di Alberto Prunetti
[Si propone al lettore l’introduzione a La canzone del barrio, un’antologia di poesie e racconti del poeta argentino Evaristo Carriego (1883-1912), assieme a uno scritto di Jean Fajean che analizza il tango “A Evaristo Carriego” nell’interpretazione di Pugliese e Piazzolla] A.P.
Per il lettore italiano “Evaristo Carriego” è solo il titolo di un capolavoro di Borges. Come curatore di “La canzone del barrio”, volevo provare a restituire a Carriego le sue parole. Solo che, come mi faceva notare Jean Fajean – esperto di critica radicale applicata alla milonga e postfatore del volume con un’esemplare analisi del tango interpretato da Pugliese e Piazzolla, intitolato “A Evaristo Carriego” – quando Borges scrive di qualcuno, questi diventa immediatamente un suo personaggio: difficile portarglielo via. Ci si può provare, ma alla fine vince sempre lui. Il lettore potrà facilmente verificare che la scelta delle poesie di Carriego inserite nelle pagine che seguono è stata fatalmente operata secondo i criteri stabiliti dall’autore della “Storia universale dell’infamia”. Solo con i racconti, ignorati da Borges perché postumi o più probabilmente per la loro qualità molto stereotipa, siamo riusciti a riportare Carriego fuori dal labirinto borgesiano. Ma a che prezzo: la qualità letteraria è bassa e sopravvive solo l’ambientazione di quel mondo di sartine e barrocciai, di guappi e uomini di malaffare che sarà il milieu in cui nasce e si radica il tango, prima che diventi un fattore di costume, sfruttabile commercialmente.
In breve, le poesie selezionate, quelle che restituiscono la voce migliore di Evaristo Carriego, sono quelle tratte da “El alma del suburbio” e dalla raccolta postume de l”a cancion del barrio”. Non poteva mancare un poema in lunfardo e una poesia della serie della “costurerita”, che tanto è radicata nella memoria popolare argentina. I racconti postumi sono decisamente meno intriganti delle poesie: la lezione morale ha sostituito qui la descrizione delle trame del quartiere periferico, col risultato di appannare la vivacità della rappresentazione. Ma il cultore del tango delle origini non potrà non riconoscere in queste pagine i patios in cui le chitarre sono suonate come pretesto per una rissa, le strade ancora fangose di Palermo, i conventillos con le sartine tisiche e il gusto criollo per la sfida. Le pagine che seguono sono un omaggio a quel mondo ormai scomparso, che oggi è diventato una meta di turismo del Tangobusiness, infarcito di onori e riverito come patrimonio mondiale dell’umanità.
A Evaristo Carriego
di Jean Fajean
Di ballerini che si esibiscono sulla musica di A Evaristo Carriego, nella versione di Pugliese, ce ne sono di più che al mondo gomme lisce e chiavi perse. Lo dice un vecchio blues per gli amori andati a male, ma va bene anche per questi estenuanti fautori della divisione del lavoro: loro sfoggiano i turbamenti coreografici del caso e il pubblico sbadiglia di commozione. A Evaristo Carriego è un tango che mette tutti quanti d’accordo, persino i portabagagli dell’apilado con gli smanaccioni del nuevo. Del resto, ogni qual volta sui nostri impiantiti si affaccia una possibilità di bellezza, costoro reagiscono assestandoci una rigorosa, o almeno scomoda, bruttezza. Credono così di salvare lo stile. Ma come non avvertire il paradosso: in tutte le milonghe terrene la tanda di Pugliese non è che il modo più diffuso per sparecchiare la pista; eppure, già all’arpeggio di piano gli sparecchiati scattano di nuovo sull’attenti come se fosse entrato un colonnello o un ospite d’onore. Di quale automatismo sono alla mercé? Perché questo tango risuona nei loro cuori tolemaici come un must che non bisogna perdersi? Per quel che mi riguarda, do ragione a Charles Mingus: la melodia ti arriva direttamente dagli dei, o da chi fa le loro veci. Quella di A Evaristo Carriego, come quella di Good-bye pork pie hat, è perciò una specie di regalia celeste: una caparra, più che una promessa, di grazia e di redenzione. Quanti di noi ostinati inquilini dell’aldiquà sapranno meritare il conguaglio, è però tutto un altro paio di maniche. Eccovi intanto alcune note sulla sua fortuna.
La única vez que se acordò Evaristo Carriego del tango, fué para verle felicidad
Jorge Luis Borges, 1927
Infine non si chiede molto altro, solo di entrare in qualche più alta, più grande canzone.
Tiziano Rossi, 1993
A Evaristo Carriego appartiene a quel genere di musica che i capoccioni dell’industria discografica chiamano sob-stuff, roba da singhiozzi, da tirar fuori i fazzoletti. Ma le sue origini sono tutt’altro che piagnucolose; epiche, semmai. Vediamole.
Nel 1934, il poeta e giornalista argentino Raùl Gonzalez-Tuñón, esiliatosi in Spagna per sfuggire alle infamie della Decade Infame, scrive La Rosa Blindada, un poema che celebra l’eroica insurrezione dei minatori delle Asturie. Il titolo gli viene ispirato dal procedimento elettrolitico con cui uno dei Siete Locos di Roberto Arlt crea una rosa metallurgica. Quasi trenta anni dopo, un altro anarchico argentino di nome José Luis Mangieri fonda una casa editrice e una rivista che portano lo stesso titolo, in omaggio alla flora corazzata di Tuñón. Finché può, e cioè fino a quando non viene chiusa con la forza dalla dittatura nel 1966, La Rosa Blindada pubblica testi militanti, di Mao Tse Tung, Che Guevara, il generale Giap, e interventi non meno impegnati di poeti come Juan Gelman e cineasti come Pino Solanas. Anche in Argentina gli anni 60 stanno cambiando tutto: costume, arte, politica e, naturalmente, il tango.
Naturalmente ma fino a un certo punto: pochi sono i posti dove gli innovatori possono suonare e ancor meno i discografici che danno loro fiducia. Piazzolla ce ne ha raccontate delle belle in proposito. Nel 1964, per poter incidere la sua musica, il bandoneonista e compositore Eduardo Rovira deve persino rassegnarsi a rilasciare dischi di folklore ballabile, sotto il falso nome di Cuarteto Lorenzo. Ma, nello stesso 1964, proprio la Rosa sbocciata tra i dinamitardi asturiani, attraverso il produttore matricolato Alfredo Dupuy, gli offre la possibilità di un disco con quattro tanghi originali – quattro e non tre come incredibilmente si dice nel suo sito postumo – dedicati ad altrettanti scrittori irregolari: Roberto Arlt, Luis Luchi, José Ingenieros e Evaristo Carriego, tutti preceduti da una riconoscente A. Prego notare che quelli che allora erano considerati dei sediziosi intendevano invece fondare il tango nuovo sulla tradizione: una tradizione contrapposta a quella ufficiale, ma pur sempre qualcosa che ci si cerca e ci si sceglie.
L’A Evaristo Carriego originale viene inciso in trio, con Rovira al bandoneòn, Rodolfo Alchourron alla chitarra elettrica e Fernando Romano al contrabbasso. E’ un tango in tre parti, a velocità alternate, come si usava allora: in questo caso, lento veloce e lento. La parte veloce è una variazione barocca che poco ha a che vedere con il toccante tema iniziale e molto con la prosa magniloquente dei sobborghi cantati da Carriego. Il sobborgo, dice Borges, attinge il proprio folklore dall’Avenida Corrientes, ma l’esprime con parole sue. In base a questo viavai municipale, il pezzo di Rovira sarebbe soltanto un ossequio letterario al barrio delle Messe Eretiche, teatro di amori tra sartine e barrocciai e appena sorvolato da qualche timido pipistrello baudelairiano.
I tempi però sono cambiati, tanto che in A Evaristo Carriego si riverberano piuttosto la tensione e il crudo disincanto della realtà, così come li percepiscono le moderne periferie urbane. Per questo il suo lirismo tagliente viene subito raccolto dai molti giovani musicisti che ne condividono presupposti e sede sociale. Il Trio Cedrón Praino Stroscio, ad esempio, non solo riprende tre quarti del disco della Rosa Blindada, ma chiude il cerchio mettendo in musica anche le poesie di Raùl Gonzalez-Tuñón. Questi sono i padri che i giovani arrabbiati si sono scelti.
In particolare il bandoneonista César Stroscio, che di Rovira è amico e fiancheggiatore della prima ora, diventa negli anni il miglior interprete della sua musica. Incide più volte A Evaristo Carriego, sia nell’arrangiamento autografo che in versione personale. Recentemente ne ha dato anche una parafrasi per bandoneòn, chitarra e orchestra d’archi, in cui fonde mirabilmente fantasticheria e attaccamento alla causa.
Per la creazione di Osvaldo Pugliese, poiché di vera creazione si tratta, bisogna invece aspettare il 1969. Le sue circostanze riflettono il clima di quegli anni turbolenti. Nel 1968, infatti, il sessantatreenne Pugliese era rimasto senza orchestra per l’improvvisa defezione di suoi sei solisti storici. Ma il Viejo, temprato da ben altre persecuzioni, aveva rimediato allo sbandamento ingaggiando una promettente banda di giovinastri. La prima prova discografica della nuova formazione è il generoso vinile Odeon 82229 che contiene, oltre a Carriego, almeno un’altra pietra miliare, El Marne, e una vice-pietra come Bando di Astor Piazzolla.
Non si creda però che l’attenzione di Pugliese verso gli eretici Rovira e Piazzolla derivi dalla recente immissione di forze fresche: di Astor già nel 1956 aveva introdotto Marron y Azul e addirittura nel 1961, pressoché in tempo reale al suo debutto discografico, Adios Nonino. E in repertorio ha anche Ciudad Triste di Osvaldo Tarantino e Simple di Osvaldo Manzi.
La trasfigurazione di A Evaristo Carriego è esemplare. Pugliese ne fa entrare il tema da sotto la porta, lo aggancia a uno di quei suoi tipici vettori ritmici, lo intreccia con un secondo tema inventato di sana pianta e porta entrambi al parossismo. La tensione è trattenuta a stento fino al dirupo finale, un ultimo spasimo e poi la liberazione. Ecco la felicità che Evaristo Carriego, primo spettatore del barrio, vide nel tango quell’unica volta che se ne ricordò. Le sue sartine, i suoi barrocciai, perfino i suoi buffi compadritos, sono ora i proletari che vivono e si innamorano sotto i cieli agri di questa inaspettata Buenos Aires industriale. Duri, incattiviti forse, di sicuro poco propensi al sentimentalismo, ma ancora capaci di slancio e bellezza non appena si dia loro un’occasione di riscatto: e questa lo è!
La resa acustica della sincerità del barrio contemporaneo, dove più forte si odono gli stridori della storia e quindi più dolci sembrano i trucchi dell’amore, non è un miracolo casuale di San Pugliese: egli è semmai l’imbattibile catalizzatore dell’energia di quei giovinastri, dei loro ideali, delle loro spinte libertarie. La variazione finale del suo Carriego, che sopprime e sostituisce quella tutto sommato frivola di Rovira, la assegna come un compitino in classe alla calligrafia facinorosa del suo bandoneonista Daniel Binelli. E il suo contrabbasso lo suona, guarda guarda, quel Fernando Romano della prima incisione di Rovira. Il risultato è un tango definitivo: il perfetto, meraviglioso A Evaristo Carriego, oggi venerato fino al monoteismo.
Pugliese lo incide altre due volte, caso raro nella sua discografia, dopo la pausa prudenziale dovuta al terrore di Stato: nel 1985, dal vivo al Teatro Colón, e nel 1989, sempre dal vivo al Teatro Carrè di Amsterdam, accanto ad un Astor Piazzolla allibito da tanta potenza.
Nella sua qualità di nuovo classico, A Evaristo Carriego entra con quel che ha indosso nei repertori di molte orchestre, a cominciare da Color Tango, i cui musicisti sono dapprima fuoriusciti di Pugliese e poi accaniti continuatori del suo stile. Quello che l’orchestra diretta da Roberto Alvarez registra nel 1997, pur non eguagliando l’intensità delle precedenti esecuzioni live con i soli di violino incastonati da Carlos Piccione e da Fernando Rodriguez, rimane di gran lunga il miglior Carriego supplente.
Seguono molto distanziate la versione rimbombante di Forever Tango, con piano elettronico e sintetizzatore, quella squadrata e sanremese dei Boston Pops, quella insolentemente fallosa dell’orchestra TangoVia. Ma tant’è… questa è la deontologia delle molte cover-bands che in A Evaristo Carriego cercano solo il plusvalore generato dalla moda. Meno male che le rose resistono. Specialmente quelle blindate.
Ciò che i teologi cattolici avrebbero chiamato transustanziazione di A Evaristo Carriego, si produce per la prima volta in pubblico nel marzo 1996. Prodigio non appurato da quella remota cristianità è che a dare corpo e sangue alla musica in questo caso sono due terrestri. Una transustanziazione lunfarda dunque, al revés; grazie alla quale, la missione affidataci dalla parabola cassidica citata dal Moplo può dirsi compiuta: “abbiamo fatto vedere al Padre che i suoi bambini sanno danzare anche al buio”. Anzi: con la coreografia di A Evaristo Carriego di Mariachiara Michieli e Alejandro Aquino, al Padre abbiamo fatto vedere anche di più.
Le premesse risalgono ad anni lontani, al racconto di una “dura e calda felicità” scritto da Julio Cortàzar nel 1949 e messo in scena dalla Compañia Tangueros in Milonga Boulevard nel 1996. Le Porte Del Cielo, questo il titolo del racconto, narra la drammatica storia d’amore di Mauro e Celina, un Giulietta e Romeo senza balconi e intermittenti veleni, ambientato tra i “mostri” delle classi subalterne: in primo luogo operai, piccoli commercianti e milongueros.
Ci sono tutti i temi cari a Carriego: il barrio, il patio, i buoni vicini, i balli festivi e persino le veglie funebri; la differenza è che ora, per dirla con le parole troppo rinfacciate a Cortàzar, “il fragore del bombo disturba l’ascolto dei quartetti di Bartók”. La vita di periferia, la vita ai margini della vita, sta guadagnando centralità nell’Argentina di Perón; i sottomessi di sempre vi osano alzare la testa. E’ orrendo populismo, certo; ma le emozioni di questo popolo da niente, espresse nella parlata, nella musica, nella danza, sono così violente e vere che anche Cortàzar, a quaranta anni dalla morte di Carriego, deve metterle per iscritto. E in un libro chiamato Bestiario, il folto sentire di questa esorbitanza non può essere che animalesco.
Solo che il tango, specie quello di Pugliese, non è un bombo, e l’evoluto tango-salón di questi anni, specie quello di Antonio Todaro, è tutto fuorché animalesco. Lo si vede bene alcuni decenni più tardi, quando Mariachiara e Alejandro, eredi diretti di quei due grandi creatori, scelgono A Evaristo Carriego per il tema d’amore di Mauro e Celina. Del resto, lo hanno già scelto per il proprio. Molte e senza misura sono infatti le notti che hanno passato a ballarlo nella loro stanzetta di Congreso, a visualizzarne ogni dettaglio, a incarnarne ogni nota. Cosicché, quando lucente di manifattura si dà a vedere in pubblico teatro, la coreografia è in realtà l’esito di un processo che dura da quasi dieci anni: da quando, cioè, A Evaristo Carriego in persona ha avocato per competenza territoriale Mariachiara a Buenos Aires. Attenzione però: la ricchezza della coreografia non scaturisce dall’affinità delle vicende o dalla concordanza delle colonne sonore. Mariachiara e Alejandro non dicono come Flaubert: Mauro e Celina c’est nous! Ma, più significativamente, ne ballano i sogni e le aspirazioni, danno corpo a quel qualcosa che non è visibile, entrano in definitiva “in una più alta e più grande canzone”. Danzare per loro vuol dire sognare in un’altra lingua, e, nello stesso tempo, dare alla musica quel senso di vita vissuta senza il quale tutto il tango, anche A Evaristo Carriego, non è che intrattenimento o, peggio, una più fraudolenta simulazione.
Il debutto in società del primo Carriego ballato della storia, avviene all’Arena Del Sole di Bologna, con la musica dal vivo dell’Orchestra Color Tango. La scena è una milonga vuota, tra pile di sedie abbandonate e fondali rossi di lontani incendi. Rossi sono anche il vestito di Celina, il batticuore di Mauro e il fuoco sempre più vicino; rosso è il sangue che sta per confondersi.
L’ebbrezza tecnica di Mariachiara e Alejandro è manifesta fin dallo stupefacente dispositivo iniziale che scompone e ricompone, in rima baciata con la musica, i due corpi in uno solo. E’ o non è sempre stata quella del corpo glorioso l’incantevole meta del tango? Ebbene, eccola qui, finalmente possibile. Questo tango squassa e redime le piccole cose degli uomini, mentre dentro e intorno a loro tutto brucia. Riecco La Canción del Barrio feroce eppure solidale, il destino di stelle contrarie, le barricate di coriandoli dell’umana commediola. Violini e bandoneones si intrecciano e si annodano come i nostri ricamati amori, nell’antica emozione del fluire insieme, nella “messa eretica” del fondersi in un corpo solo.
Non c’è che dire: la leggerezza vellutata di questi passi terreni, la grazia integralmente umana delle sospensioni aeree e delle elevazioni, la corporeità fastosa delle movenze, sono una bella rivincita per l’aldiquà. Questa terra, caro Padre, è l’unico posto dove vogliamo essere subito vivi e veri. E allora siano lodate finanche le nostre superfici, la gravità dolorosa del filo a piombo, il suolo cui tendiamo senza gemere. Pur schiacciati e accecati, pur annaspando nel buio del tuo immenso coperchio di ori e di smalti, i “tuoi bambini” sono ancora capaci di estasi.
Perlomeno di tanto in tanto: in questo caso una trentina di volte. L’11 agosto 1996, notte fatalmente di Santa Chiara, Mariachiara e Alejandro ballano l’ultimo A Evaristo Carriego prima dello strappo definitivo. Da allora Mariachiara non ha più voluto ballare in palcoscenico: troppa distanza separa l’orgoglioso splendore del suo tango dal bel prodottino in voga da qualche anno a questa parte. Grande è l’entusiasmo per il tango oggi a Cialtronia e illimitate sono le retrovie dove persino la gramigna trova mestiere e medagliette. Ma l’avamposto di Mariachiara e Alejandro continua a resistere, a essere l’altrove e l’altrimenti. Tra merci e macerie, sterpi e lamiere fumanti, il loro A Evaristo Carriego svetta ancora, dopo undici e passa anni, come il gonfalone di imprendibili assediati.
Al confronto di tanta bellezza, tutte le coreografie di A Evaristo Carriego che si susseguono sembrano avere per titolo uno studio di Liszt: Ridda di gnomi. Nella calca di ballerini sperduti nel capolavoro, numerosi sono i semplicemente loffi o manchevoli. Tanto vale ricordare soltanto la versione più incresciosa e miscast, che è quella di Carlos Gavito & Partners. Il celeberrimo milonguero, delle cui qualità ci si accorge prima a Broadway che alla milonga, debutta a New York con Forever Tango nel maggio 1997, quando ha da poco compiuto cinquantacinque anni. Un’età non estremistica se si pensa al semi-novecentesco Pibe Palermo – soprannominato El Dividido, il Diviso: dalla cintola in su, abbraccio moderno; dalla cintola in giù, Novecento – o ai più recenti Juan Carlos Copes, Tete Rusconi, Pepito Avellaneda, ballerini di ben altro spessore e importanza, nati tutti intorno al 1930 e tutti ugualmente presenti in palcoscenico nello stesso periodo.
Ora, il bello della danza, e del tango in particolare, è che l’azione, le trame e le scenografie giacciono latenti nella musica. Qui dentro c’è tutto il malloppo: “oscure ricchezze, dove con il trallallà c’è il precipizio”, dice ancora Tiziano Rossi. Con il suo gesto apparentemente inspiegabile, il ballerino rende visibile, cioè “spiega”, la musica, così come il prisma fa vedere, cioè “spiega”, la luce.
E che cosa rende visibile dell’epos di A Evaristo Carriego il prismatico Gavito che tanto si è documentato sul cantore di Palermo Viejo e che ha letto e riletto i poeti lunfardi? Che cosa ci fa vedere delle piaghe e degli struggimenti del barrio indomabile questo alfiere della cultura popolare? Ma è ovvio: la scenetta sexy, il flirt, il pissi-pissi, le effusioni magari non autorizzate ma ugualmente plausibili tra due adulti la cui differenza d’età non è certo scoscesa. Insomma, il classico numero di tango che da anni viene propinato ai clienti di night-club, cabaret, music-hall, casinò, navi in crociera, cena-show, alberghi, villaggi turistici e purtroppo ora anche teatri in tutto il mondo. Il birignao standard, il “bagaglio” di ogni caratterista di varietà tanguero a cui meglio si attaglierebbe il tango brillantato di Julio Iglesias: altro che A Evaristo Carriego!
E se identico è lo sketch, identico è il lessico a grana grossa di pose, effettacci, calci equini, placcaggi, sequenze stanziali, adorni peggiorativi, accentazioni da “grandi sordità”. E identiche sono le moine, il gran lavorio delle narici, gli sguardi di bragia, le ampie carezze del lucidatore di mobili.
Se proprio vogliamo, anche Gavito, con il suo aspetto e i suoi modi da croupier, un sogno lo mette in scena, ed è quello inconfessabile di una piccola borghesia che in realtà non vede l’ora di lasciare il quartiere e di prendere distanza dal “popolino”. Nel conteggiato miraggio della grand-soirée, nell’imitazione dei ricchi, nel lusso “costoso” di una notte in smoking e paillette, c’è tutto il contrario di quell’innocenza che un poeta di barrio, anarchico e socialista, morto di tisi a 29 anni come una delle sue sartine, aveva descritto in versi profumati di caprifoglio. E c’è invece tutta la grettezza che Eduardo Rovira, César Stroscio, Osvaldo Pugliese, i giovani musicisti ribelli degli anni 60, e prima di loro Raùl Gonzalez-Tuñón, La Rosa Blindada e José Luis Mangieri, avevano combattuto attraverso la musica a lui dedicata.
Del collettame che in questi anni ha a suo modo interpretato A Evaristo Carriego è inutile parlare, se non in forma di cronaca mondana *. I ballerini pronti a cogliere gli aspetti remunerativi delle nuove tendenze sono ora in quantità tale da scriverci un altro blues. A Evaristo Carriego poi è un tango che, come ogni rivelazione, si presta a essere frainteso benissimo e fatturato anche di più. Cosicché una delle più alte e più grandi canzoni in cui ci sia dato di infiltrarci è in poco tempo scaduta ad abitudine, a luogo comune, a riflesso condizionato. Il disinnesco attivato dalla moda non le ha però tolto giurisdizione sulle nostre penose contee, né sopravvento sulle corte banderuole che pur vi fremono: basta ascoltare A Evaristo Carriego che ci sentiamo subito compresi e forse anche un po’ vendicati. Ecco qui il tema capitale: sta entrando, come sempre, da sotto la porta.
Jean Fajean, dicembre 2007