di Alessandro Bresolin
[Pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Bresolin al volume di Albert Camus Il futuro della civiltà europea, di prossima uscita presso Castevecchi.]
«L’anno della guerra, dovevo imbarcarmi per rifare il periplo di Ulisse. A quell’epoca, anche un ragazzo povero poteva concepire il sontuoso progetto di attraversare il mare andando incontro alla luce. Ma, allora, ho fatto come tutti. Non mi sono imbarcato. Mi sono messo in fila tra coloro che scalpitavano davanti alla porta aperta dell’inferno». Così nel 1946 Albert Camus ricordava, in Prométhée aux enfers, quell’estate del 1939 in cui voleva avventurarsi in Grecia con degli amici e in cui, invece, il mondo precipitò nel secondo conflitto mondiale. Da molti anni, quindi, sognava d’intraprendere un viaggio nella culla della cultura mediterranea che quel paese rappresentava. Decise di andarci nel 1955, dopo un lungo periodo per lui estremamente delicato e angoscioso dal punto di vista personale, artistico e politico: il suo disamore per quella Parigi frivola e piovosa dove ormai non voleva più abitare, le aspre polemiche intellettuali sull’Uomo in rivolta, la rottura definitiva con Sartre e il suo progressivo isolamento rispetto al mainstream politico-intellettuale francese, la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti e la logica della guerra fredda, la comparsa del Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria con l’inizio di un conflitto che per lui rappresentava la realizzazione dell’incubo di tutta una vita. Lacerato dai dubbi, così si esprimeva con l’amico poeta René Char in una lettera del 7 agosto 1954: «le mando un testo, brutto, perché non so più scrivere […]».
Nel febbraio del 1955 Camus si recò in Algeria, un viaggio che aumentò le sue preoccupazioni, con la politica che cominciava a dividere le amicizie in frontisti e antifrontisti e il dramma del terremoto che qualche mese prima aveva colpito il paese nordafricano. Di ritorno in Francia, riprese a lavorare alla riduzione teatrale del racconto di Dino Buzzati Un caso clinico, che andò in scena il 12 marzo. Quattro giorni dopo, il 16, fu un tragico evento a turbarlo, il suicidio del pittore Nicolas de Staël, presentatogli da René Char. Camus era al limite della depressione e proprio in quell’occasione scrisse una lettera a Char, il 18 marzo 1955, confidando all’amico: «Caro René, non ho dato segni di vita perché, interiormente, sono al limite delle mie forze, e vivo giorno per giorno». Ancora il 26 aprile, giorno in cui doveva partire per Atene, Camus annotò nei suoi Taccuini: «Partenza da Parigi. Afflitto e svuotato d’ogni gioia da X».
Il viaggio in Grecia, dal 26 aprile al 16 maggio, sortì l’effetto catartico desiderato, da subito. Lo si può constatare leggendo i Taccuini, in cui le sue annotazioni passano dalle poche righe laconiche dei mesi precedenti a intere pagine di osservazioni su Atene, Delfi, Sparta, Micene, Salonicco, il Peloponneso, le isole. Rimase estasiato dalla luce, dai colori, dagli odori, dalla natura, dalla socievolezza e dalla mentalità dei greci, così simile a quella che aveva conosciuto in Algeria. Oltre a viaggiare per mare attraverso le isole e a visitare le rovine della Grecia classica, Camus cominciò la sua collaborazione con L’Express, scrivendo un articolo da una Volos distrutta dal terremoto. Si interessò alle deportazioni nell’isola di Makronissos, dando seguito al suo impegno, che nel 1949 l’aveva spinto a sostenere un appello per la liberazione di dieci prigionieri politici greci; non è un caso quindi se negli archivi di Camus è stata trovata una poderosa documentazione su Makronissos e sulle deportazioni.
Progressivamente riprende le forze e a metà viaggio, il 6 maggio, scrive a Jean Grenier, suo ex professore di filosofia: «Avevo bisogno anche della Grecia e di questo senso dello spazio così forte che mi dà. Come un prigioniero, che si ritrova all’improvviso su una nuda montagna che si staglia in cielo aperto. Sì, respiro».
In giro per il paese Camus tenne una serie di conferenze tra cui una dal tema «L’artista e il suo tempo», una intitolata «La tragedia oggi è possibile?» e altre ancora, ma non ne rimangono tracce. L’unico incontro registrato in questo viaggio è quello tenuto il 28 aprile 1955 ad Atene, «Il futuro della civiltà europea», che per noi metaforicamente rappresenta un viaggio nel pensiero di Camus. L’incontro, organizzato dall’Union culturelle gréco-française e presieduto dal professor Catacouzinos, venne pubblicato integralmente nel 1956 dalla Biblioteca dell’Istituto Francese di Atene. Ma ben presto questa pubblicazione cadde nell’oblio. Finché, dimenticati per decenni in uno scatolone all’ambasciata di Francia ad Atene, alcuni esemplari vennero recapitati alla figlia Catherine, che nel 2008 si decise a far inserire il testo nella nuova edizione della Bibliothèque de la Pléiade. Nella Pléiade però è stato pubblicato solo il testo di Camus, mentre sono state tagliate alcune sue risposte brevi, e le domande sono state riassunte in poche righe, rendendo difficoltosa l’analisi del testo. I quattro partecipanti al colloquio erano nomi di spicco nel panorama culturale greco dell’epoca: Euangelos Papanoutsos, filosofo; Georgios Theotokas, scrittore e saggista, rappresentante della generazione dei giovani arrabbiati degli anni ’30 che nel dopoguerra divenne direttore del Teatro Nazionale greco; Phedon Veleris, costituzionalista; Konstantinos Tsatsos, partigiano durante la guerra, che divenne uomo politico “liberale non conservatore” e poi diplomatico. In questa nuova edizione è stata riprodotta l’integralità delle domande e delle risposte, traducendo fedelmente il testo del ’56.
La discussione mostra un Camus interessato al presente, alla sopravvivenza della civiltà europea, prima ancora che al suo futuro. Infatti, dopo due guerre mondiali, constata innanzitutto «la strana sconfitta morale di questa civiltà». Bisogna capire da dove viene questa sconfitta, curare le ferite ancora aperte, prima di guardare oltre. Socialista libertario qual era, Camus credeva nel federalismo europeo e mondiale. Per vincere la pace, era convinto che l’Europa dovesse unirsi da subito in un forte modello federale e non in una tiepida confederazione di Stati che lasciava inalterato quell’anacronismo rappresentato dalle sovranità nazionali, soprattutto in un contesto mondiale segnato dall’internazionalizzazione dell’economia. Perciò, distinguendo tra totalità e unità, indica in un’unione fondata sulla misura e sul rispetto delle diversità l’unica speranza per l’Europa. Camus usava la nozione di misura in modo sistematico e in politica la considerava essenziale per equilibrare e limitare l’un l’altro i due princìpi che tendono fatalmente a cadere in contraddizione, quello di libertà e quello di giustizia. Inoltre, come sostiene in questa conferenza, bisogna tener conto del fatto che «la civiltà europea è innanzitutto una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità degli ideali, degli opposti, dei valori contrastati e della dialettica senza sintesi. La dialettica vivente in Europa è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria e ortodossa».
Perché una civiltà viva, deve rispettare l’individuo. Di conseguenza la difesa del pluralismo sta alla base di un’unità europea rispettosa delle diversità, ma anche di uno sviluppo tecnico e scientifico che non deve atrofizzare lo sviluppo umano e morale.
L’impegno di Camus per il federalismo europeo risale alla guerra e alla Resistenza. Non che prima non si fosse posto questo problema ma, vivendo ad Algeri, l’Europa gli appariva lontana e solo negli anni ’40 assunse la consapevolezza di essere europeo. Mentre la Francia subiva l’occupazione tedesca, aderì al gruppo Combat, politicamente molto vicino al Partito d’Azione italiano, e in clandestinità ne diresse il giornale. Il movimento Combat, fondato da Henry Frenay, una delle principali figure del federalismo proveniente dalla Resistenza, affermava fin dai suoi atti fondativi la necessità di creare una federazione europea, unita sul piano giuridico e politico, per garantire la pace e il progresso economico attraverso una democratizzazione delle istituzioni.
Camus concepiva l’Europa come un’unità geografica e culturale, per questo continuava ad esprimere tutta la sua contrarietà alla divisione del continente in aree di influenza, pur consapevole che la storia stava andando in direzione opposta. Come sosteneva nel ’47, anziché militarizzarsi l’Europa doveva diventare piuttosto «… una società dei popoli libera dai miti della sovranità, una forza rivoluzionaria che non si appoggia sulla polizia e una libertà umana che non sia di fatto asservita al denaro».
L’unificazione europea era vista come una riforma che andava fatta subito, approfittando della debolezza degli Stati nazionali. Invece nei lunghi anni che trascorsero dalla liberazione, nel 1945, al 1957, anno del trattato di Roma, gli Stati si erano riorganizzati e ristrutturati, arrivando ad accordarsi solo per una blanda unione economica europea. Forse anche per questo, dopo gli entusiasmi federalisti del ’44/’48, Camus si allontanò dalla politica europea non commentando nemmeno la notizia del trattato di Roma. La montagna aveva partorito il topolino.
Dal trattato di Roma ad oggi molti passi sono stati fatti, ma di fatto l’Europa è rimasta quella confederazione di Stati sovrani in cui ognuno fa cinicamente la sua politica e porta avanti il proprio sterile patriottismo. Viviamo ancora nell’epoca feudale delle sovranità nazionali. Il processo di unificazione europeo è rimasto un processo monco, non popolare, riservato agli addetti ai lavori e ai banchieri, anziché trasformarsi in quella sinergia creatrice capace di comprendere tutte le sue identità e le sue tradizioni riassunte nella fede nei diritti dell’uomo, nell’incontro solidale e aperto con le altre culture del pianeta. Quindi è ancora attuale quanto dice Camus in questa conferenza, «l’Europa è costretta da una ventina di lacci in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare».