di Filippo Casaccia
May your hands always be busy
May your feet always be swift
Qualche giorno prima del Natale 2010 ho passato una mattinata con un amico che non sapevo di avere, tra sigarette e caffè, infreddoliti dall’umidità pungente ma scaldati dal parlare di musica, che per chi ha la nostra età è ancora il modo per conoscersi. Lui era Massimo Priviero, un musicista che magari trovate poco sui giornali perché ha la sacrosanta voglia di non fare il maestrino che dice la sua su tutto e che, nonostante l’ostracismo di certa stampa settaria — ignorante di musica e soprattutto di vita —, ha avuto una carriera ricca di soddisfazioni e dischi belli. Massimo è rimasto nell’intimo quel menestrello che trent’anni fa bazzicava le metropolitane delle capitali europee, chitarra acustica a tracolla e canzoni a memoria, e si accende ancora quando parliamo della Sacra Triade che ci ha fatto vedere la luce (Bob Dylan, John Fogerty, Bruce Springsteen), così come di alcuni Singolari Eccentrici che qui da noi si filano in pochi (Nick Drake, Richard Thompson o la Allman Brothers Band), ma noi no.
Quando è venuto alla ribalta tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, ha provato a suicidarlo una campagna aggressiva della sua casa discografica che lo indicava come l’italico “futuro del rock n’roll”, claim maldestro che ricalcava quello che aveva già rischiato di annientare proprio Springsteen, per dirne uno. E Priviero, in un paese che rifiuta la complessità e preferisce l’immagine, la sensazione e il pettegolezzo, ha rischiato di rimanerne bruciato definitivamente: le riviste e i rockettari presuntuosetti attaccarono l’artista, vittima e non artefice di quel lancio sconclusionato. Se avessero invece ascoltato i dischi senza pregiudizi, forse si sarebbero resi conto. Il musicista di Jesolo, indifferente e forte anche di buone vendite, fece uscire un secondo magnifico disco prodotto niente di meno che da Little Steven, il braccio destro del Boss. Nei dischi successivi la scrittura si affinò ulteriormente: la mancata affermazione globale fu paradossalmente un toccasana e Massimo non venne risucchiato nell’infernale catena disco di inediti/tour/promozione tivù/disco best of/tour celebrativo etc. etc., quella spirale che impoverisce tanti artisti prigionieri del loro successo, costretti alla presenza mediatica anche quando l’ispirazione è venuta a mancare.
Le sue canzoni parlavano e parlano di Nessuna resa mai (titolo anche della bella bio – più esistenziale che musicale – che gli ha dedicato Matteo Strukul), di amori a dispetto della durezza della vita e di resistenza civile in quest’Italia sputtanata e distratta. Nei testi tornano spesso parole come giustizia, libertà e lotta, riecheggiando Mario Rigoni Stern o Nuto Revelli, ma non c’è mai la superficialità dei frettolosi proclami paraideologici che molti santoni poi dimenticano quando cambia il vento. C’è invece la passione di chi la storia l’ha studiata (Priviero è laureato in Storia moderna) e vissuta (per questioni familiari). Nell’aprile 2011 è stato in tour con Daniele Biacchessi e gli immarcescibili Gang dei fratelli Severini per un commovente spettacolo di teatro civile e musica intitolato (e poi pubblicato in Cd) Storie dell’altra Italia, tra Resistenza mortificata, stragi di stato e mafia, perché esiste un unico filo che unisce tutto, purtroppo.
Ma se volete capire quale forza rock sollevi questo autore schivo e profondo dovete ascoltarvi anche Rolling Live, un doppio con dvd del 2010 che vi farà riguadagnare gli anni perduti a chiedervi quale futuro avesse il rock nel nostro paese: tra ritratti dell’Italia confusa di oggi e le poche ma salde certezze del passato, troverete anche una straordinaria versione di Ciao amore ciao di Luigi Tenco, riportata all’originario antimilitarismo del testo.
Ho incontrato Massimo qualche settimana fa. Sta registrando un nuovo album e l’occasione era data dal piacere di vedersi per raccontarsi cos’era accaduto dall’ultima volta. Lui è come sempre timido, all’inizio. Poi, come un diesel, si scalda e parte e non si ferma più. Non è cambiato, anche se la sua vita è cambiata parecchio, e soffre ancora le telefonate di giornalisti cialtroni che lo importunano non per informarsi sul suo ultimo disco ma per ottenere una dichiarazione sui bisticci tra Ligabue e Vasco Rossi (non è un esempio casuale: è successo con un supposto giornalista di un grosso quotidiano e Massimo ha messo giù il telefono). Nel frattempo ha venduto tutte le chitarre elettriche, perché il rock si può fare tranquillamente così, e ha visto anche lui Springsteen a San Siro, a giugno: conveniamo che sia stato come assistere all’attraversamento del mar Rosso da parte di Mosè e compagnia bella: un miracolo (di quasi 4 ore, bis compresi). Prima dell’estate è poi uscito un ottimo album cofirmato insieme al violinista Michele Gazich, Folkrock: un passionale omaggio alle radici musicali su cui i due si sono formati, una rilettura personale emozionante, accompagnata da un bel libretto dove gli autori raccontano i loro esordi professionali.
Intanto il nuovo album è ai ritocchi finali e per evitare ripensamenti dolorosi Massimo si sta astenendo stoicamente dall’ascolto del nuovo Dylan. Un bicchiere di vino, una sigaretta, e siamo di nuovo tutti e due sulla strada, augurandoci di incontrarci ancora presto, magari a San Siro per un altro Boss…
Nei primi anni Novanta un inviato americano di Rolling Stone esplorò il mercato discografico europeo, per concludere che Priviero ed Enzo Avitabile erano gli unici due artisti italiani che potessero affrontare il mercato USA. Jonathan Demme lo ha dimostrato all’ultimo festival di Venezia con un documentario su Enzo. Ora speriamo che di Massimo se ne occupi Martin Scorsese.
Autoritratto di un giovane musicista di strada.
(Tratto per gentile concessione dell’autore dal libro allegato al Cd Folkrock)
di Massimo Priviero
Vivevo una trentina di anni fa, intorno ai miei venti, in un paese di mare dell’alto Adriatico, dove la gente tirava come pazza nei mesi d’estate per poi rifugiarsi, in autunno e in inverno, in proprie esistenze spesso sconnesse, a volte disadattate, quasi sempre costrette a fare i conti con proprie fragilità e con variabili percentuali di riuscire a stare in piedi. Quasi nessun destino era diverso tra quelli di tanti figli di negozianti, di albergatori, di ristoratori di pesce freschissimo. I passi che mi portavano in riva al mare, partendo da casa mia, contati tante volte infinite, non erano mai più di cento. Variavano, ad esser precisi, dalla fretta che potevo avere e dal desiderio che avevo di bagnarmi le scarpe sulla riva, quasi che questo fosse il mio saluto migliore o forse il mio miglior modo per iniziare un discorso da fare da solo. In attesa della risposta, che arrivava dal suono delle onde che rotolavano a riva. Universitario, musicista di strada, rabberciatore di modi adatti a provare a costruire un’esistenza che fosse conseguente ai miei sogni d’adolescente. Innocente trafficante di strade da cercare e di mondi provvisti di ponti individualmente nuovi da costruire. Tutto aveva un senso. Nulla aveva un senso. Tra fughe, contraddizioni e infiniti tramonti, arrivavo a comprendere il meraviglioso regalo che il destino mi aveva fatto. E chiamavo questo regalo, che la mia esistenza ha conservato nello scorrere di tanti anni, col nome di Santa Solitudine. Esattamente. Dunque la capacità, insieme al mio desiderio, di spendere in solitudine parecchio del mio tempo. Anzi, ad essere più precisi, lo chiamerei spesso puro piacere, intendendo quel piacere incommensurabile, che in verità appartiene al destino dei meno, di saper stare da solo. Con emozione o con forza, con lacrime o disperazione, con malinconie o struggimenti, con tasche vuote e mente traboccante di quadri da riempire, con tutto quel che potete immaginare di mettere dentro al cuore di un giovane uomo affamato di vivere. In verità, prima di ogni altra cosa, ero e mi consideravo un ragazzo di vent’anni che iniziava a scrivere la sua storia e che per farlo avrebbe usato la sua chitarra e la sua voce, riempiendo quaderni e righe di musica e di parole di vento. Nulla poteva fermarmi, nessuna montagna che prima o poi avrei saputo scalare, nessun mare in tempesta, di cui per altro ben conoscevo il suono, mi avrebbe impedito di fare il mio viaggio.
Da leggere
Nessuna resa mai – Sulla strada con Massimo Priviero di Matteo Strukul (2010)
Da ascoltare (per cominciare)
Massimo Priviero: Rolling Live (2010)
Gang, Daniele Biacchessi e Massimo Priviero: Storie dell’altra Italia (2012)
Massimo Priviero e Michele Gazich: Folkrock (2012)