di Mauro Baldrati
I cercatori
Arrivai alla Bassona nel primo pomeriggio di una giornata di fine settembre. La mia R4 aveva tremolato e singhiozzato lungo la strada ghiaiata, ora deserta dopo il traffico caotico di luglio-agosto, quando l’intero percorso era avvolto da una nuvola di polvere per le auto in transito da entrambe le direzioni. In prossimità dell’ultima curva a gomito prima della foce del Piccolo Tamigi c’erano ancora i due cartelli indicatori, montati su paletti infissi al suolo: “Merdonia” e “Zingaropoli”. Li avevano installati i proprietari delle villette abusive, disgustati dall’orda d’oro dickensiana che affollava rumorosamente la foce e la striscia di spiaggia che si stendeva per circa un chilometro in direzione Lido di Dante. Perché la piccola comunità della villettopoli era formata da tipi ordinati, che amavano il decoro, il silenzio e la pulizia. A quei tempi Nicolai Lilin non era ancora pronto per diventare uno sniper (aveva su per giù 7 mesi), ma se fosse già stato operativo li avrebbe definiti “gli abusivi onesti”.
Parcheggiai la R4 a ridosso dell’argine sinistro del fiume, proprio di fronte alle villette. Qualcuno degli umarells era al lavoro nei giardinetti. Si muovevano lenti, spostavano oggetti, strappavano ciuffi d’erba, oppure si fermavano in contemplazione della propria villetta, programmando chissà quali “ciappini” di manutenzione. Allo sbattere delle portiere della mia auto si girarono, mi osservarono incuriositi, forse allarmati: ancora un cittadino di Zingaropoli? Ma non era terminata la stagione? Colsi l’immagine di uno che si girava e scuoteva la testa, facendo “no-no”, con aria rassegnata. Quanta scena. In realtà si divertivano coi pazzoidi seminudi che talvolta si presentavano alle villette per chiedere una bottiglia d’acqua, un pacco di pasta (spesso le scorte della palazzina ristorante terminavano), si mettevano a ballare e a sparare irresistibili cazzate galattiche. Gli umarells li chiamavano “i tarzan”: “Ciò, è venuto uno di quei tarzan” disse uno al vicino di villetta mentre passavo davanti al suo cancello, “che voleva un po’ d’olio, allora ci ho detto: sarà poi meglio che ti do anche due bocce di Lambrusco va là” e giù a ridere. Oppure “i tarzan” mandavano le ragazze, quasi sempre in topless, e quanti sorrisi da orecchio a orecchio ho colto.
Non si vedeva nessun altro. La lingua di spiaggia visibile dalla mia posizione era deserta. Intanto il mio stomaco brontolava. Ero partito al mattino presto da Milano e avevo fatto una sosta a Ravenna, dove c’era ancora la mia banca, per depositare tre milioni di lire. Un altro milione l’avevo in un tascone della tuta, insieme al robusto panino alla mozzarella e pomodoro che mi ero fatto preparare dalla salumiera dell’Esselunga di Via Lorenteggio, che mi faceva sempre dei gran sorrisi. Lo scartai e iniziai a mangiarlo con voluttà. La signora aveva messo anche il pepe, oltre alla giusta dose di sale e origano sulla mozzarella.
L’unica auto parcheggiata, oltre a quelle degli abusivi onesti poste di fronte ai cancelli dei giardinetti, era una Volkswagen sconquassata, col lunotto posteriore crepato, varie ammaccature e la vernice scrostata. Mi avvicinai, col panino in mano. Dentro era una discarica di bottiglie di plastica, lattine, un piatto colmo di cicche, un vecchio giornale strappato. Tra le cicche erano ben visibili numerosi lunghi filtri da joint schiacciati.
Aprii il portellone, controllai il bagaglio: la piccola tenda da motociclista, il sacco a pelo estivo, la borsa con gli effetti personali, la valigetta con le foto di punk jugoslavi che stavo portando a Roma, nella redazione di Gianni Minà fuck you, la rivista nata per gioco come fanzine mod-situazionista per sbertucciare una rassegna sugli anni ’60 organizzata dal simpatico giornalista, e improvvisamente diventata un cult di stili giovanili e di fumetti. Avevano cambiato la stampa in offset e mi avevano proposto di lavorare in redazione. Il viaggio era un’occasione per fare conoscenza, per discutere di alcuni dettagli, soprattutto per decidere, una volta per tutte.
Già decidere. Anche per questo avevo programmato una sosta alla Bassona: il mare, il mio Adriatico amico dei giorni felici di bambino, forse mi avrebbe aiutato a uscire dall’impasse. Il tempo volava, ingoiava i giorni come una macchina mangiasoldi. La mia aspettativa dalla Provincia di Ravenna, dove lavoravo come disegnatore tecnico alla Sezione Urbanistica, sarebbe scaduta dopo quattro mesi. A quel punto dovevo prendere la storica decisione: licenziarmi, per andare avanti col lavoro di fotografo free-lance e redattore di Gianni Minà fuck you, oppure rientrare nei ranghi. In realtà avevo già deciso, e lo sapevo, anche se era una consapevolezza mimetizzata tra le pieghe dell’incertezza, della disapprovazione radicale dei miei genitori, di qualche dubbio della mia fidanzata, e di me stesso: alle spalle avevo una tana calda, un impiego sicuro che mi lasciava abbastanza tempo libero, e mi avrebbe permesso di continuare con la fotografia; di fronte c’era l’ignoto, un trasferimento a Roma con prospettive aleatorie, e un contratto non scritto di collaborazione con una rivista milanese dove l’avvicendarsi di giornalisti e fotografi era continuo.
Mi avviai verso la palazzina, camminando lentamente, a testa bassa, senza togliermi gli anfibi Doc. Martens. La veranda, che si intravedeva mentre mi avvicinavo, era deserta. Nessuna traccia delle feste, dei pranzi, delle cene con le candele alla citronella. Eppure, al di là dei pilastri, nel tratto di sabbia che si stagliava contro la linea turchina del mare, c’era movimento. Mi fermai, aguzzando gli occhi: sì, c’erano persone, teste umane che si alzavano e si abbassavano. Curioso, pensai, ancora gente alla fine di settembre, dopo che il tempo si era guastato e la temperatura si era abbassata. Tutte le tribù si erano dissolte, e i vari componenti erano rientrati alla base, per chi ne aveva una.
Mi avvicinai ancora. Erano in tre, accoccolati sulla spiaggia, impegnati in uno strano lavoro di travaso della sabbia, almeno così sembrava. Quando arrivai alla giusta distanza li riconobbi: l’Apache e la sua banda. Ne mancava uno però, il grassone: un tipo alto due metri per un peso di almeno 200 chili che incuteva una straordinaria soggezione. Entrava sempre per primo negli ambienti, come una sorta di macchina di sfondamento. In realtà era uno tranquillo, taciturno, che non aveva mai creato problemi. Se ne stava in disparte immobile, statuario, come una montagna. Invece il personaggio più ruvido, aggressivo e pericoloso della banda era il piccoletto, che tutti chiamavano Le Criceton (da una traduzione maccheronica in francese di “Criceto”), attaccabrighe perché alle spalle aveva due tipi solidi come il grassone e l’Apache. L’avevo visto un paio di volte in azione: bastava un piccolo scambio di opinioni e subito partiva con una testata. Ci provava, almeno: infatti era così basso di statura che per raggiungere la faccia dell’avversario doveva saltellare, col risultato che le testate non arrivavano quasi mai a segno. Così l’interlocutore, confuso perché non aveva nessuna intenzione di litigare, si trovava con un diavoletto che, senza un vero motivo, si agitava furiosamente sotto il suo naso. L’ultima era la Dona, una ragazza magra, con la pelle del viso rovinata e tirata, seccata dal sole, di età indefinibile perché livellata dall’uso, che non ero mai riuscito a capire se continuato o passato, di eroina.
Erano seduti a triangolo, concentratissimi in un lavoro di setaccio della sabbia. L’Apache e la Dona avevano un vaglio da cercatore d’oro, Le Criceton invece li osservava manipolando qualcosa tra le piccole dita, una pallina scura mi sembrava. Mi girai verso la veranda; c’erano tre sacchi a pelo sopra fogli di cartone, con accanto alcune borse, sacchetti di plastica, bottiglie e un fornellino da campeggio. Dunque erano accampati. Ero stupito, non ricordavo la presenza dell’Apache e della sua banda alla Bassona quell’estate. Era un bene, ovviamente. La presenza attiva dell’Apache avrebbe causato molta inquietudine in chi conosceva la sua storia.
Appena mi vide mi salutò con la consueta cordialità. “Ciao, come stai?” disse sorridendo, con tono affettuoso. Non sapevo neanche se mi aveva riconosciuto, ma non era importante. L’Apache sembrava sempre entusiasta di vedere chiunque, ti faceva sentire come un fratello, una persona importante. Sembrava un tipo mite, educato, un francescano che amava il prossimo come se stesso.
In realtà l’Apache era un pericolo. Un pericolo pubblico. Il Pericolo Pubblico Numero Uno. Se arrivava l’Apache con la sua banda, e la sua presenza si avvertiva perché interagiva con l’ambiente, faceva battute, si intrometteva nei discorsi, allora quell’ambiente era già corrotto e il suo trend in via di esaurimento. L’Apache era un segnale, una cartina al tornasole. Sentiva la crisi, come un avvoltoio che vola in cerchio sull’animale ferito a morte. Ne avevamo avuto la prova due anni prima all’osteria Lady Jane di Faenza. Era un locale che tirava, sempre pieno di musica e di gente proveniente anche da Bologna, da Modena, da Forlì. L’aveva fondata un gruppo di ragazzi in un convento abbandonato, un edificio molto suggestivo con un chiostro invaso dalla vegetazione, affollatissimo di uccelli che cantavano a tutte le ore del giorno e della notte. Per due inverni aveva rappresentato uno dei pochissimi luoghi di ritrovo interessanti di tutta la provincia. Poi arrivò l’Apache. Le Criceton attaccò subito briga con un paio di avventori, mentre l’Apache conversava amabilmente col barista, coi ragazzi dei gruppi musicali, con le ragazze. Quell’inverno la gente iniziò a disertare, le serate languivano, chi entrava trovava la sala semivuota, triste e fredda. Finché un’incursione di ladri causò danni enormi agli arredi, furono rubati il proiettore, l’impianto stereo, gli strumenti, il registratore di cassa, tutte le bottiglie di vino e i liquori, i soldi nel calciobalilla, che fu fatto a pezzi. Così la Lady Jane morì. E nessuno ebbe mai un solo dubbio sul fatto che la banda di ladri corrispondesse con quella dell’Apache.
“Dai, siediti qua con noi” disse l’Apache, cordiale. Si alzò in piedi, agile e scattante. I capelli lunghi biondicci oscillarono, sbattendo sulle spalle. Indossava pantaloni azzurri larghissimi, legati in vita con una corda, e una canottiera, nonostante la temperatura fosse piuttosto rigida. Aveva un fisico potente, bicipiti gonfi, spalle larghe, senza un filo di stomaco, benché fosse noto il suo uso smodato di alcol. A me ricordava Charles Bronson, anche per quell’espressione impenetrabile della faccia larga, di età incerta.
Mi sedetti sulla sabbia, un po’ a disagio per la mia tuta nuova fiammante della Schweizer Luftwaffe, che avevo comprato in un mercatino di Zurigo. Avevo passato dieci giorni in quella città per un servizio fotografico sugli antiquari, chiamato da una rivista del Canton Ticino gemellata con quella milanese che mi commissionava i lavori. Uno sballo, pagavano in contanti senza battere ciglio: 400.000 lire al giorno spese escluse. Alla fine del servizio mi avevano consegnato una busta con quattro milioni. Non riuscivo a crederci.
Osservai con più attenzione il lavoro dell’Apache e della Dona: setacciavano con cura meticolosa la sabbia, finché restavano minuscoli sassolini, schegge di conchiglie, pezzetti di carta o di vetro, e palline scure che raccoglievano con una pinzetta da sopracciglia. Poi la passavano al Criceton, che la applicava alla palla che stava manipolando. Alcune palline erano più grandi, come pillole di antibiotico, allora le raccoglievano con le dita. Allora scoprii il mistero: erano caccolini di hashish. Vagliavano la sabbia nei punti dove la gente preparava le canne, recuperavano le schegge che cadevano durante i rollaggi o il riscaldamento della sostanza.
“Tutta quella roba avete trovato?” chiesi, stupito. La pallina che manipolava Le Criceton a occhio e croce pesava un etto. La Dona annuì soddisfatta. “Per ora sì, meno quello che abbiamo fumato. E dobbiamo ancora setacciare metà della spiaggia.” L’Apache intanto con abili movimenti circolari aveva svuotato il suo setaccio. Nessuna traccia di hashish, ma una moneta da cento lire. “L’anno scorso” disse, col suo tono soave, “siamo rimasti qui fino a tutto ottobre e abbiamo fatto su quasi mezzo chilo”. Le Criceton fece un ghigno. “E trentotto mila lire in monete” disse. “Io ho anche trovato una banconota da dieci” fece la Dona. Beh, in effetti durante la stagione si fumava di continuo, dalla mattina a notte inoltrata. Durante la manipolazione del fumo doveva cadere di tutto. Infatti la palla presentava vari colori, sfumature che andavano dal nero al marrone al rossiccio. I vari tipi di hashish fusi insieme: nero, marocchino, libanese. L’Apache mi rivolse uno dei suoi sorrisi francescani: “A proposito…” e non mi chiamò per nome, perché neanche se lo ricordava, ammesso che lo conoscesse. “Non è che avresti… tipo cinque o sei carte, che dobbiamo fare una spedizione alimentare a Fosso Ghiaia…”. Presi il portafogli e lo aprii con prudenza, cercando di non mostrare neanche un angolino delle banconote da cinquanta e centomila lire che mi avevano dato gli svizzeri. Quella più piccola era da venti. Gliela porsi. L’Apache la sogguardò con occhi luccicanti, prima di strapparmela di mano e porgerla al Criceton. “Bene! Vai e compra dello shampoo, due o tre pacchi di pasta, del ragu in scatola, sigarette, acqua e vino”. Le Criceton fece per alzarsi, ma l’Apache lo bloccò. “Aspetta, prima ci facciamo una fumatina, tanto per gradire”. Posò il setaccio sulla sabbia e da una borsa di tela che aveva di fianco estrasse un oggetto che mi lasciò a bocca aperta: un grande chilum nero, con un serpente in rilievo attorcigliato. Conoscevo quei pezzi, li aveva portati il mio amico Samuel dall’India. L’esemplare che aveva l’Apache era di seconda categoria, lungo una ventina di centimetri con piccoli rubini incastonati negli occhi del serpente. Ne aveva portati cinque, che aveva venduto a ottocentomila lire l’uno. Una cifra enorme, tuttavia aveva piazzati anche tutti gli altri, compresi i tre di prima categoria, con un massiccio Ganesh dalla testa rivestita di madreperla, del costo di un milione, e gli otto di terza categoria, leggermente più piccoli, senza immagini in rilievo, a trecentomila.
Le Criceton con gesti svelti spaccò una sigaretta, versando il tabacco nel fondo del setaccio della Dona, poi iniziò a scaldare un lembo della pallina. “Prendi dalla parte del nero” disse l’Apache, “è Manali di prima qualità.” Le Criceton eseguì. Scaldò una quantità enorme di fumo, che mescolò al tabacco. Poi riempi il chilum, che finì di pressare col filtro della sigaretta. Intanto la Dona si sfilò il foulard indiano, che sarebbe stato usato come safi filtrante, applicato alla base del chilum. Come avevo previsto, l’accensione avvenne con un accendino. I puristi non l’avrebbero mai fatto, specialmente con un pezzo come quello. L’accensione doveva avvenire esclusivamente con due fiammiferi di legno, tenuti a una distanza di circa mezzo centimetro l’uno dall’altro. Così tutta la superficie della miscela iniziava la combustione in maniera uniforme.
Mentre aspiravo una boccata pantagruelica, assaporando il fumo fresco, fragrante, che solo quei chilum creati con un’argilla speciale indiana sapevano restituire, pensai che era escluso che l’Apache avesse speso ottocento mila lire. Doveva averlo rubato. Già, ma a chi? E come? Mi riproposi di telefonare a Samuel, un giorno o l’altro, e parlando in codice, perché era paranoico oltre ogni immaginazione, cercare di capire chi aveva subito un furto, se lui o uno degli acquirenti.
Alla seconda boccata ero già steso. Non avevo più fumato dalla fine della stagione. Ne mancavano almeno altre due per finire il giro. Non potevo farcela. Per di più non volevo sballarmi fino al punto di abbassare le difese. Sapevo che l’Apache non aveva limiti. Gli avevo allungato un venti senza fiatare, forse avrebbe voluto approfondire. Dissi che avevo un mal di testa feroce. Lui ribatté che il Manali era la cura migliore. Dissi che mi sentivo a pezzi, che volevo riposarmi, li ringraziavo e sarei andato a stendermi un po’ in spiaggia. Intanto la Dona continuava a chiedermi chi era il tipo che avevo attaccato alla tuta. Era un badge che avevo acquistato a Lubiana, con la faccia di Lenin. Le spiegai che era un rivoluzionario russo, uno che voleva garantire una casa e un lavoro a tutti. Le Criceton alzò un sopracciglio e mi guardò con un occhio chiuso e uno aperto che sprizzava cattiveria: “Un lavoro?” esclamò, prima di chiuderli entrambi, come accecato da uno schizzo di limone.
Quella notte mi sentivo davvero a pezzi. Mi coricai verso le 11,30, senza avere neanche passeggiato sulla spiaggia. E non avevo meditato un solo minuto. Mi ero fatto risucchiare da quella spirale delle fumate, un chilum che tirava l’altro, le boccate a pieni polmoni che sparavano il thc direttamente nelle sinapsi. Fumate, chiacchiere a vuoto, pigrizia, di nuovo fumate, inedia, nel tempo sospeso. Faticavo a prendere sonno. L’ultima era di marocchino, forse 0-0 o addirittura Sputnik, che accelerava il battito cardiaco e faceva spalancare gli occhi come fanali. Mi sentivo in preda a una specie di febbre cerebrale. Pensavo ai servizi fotografici, al trasferimento a Roma, all’ufficio della provincia, tutto in un turbine caotico, contraddittorio, violento. Mi giravo e sospiravo, nella piccola tenda da motociclista che avevo piantato all’inizio della spiaggia. Non c’era nessuno, oltre a me e alla banda dell’Apache. La cosa non mi piaceva per niente.
Quando forse mi ero assopito sentii un trambusto fuori dalla tenda. Mi sollevai su un gomito, restando in ascolto. Sì, c’era qualcuno che pestava sulla sabbia, che respirava e tossiva. Dopo qualche secondo la lampo si aprì. Il cuore mi salì in gola, mentre cercavo il mazzuolo di gomma che usavo per piantare i picchetti, inutile nella sabbia, che avevo tra l’altro lasciato fuori. “Ehi” disse la voce rauca e impastata della Dona. La sua testa in controluce si stagliò nel triangolo dell’apertura. “Ehi” ripeté. Non dissi nulla, aprii il sacco a pelo e cercai di uscire senza sbattere con la testa sulla cuspide della tenda. C’era l’Apache dietro di lei? “Senti…” disse la Dona, con cadenza lenta, un po’ strascicata. “Non è che… per caso… hai bisogno di compagnia?”. Non capii subito la domanda. Rimasi imbambolato, con la mente ancora confusa. Poi cercai di aguzzare gli occhi, per capire se alle sue spalle c’erano l’Apache e il Criceton. La luce della luna illuminava la spiaggia, che appariva deserta. La Dona era in ombra, ma riuscivo a distinguere i lineamenti. Improvvisamente con la luminosità lattea che si insinuava tra i capelli arruffati mi apparve una strega orribile, minacciosa, con gli occhi come tizzoni, i canini affilati pronti a sgozzarmi. “Ti farei compagnia per… venti carte, dai”. Una pausa. “Anche dieci, se vuoi”. Mi scossi di colpo, inspirai a fondo. Dovevo fare sparire quell’essere, subito. “No… grazie, scusa ma vorrei dormire”. La Dona non replicò. Restò immobile, in silenzio, per un tempo lunghissimo, poi bofonchiò un “va bene” o qualcosa del genere, e se andò senza richiudere la lampo. Mi arrivò una zaffata di fumo di sigaretta. Stava fumando, e la brace della sigaretta mi era sembrato uno dei suoi occhi infernali.
Ricaddi sul sacco a pelo, ma il cuore mi martellava nelle tempie. Non avrei più chiuso occhio, su questo non c’erano dubbi. L’Apache avrebbe potuto sorprendermi nel sonno. Mi chiesi se avrebbe potuto tagliarmi la gola, rubarmi tutto e seppellirmi nella pineta. Decisi che sì, avrebbe potuto farlo senza alcun problema, anche se probabilmente non l’avrebbe fatto. Ma perché probabilmente? Perché si trattava di me, e noi ci sentiamo intoccabili, sempre al riparo da tutto, protetti? Invece avrebbe veramente potuto farlo, se avesse saputo che avevo un milione in contanti nel portafogli. Chi mi avrebbe trovato nel cuore della pineta? Bastava fare sparire la mia auto, portarla a cinquanta chilometri più a nord, o a sud.
Uscii dalla tenda, rabbrividendo per l’umidità. Guardai l’orologio: le due e cinque. Quella pazza della Dona, venire a svegliarmi a quell’ora. Mi rivestii in fretta, calzai gli anfibi e pensai di smontare la tenda, arrotolare il sacco e andarmene. Avrei viaggiato di notte, e se il sonno mi avesse aggredito mi sarei fermato in un autogrill per schiacciare un pisolino.
Accesi una sigaretta, mi stirai. La luce della luna era intensa e diffusa, si vedeva chiaramente la spiaggia. Avevo la visuale aperta, illuminata, sotto controllo. Potevo combattere la paranoia di un’aggressione omicida dell’Apache. Decisi di concedermi una passeggiata, per svegliarmi un po’.
Mi avviai verso Lido di Dante, girandomi frequentemente per controllare la spiaggia alle mie spalle. Le sagome delle capanne di rami erano spettrali, con gli interni bui, le ombre nere come l’inchiostro. Alla mia destra il mare sciabordava dolcemente, e questo mi dava sicurezza. Mi tranquillizzava il suo moto ondoso regolare, accattivante. A sinistra, sullo sfondo, si allungava la linea cupa, misteriosa e impenetrabile della pineta. I totem piantati nella sabbia, tronchi lavorati pazientemente, per giorni, coi coltelli, le lime e la carta vetrata, potevano essere dei demoni che mi fissavano, oppure dei semplici tronchi scolpiti. Decisi per la seconda.
Quando arrivai alla nostra vecchia postazione mi fermai. Dietro la piccola palizzata di rami legati con stringhe di cuoio (c’era una straordinaria cura per i dettagli, alcune delle stringhe erano anche state intarsiate coi coltelli), erano piantate le tende. La nostra, di me e della Ele, la mia fidanzata, era leggermente arretrata, verso la duna. Di fianco c’era quella di Samuel, che dormiva col cane Zoziz (una traslazione al maschile di “salsiccia”, in romagnolo zuzeza), il figlio del mitico Diamante, il cane-fenomeno di Boldini, l’Imperatore della Bassona.
Mi avvicinai alla palizzata, scrutai la sabbia. Qui io e la Ele avevamo passato una notte insonni, una notte di luna come quella, durante la quale ci eravamo confessati i nostri sogni. Io le avevo spiegato la mia situazione, la mia indecisione. Le avevo detto che sognavo di emigrare a Londra per lavorare a The Face, la mia rivista ideale, così vivace, coraggiosa, anticonformista in confronto alle riviste conservatrici italiane. Dopo circa un anno di apprendistato e la formazione di un book adeguato mi sarei trasferito a Los Angeles per lavorare nel mondo del cinema, come ritrattista delle star. Le dive e i divi cambiavano continuamente e le loro foto erano richiestissime in tutto il mondo. Potevo farcela, un amico di Amsterdam che aveva vissuto a lungo a Londra poteva aiutarmi a trovare una casa. Potevo farcela perdio, il fotografo americano che ritraeva le attrici e gli attori era di una banalità sconcertante. Non riuscii a confessare alla Ele che sognavo di diventare un fotografo famoso, ricco, che i direttori dei giornali tipo Vogue America supplicavano per averlo tra i collaboratori; che sognavo di abitare in un grande loft e di avere un numero incalcolabile di amanti bellissime, attrici, modelle. Non glielo confessai apertamente ma non era necessario: il non detto, la parte più importante, era già tutta nelle parole dette. La Ele, dopo un lungo silenzio e una canna lasciata spegnere tra le dita mi confessò che lei invece sognava di stabilizzare il suo lavoro, di lasciare Milano dove lavorava in una sede distaccata della sua banca, di tornare finalmente a Ravenna, acquistare una villetta vicino al mare e andare a viverci. E di fare almeno un figlio. Con me. Lo disse senza staccare gli occhi dal mare.
Cercai l’impronta dei nostri corpi sulla sabbia, forse la trovai. Mi sedetti con la schiena appoggiata alla palizzata. Chiusi gli occhi. Immaginai di sentire i suoni, le voci, la musica che usciva dal gigantesco portatile di Boldini. Cercai di vedere la gente che passeggiava sulla sabbia, davanti alla nostra postazione. Samuel che camminava dinoccolato verso il mare. L’Imperatore Boldini col suo paggio, e la splendida Betta, la sua fidanzata. Tutti, seduti in cerchio, stesi sulla sabbia, a goderci il sole.
Perché intorno a quella palizzata c’era la più grande e variegata tribù della Bassona.
La mia tribù.