di Dziga Cacace
Macché comunista, cornuto sono!
Carmelo Mardocheo in Mimì metallurgico ferito nell’onore
421 — The Dreamers del Maestro Bernardo Bertolucci, USA/Italia 2003
Recensione double-face: la prima parte è a caldo, nel freddo milanese; la seconda è a freddo, nel caldo della Tanzania. E nonostante Mike Bongiorno, stavolta è la seconda risposta quella che vale. Allegria!
Prima recensione, Milano: Ultimo fungo a Parigi. Che l’adorato Bernardo desse segni di deviazioni fantastiche si poteva intuire, ma a tal punto, no. Questo The Dreamers fa supporre che, prima di girarlo, Bertolucci si sia mangiato un panino col peyote. Ma mica una michetta, no, proprio un filoncino pugliese perché esci dal cinema e non sai cosa pensare. Barbara è incredula. Durante la visione sbuffava come una caffettiera, mentre io architettavo già giustificazioni per ciò che passava sullo schermo. La mia difesa sarebbe stata: “Bertolucci pretende abbandono, eh! Dài! Ti devi far cullare dal suo racconto. Sarà un nonno rincoglionito, ma vale sempre la pena ascoltarlo!”. Avrei potuto dirle queste cose, ma non ne sono stato capace, anch’io un po’ sconvolto. In questo The Dreamers mi è mancata quella forma sensuale immediata che, in qualche modo, inconsciamente, ti dà piacere: la cinepresa non danza, non coinvolge nella sua staticità, e la fotografia mi è sembrata smorta.
Dov’è il piacere della visione che poteva far tollerare Io ballo da sola (da me, seppur straordinario protagonista, il meno amato dei film di BB)? Qui manca la leggerezza della regia e tutto diventa greve: la politica, il sesso, le grandi affermazioni in bocca a ‘sti ragazzetti. Ci sono anche cose positive: il gioco cinefilo mi diverte perché sono (stato) scemo anch’io come i protagonisti, scambiando la citazione come conoscenza e ideale possesso della materia trattata. E poi è la vera idea del film, funzionando sia da motore emotivo/sessuale sia politico: il montaggio incrociato di citazione/omaggio è plastico e inventivo e funziona. Ma funziona (credo) con un soggetto malato come chi scrive, perché questo The Dreamers mi sembra egoistico, estremamente personale, troppo. Si dimentica del pubblico per ripiegare nella narrazione narcisistica di un sessantenne con le scarpe da tennis e la camicia fuori dai calzoni, senza avere più l’età per farlo. La musica è bellissima, certo, ma da noi, a Genova, si dice anche “facile chiavare col cazzo duro”: come puoi sbagliare con Jimi Hendrix, Doors e Janis Joplin? La scelta dei titoli denota intelligenza ed è azzeccato l’abbinamento alle immagini (l’hendrixiana Third Stone From The Sun sulle placide carrellate ascensionali de La Tour di René Clair). Un po’ meno furbo il dialogo in cui si preferisce il mancino di Seattle a Clapton perché suonava coi denti. E siamo ai dialoghi, uno dei problemi: letterari, costruiti, poco credibili anche in bocca a dei ventenni acerbi e pieni di sé. I tre ragazzi peraltro se la cavano abbastanza bene (specialmente Théo, Louis Garrel) e di Eva Green e delle sue tette rugbistiche ci s’innamora subito, tanto più che, nel vezzoso e irsuto omaggio all’Origine del mondo di Courbet, Bernardo ce ne mostra ginecologicamente la bernarda. Il sesso è esibito con la consueta crudezza e ancora una volta ci viene raccontata una perdita di verginità che coincide con la scoperta del mondo. La casa come utero labirintico partorisce esperienza e conoscenza e la rappresentazione è impudica (copule, cazzi, fiche, lacrime, sangue, sperma) così come le onanistiche autocitazioni di Partner, Io ballo da sola, L’assedio, Novecento, Ultimo tango a Parigi, perfino L’ultimo imperatore — un giochino per iniziati, lo ammetto. E poi c’è quel finale democristiano che non riesco a risolvere, seguito dagli incongrui ringraziamenti alla Coca Cola e alla Bic (avrà regalato delle biro alla produzione?). Boh: film che mi pare masturbatorio, egoriferito, e non panicamente soddisfacente come una bella chiavata. La proiezione del Ducale si mangia abbondantemente i bordi della pellicola e io, questo film, l’ho visto per un 90% circa. Il resto era perso a fianco dello schermo: che fo, pretendo un rimborso?
Seconda recensione; Tanzania, l’ultimo dell’anno. Allora: per me Bertolucci è ingiudicabile; è un autore che amo, che conosco e che, in qualche maniera, ho studiato (…). Ogni suo nuovo film è l’ennesimo tassello di un’opera più ampia, è l’ulteriore confessione psicanalitica che corregge e arricchisce un percorso ormai quarantennale. Questa premessa per chiarire che vedo i film di BB, e questo The Dreamers in particolare, con occhi diversi dallo spettatore comune. E forse non dovrei, ma non ci posso fare nulla. Alla prima visione sono rimasto un po’ così. Male, inutile nasconderlo. BB: che ti sei fumato? Quando sono stato a Venezia per la prima di Fame chimica, ho trovato nel delirante PalaIppoliti centinaia di bigliettini che insultavano il povero Maestro: il giovane e agguerrito pubblico di saccopelisti cinefili aveva rifiutato sdegnosamente il film. Complice anche la foto che ha fatto il giro del mondo (BB che arriva al Lido a pugno chiuso), lo si accusava di usare il pugno per fare ben altro, facendo spogliare Eva Green. Gli spettatori più adulti (i miei genitori adottivi del cineclub Lumière, per esempio) o altri cinematograficamente più avvertiti (l’augusto regista Paolo Vari, ecco) mi avevano parlato di alti e bassi, ma comunque di un’opera con un’identità forte e un valore, obliquo ma riconoscibile. Poi è venuta la rassegna milanese dei film veneziani e lì, altro giro di pareri, con Pier Paolo interdetto. E se lo dice lui, che di BB è il massimo esegeta che abbia anche la mia completa stima, beh, allora sono cazzi. Infine il film è uscito sui grandi schermi: confuso dai giudizi disparati dei critici (non sempre stimabili), ho raccolto il responso entusiasta di tutti gli over 50 e lo sconcerto di tutti gli under. Vado allora a verificare di persona con Barbara. A fine film sono molto diviso, ma tendente al negativo. Il film non m’ha colpito “sensualmente”: messa in scena, fotografia e musiche m’hanno lasciato freddo. E poi la vicenda, quasi distaccata, senza emozione: la scintilla interiore che tanto mi ha fatto amare Bertolucci stavolta non è brillata. Mi sono mancate la grazia, la danza, la magia. Non le ho colte. Poi un mese dopo, ruminata la materia, digeritala, ho cominciato a intravedere la luce. Vuoi vedere che BB ci ha impastato un film a lenta lievitazione? Per il mio compleanno Pier mi regala la sceneggiatura del film, arricchita da splendide foto sul set. Rivedo la Green Venere di Milo e riconsidero il delirio cine-erotico-politico come se fosse il magnifico ubriaco bisbiglìo di un sognatore che non vuole abdicare alla possibilità di immaginare (e costruire storie per immagini) per trasfigurare la realtà. E se The Dreamers lo vedi in questa prospettiva, allora, non è un film folle. Anzi: ha la lucidità dei folli che sanno vedere oltre. È un film libero, che ha la sfrontatezza dei vent’anni con la maturità dei sessanta. Prende posizioni estreme (narrative, interpretative, dialogiche) anche in modo infantile, ma sincero, generoso. Come in Novecento, questi ragazzi vogliono chiavarsi la Terra, penetrare il mondo, possederlo. Un’ansia irrequieta, questa sí ancora sessantottina. E con l’amore per il cinema, le immagini e le citazioni. Qualcuno ha commentato che ‘sti qui, a furia di sognare, dormivano in piedi, mentre la Storia sfilava sotto casa. Macché! Il cinema è politica, la musica è politica, il sesso è politica. La Rivoluzione si fa con gli occhi, le orecchie e i genitali: chi il ’68 lo ha vissuto ascoltando la Joplin o guardando i film di Godard è invecchiato meglio di chi s’è incarognito fideisticamente sui sacri testi marxisti o non ha saputo mettere assieme queste cose. E l’ultima scena? Perché la doppia visione (pacifista/bellicista) ha dato così fastidio? Perché rifiutare questa dualità apparentemente insanabile? Non sarà che i tuttologi da commento sui quotidiani hanno paura di quei due fratelli incestuosi che si buttano nella lotta e rispondono alla violenza con la violenza? Sono in Tanzania e ripenso all’Assedio e all’Africa di BB, così vicina a quella che ho visto in queste settimane. E mi torna in mente la definizione autoironica del Genio: nella foto veneziana a pugno chiuso s’è paragonato a un elefante ferito. Un elefante, sí, ma dalla memoria lunghissima. Viva Bernardo, viva The Dreamers! (Mmmh, un po’ troppo, eh? Ed è stato un capodanno pure sobrio) (Cinema Ducale, Milano; 4/11/03)
422 — Mimì metallurgico ferito nell’onore di una Lina Wertmüller pasticciona ma simpatica, va’, Italia 1972
Mimì è Carmelo Mardocheo (Giannini), siculo primordiale a lavorare a Milano. S’innamora dell’emancipata Fiore (la Melato, altera e bellissima), ma le radici sono dure da recidere, tra onore meridionale (onore sentimentale e paramafioso) e luoghi comuni della sicilianità nell’impatto col Nord produttivo e impersonale. Ma nella Città matrigna si trovano anche l’emancipazione sessuale femminile, il lavoro sindacalizzato, la politica. Ora: il film dura meno di due ore, ma sembra a tratti eterno e tante belle scene sono tirate per le lunghe e riunite male in sceneggiatura, disarmoniche una in fila all’altra. Il finale poi è veramente caotico. Mimì è divertente, è recitato bene e, anche se sopra le righe, è ricco di facce, tic e piccoli eccezionali particolari, però l’impressione — ex-post — è che si tratti delle prove generali per Travolti da un insolito destino, dove tutto fila coerentemente, la trama non sbava, il senso non viene mai meno. Soddisfacente, dài, ma perché sono ottusamente di bocca buona. Barbara invece s’è lamentata assai (ed era ancora offesa dal Bertolucci, la tappetta sbuffona). Il mattino dopo aver visto Mimì sono andato all’Anteo, a quello che Tatti Sanguineti ha definito un funerale laico: la commemorazione funebre per Laura Morandini. Ci sono Luisa, Morando e altri familiari e amici ed è una cosa bella, pulita e toccante. Purtroppo sono assediato dal lavoro e devo mollare durante la proiezione di un bel collage di interviste, filmini familiari, spezzoni, corti e altri materiali visivi e sonori che raccontano Laura, la sua intelligenza, il suo impegno, la sua vita. Ritrovarsi in un cinema con persone che non conosci e sentire di avere qualcosa in comune con loro (anche la semplice preziosa cortesia ricevuta in casa Morandini) è stato malinconicamente gradevole. (Dvd; 7/11/03)
423 — Mystic River di un Clint Eastwood un po’ falsetto, dài, USA 2003
Osannato dalla critica, Mystic River c’è sembrato bello, sí, solido, okay, ma un capolavoro? Mah! Grandissimi attori, buona trama, una sottile insinuante tensione, ma se vedo qualcosa di veramente coraggioso che vada al di là della prevedibilità di quel piacione rugoso di Clint, è nel tacito patto chiuso in uno sguardo, tra Sean e Jimmy (Sean Penn e Kevin Bacon). Nella scena finale, mentre l’America sfila in strada ottusa e tronfia, riunita sotto la bandiera, Bacon ricompone gli affetti familiari e strizza l’occhio a Penn. Il rosso, bianco e blu sanciscono la pace sociale e affettiva e suggellano il patto di non belligeranza tra i due (ex?) amici: la macchia della loro infanzia è rimossa e la faccenda è una leggibile metafora del peccato originale di tutta la nazione statunitense. C’è complicità e colpa: mi sembra lo scatto che consente al film di dimostrarsi superiore alla sua classica semplicità. Però questo posso essermelo immaginato anch’io, col mio cervellino iperattivo e fessacchiotto, perché Clint è come Fonzie e mi pare difficile che ammetta di aver sbagliato nel credere al sogno americano. E poi a questo pistolero diventato così democratico credo con difficoltà, col cappello o senza. Lui, il cappello, intendo. E a proposito di America: scrivo queste belinate nel giorno in cui diciotto italiani — carabinieri, soldati e civili — sono stati uccisi da un kamikaze a Nassiriya. Adesso qualcuno — dai politici alla gente comune che li ha messi in parlamento — si rende conto che siamo in guerra. Ci dicono che siamo graditi ai locali (e chi li ha fatti i sondaggi? Gianni Pilo?) e tante altre ciance sugli italiani brava gente. Però alla fine siamo lì per interesse, e dài, e per fare gli amiconi con quella testa di cazzo texana, altro che peacekeeping. Ma perché quando muore un italiano ricominciamo a pensare alle cose che facciamo e mai, dico mai, quando succede a un cittadino di Belgrado sotto un bombardamento NATO (eh, Massimo?) o a un iracheno basso, barbuto e puzzolente? Vabbeh. Scrivo già troppe banalità di cinema, ci manca che mi occupi d’altro. E non sarà che vedo troppi film per non pensare al destino del mondo tutto? Okay, basta, taccio. (Cinema Ducale, Milano; 11/11/03)
424 — Zatoichi di un Takeshi Kitano sempre grande, Giappone 2003
Vi dirò: a metà film ero anche un po’ scoglionato. Ho sempre amato Kitano, fin dalla prima visione di Sonatine grazie a Fuori Orario, e raramente mi ha deluso. Più spesso mi ha entusiasmato con le sue storie rarefatte, l’impasto di dramma e leggerezza, la comicità infantile a fianco della cattiveria yakuza. Però stavolta ero scocciatino perché Zatoichi non parte come una scheggia, non è una katana che fende con eleganza l’avversario. È un film sornione, sostanzialmente silenzioso, con una trama a suo modo complicata e con improvvise svisate umoristiche che disorientano. Poi tutto torna al proprio posto e acquista senso, fino al finale che conclude magnificamente non senza lasciarci con un’ultima geniale trovata. Ai critici che non hanno visto tutti i film di Kitano e sproloquiano di “primo” film comico o in costume (Takeshi c’è già passato da entrambi, eccome) va comunque riconosciuto che, sí, è vero: il balletto che chiude Zatoichi è eccezionale e coinvolgente, suprema sintesi di movimento, colore e musica, summa del cinema di Kitano artista totale. Questo è un film epico che non dimentica mai lo sberleffo ironico (come i contadini che lavorano a tempo di musica): forse il protagonista cieco vede benissimo, comunque non abbastanza per evitare d’inciampare ad occhi aperti. Grande. Per cui esco dal cinema contento, incazzato solo col proiezionista che con la sua professionalità bovina mi ha tagliato spesso i piedi o le spalle della pittorica composizione del regista. Ma il film è tutto sommato così soddisfacente che stavolta non faccio polemica (perlomeno non più di tanto, dài). La faccio invece con un locale che si chiama La Topaia, perché di questo posso giusto parlare, altro che di politica o di guerra. Quattro sere fa ci vado a cena con Ale, Pier e Barbara. È una trattoria dove – sarò sintetico – si mangia poco, male e in tempi biblici. In due ore e mezza abbiamo delibato delle frittatine ottuse, una polenta insipida e un pasticcio di patate salatissimo, tutti cibi “poveri” che dovrebbe fare “alternativo”. E invece fanno cagare, altroché. Poi, dopo un’ora e mezza (e secondo me solo perché li abbiamo invitati a darsi una mossa) sono arrivati i primi che non erano niente di memorabile. Giacché stavo morendo di fame non mi sarei formalizzato sulla qualità se solo la porzione fosse stata divisibile a occhio nudo. In sovrappiù straziante accompagnamento canoro di una Califano dei navigli che si aggirava tra i tavoli chitarra al collo e repertorio cantautorale scrauso in gola. Pier Paolo s’è lamentato apertamente tutta la sera; l’Ale, Barbara e io abbiamo abbozzato, anche perché siamo i perpetratori di questa sconsiderata uscita serale. Nella mia personale scala di valutazione ‘sta Topaia piglia due svastiche piene: lo sconsiglio vivacemente a tutti, tolti fascisti e forzitalioti alla ricerca di emozioni cheap. La sera dopo Sabina Guzzanti è tornata in video con Raiot, programma di satira eccezionale e coraggioso per contenuti, scarso per forma e comicità, ma si leggeva l’urgenza espressiva di dire quello che nessuno – a partire dall’opposizione catalettica colpevole e complice – ha più voglia e coraggio di far sapere. Polemiche ovvie sui giornali e oggi la chiusura del programma. Nessuno tra i soloni che commentano in prima pagina ha però notato che la Guzzanti è costretta a raccontare cosa sta succedendo a questo paese perché per fare satira bisognerebbe almeno che le notizie fossero condivise e il mestiere giornalistico sta vivendo un tragico sonno della ragione. Non ho detto gioia, ma Goya. Altri obiettano: la Guzzanti ha semplicemente cercato la bella morte, il compiacimento del martirio. E a cosa serve un martire, quando gli tagliano la lingua? Mah. Sono giù, veramente giù, giuissimo (non esiste, lo so, ma rende l’idea). (Cinema Eliseo, Milano; 18/11/03)
425 — Punch-Drunk Love di un Paul Thomas Anderson in stato di grazia, USA 2002
Il clamoroso Adam Sandler è Barry Egan, unico maschio attorniato da sei insopportabili sorelle. Pignolo, pieno di turbe relazionali, disturbato dalle infinite piccole storture della vita, ossessionato dal lavoro e dalle prepotenze altrui, cerca un’anima gemella nell’immensa solitudine della California. Mentre colleziona i punti dei budini in scatola (perché ha individuato un errore di marketing e potrà volare per un sacco di tempo gratis) è perseguitato da una telefonista erotica ed è sull’orlo di una vera crisi di nervi. Ma la vita riserva anche le sorprese che non ti aspetti e Barry incontra Lena (Emily Watson). È amore a prima vista e funziona: la vita è una pianola da riparare, per suonare accordati, e talvolta i miracoli accadono. Coloratissimo, percorso da un’incessante colonna sonora ossessiva e originale, Punch-Drunk Love è un film solare, girato e montato magistralmente, recitato da dio. Ed è un film imprevedibile, per cui bellissimo. La mia felicità è però turbata dalla lettura su Cineforum della prima recensione di Fame Chimica. Ma cosa cazzo vogliono questi qui che scrivono di cinema, eh? Ma pensa un po’: c’è gente che si permette di giudicare il lavoro altrui senza considerare tutta la fatica che c’è dietro! Cose da pazzi! Facile parlare, bla bla bla… (è dura quando sei dall’altra parte della barricata, e sì). Comunque ci viene rimproverato che il film soffra della medietà del protagonista e che non mantenga ciò che il titolo ha promesso. Claudio non ha la “fame chimica”, è tutto sommato inserito, lavora, ha una vita borghese. E la sua rivolta “soft” s’inscrive nei meccanismi della borghesia, ribelle ma fino a un certo punto, senza le asperità vere di chi soffre dell’emarginazione delle periferie. Personalmente non ci vedo niente di strano: nel processo generale in atto di borghesizzazione della società (fino agli ultimi arrivati, gli immigrati), questa è la normalità, col satellite e il calcio, la disco con sballo il sabato sera, lo stipendio (con o senza garanzie), a casa coi genitori finché dura. È lì la borghesia, non solo e non più vicino al centro della metropoli (Cacace gets sociological!) e leggere uno che pensa per categorie ideologiche così vecchie è un po’ deprimente. E poi, scusate: non è esattamente borghese richiedere meno borghesia nei personaggi? Non è guardarsi allo specchio e spaventarsi? Anton Giulio Mancino mi aveva già fatto incazzare per come aveva trattato LaCapagira. Si vede che è un tirchio sentimentale e che vuole fare la faccia feroce. E non sarà che cerca quei cheap thrills, quelle emozioni traslate che danno tutti i film leccatini che ci raccontano il diverso come ci piace che sia rappresentato (con quella bella dose di eversione che noi non ci possiamo permettere, vedi L’odio)? (Aggiungo: sono io il primo a cascarci, lo so). Quello che azzecca il critico, in ogni caso, può essere la mancanza di personalità vera di Claudio ed è evidente la prepotente emersione di Manuel come vero eroe centrale e non riconciliato del film, senza però esserne il protagonista principale. Vabbeh, chiudo qui che non ne frega niente a nessuno, anche perché, tutto sommato, si tratta solo di fregnacce, le mie e le loro: tutto è nello sguardo di chi vede, anche l’erotismo. A ‘sta storia della caviglia scoperta non ci ho mai creduto. Capita anche a me, urca, ma come dice Moretti, ci sono erotismo e pornografia e noi parteggiamo vivacemente per la seconda. (Dvd; 20/11/03)
426 — Boogie Nights, l’esordio cazzuto di Paul Thomas Anderson, USA 1997
Il porno come ultima frontiera della trasgressione sociale. Sul finire degli anni Settanta il cinema erotico hardcore era girato in pellicola, con un direttore della fotografia, un regista e una trama. Non ci si formalizzava sugli attori e si chiedeva soltanto azione, ma era pur sempre cinema (con un’incidenza sulla morale corrente: si pensi a Gola profonda o ai film di Gerard Damiano presentati a Cannes). E anche allora, prima dell’avvento del video e della diffusione mondiale della pornografia domestica, c’erano sfruttamento, carne da cannone e sudditanze. Boogie Nights, anche se amorevole nella rievocazione, non addolcisce la pillola: come nel cinema “serio”, anche nell’hard c’è voglia di arrivare, con l’ansia di successo, denaro e potere per compensare altre mancanze: affettive, economiche, culturali (anche la banale voglia di consenso critico, di appagamento estetico, di piacere edonistico). Il protagonista Dirk Diggler ha un uccello spaventoso e insaziabile. Se ne innamorano tutti: regista, attrici, attori amici e rivali. Ed è così che “l’altra” Hollywood, quella esplicitamente peccaminosa (e forse più sincera), viene presa virilmente, soggiogata e sfondata. Un film dopo l’altro, scopando a più non posso, tra cocktail, droga e aspirazioni alla supposta normalità. Boogie Nights è percorso da lancinanti punte d’amarezza e a volte si fa grottesco perché non ha cuore di diventare spietato: Paul Thomas Anderson (soli 27 anni) è innamorato dei suoi protagonisti e non vuol fargli (troppo) male e il film fila travolgente infilando scene, dialoghi e interpretazioni memorabili (Burt Reynolds e Julienne Moore su tutti), tra oceanici piani sequenza e musiche a ritmo scorsesiano. Azzeccato Mark Wahlberg per la nerchiuta parte principale, adorabile la rollergirl Heather Graham, coi suoi due grossi occhioni e tutto il resto generosamente esposto. È un film cui sono legato per tante piccole cose, come gli editing burst (ho modestamente inventato io questa definizione) che in pochi frame introducono una situazione (esempio: fornello col fuoco che si accende, sfrigolio di wurstel sulla graticola, caffè che scende nella tazza: la colazione in meno di un secondo). Oppure la storia di Little Bill (William H.Macy), che ha una moglie zoccola che non arriva — per due secondi — a vedere gli anni Ottanta. O ancora l’attore di colore che ama il country e sogna di aprire un negozio di hi-fi (e ci riuscirà con un finanziamento insperato). Supervisionato dal pornstar Ron Jeremy, Boogie Nights ha ottenuto tre nomination all’Oscar e nessun premio. Soliti complessi del cazzo: ingrati! Visto in originale con magnifico cinemascope: viva il Dvd. (Dvd; 21/11/03)
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(Continua – 42)