, cosa lo ha fatto stare bene: “Qui i giorni sono tutti uguali, non succede mai nulla, uno cerca di far passare il tempo come può, ma ti senti solo. Ci trattano come animali. In carcere nessuno ha amici, conoscenti al massimo, però quando ci sono questi incontri si crea un clima più disteso e, anche se solo per un momento, ci dimentichiamo dell’inferno che ci attende di sotto”. Aspettiamo che gli ultimi, davanti alla finestra, si godano ancora per un po’ la brezza e qualche raggio di sole . “Alla prossima!” gridano, prima di tuffarsi giù per le scale e sparire di nuovo dietro a quel portone pesante.
Si richiudono tutte le porte alle nostre spalle: quella della cappella, quella intermedia a sbarre e infine la grande porta blu metallica. Fuori. Respiriamo. Alziamo la testa e ci godiamo anche noi quello stesso sole. Lo sguardo si abbassa lentamente e si posa su un numeroso gruppo di uomini e donne che schiamazza allegramente proprio davanti al carcere. Le donne hanno capelli neri legati con nastrini colorati, lunghe gonne nero lucido, camicie ricamate, braccialetti e collane di perline fine; gli uomini nascondono sotto i cappelli lunghe trecce corvine, calzano pantaloni bianchi e hanno, come le donne, i piedi avvolti in bassi sandali di tela. Li riconosciamo subito: appartengono alla comunità indigena quichua della zona di Otavalo. Accerchiano un uomo a petto nudo, una donna sbatte con forza un mazzo di erbe contro il suo torso e la sua schiena, ormai visibilmente arrossati. “Silvia! Simone!”.
Ci avviciniamo emozionati, è D. che “se fue libre ahorita!”. Ci sorride e ci spiega che la pianta con cui lo stanno limpiando (purificando) è proprio, come temevo, ortica! La madre, dopo averci presentato tutti i componenti della famiglia, lo incita a spogliarsi. D., divertito, si ripara dagli sguardi curiosi dei passanti nascondendosi dietro ai famigliari, si sfila i vestiti che ha sempre indossato in carcere e li porge alla madre che li caccia rapidamente in un sacco di plastica. Dopo aver staccato con i denti i vari cartellini, la donna porge al figlio vestiti e scarpe nuovi di zecca e con il sorriso negli occhi ci spiega: “Adesso andiamo tutti a casa e questa sera, dopo cena, – dice scuotendo il sacco – nel cortile bruceremo questi vestiti e allontaneremo così, tutti assieme, il dolore di questi anni. D’ora in poi sará tutto nuovo”.
[Questo racconto è apparso sul portale Antenne di Pace il 5 aprile 2018]