di Gioacchino Toni
Elio Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine, Bulzoni Editore, Roma, 2018, pp. 232, € 20,00
L’ultimo saggio di Elio Ugenti indaga l’opera di Abbas Kiarostami passando in rassegna una produzione visiva che coinvolge cinema, video e fotografia e si presenta al pubblico sotto forma di proiezione cinematografica, videoinstallazione, mostra fotografica e integrazione tra immagine video e spettacolo teatrale. L’obiettivo del volume è quello di far emergere la portata intermediale e la complessità del discorso sulla visualità dell’opera di Kiarostami.
Pur partendo dall’analisi del cinema dell’iraniano, il saggio allarga il suo interesse ben oltre la produzione e proiezione cinematografica per toccare le diverse modalità con cui il regista ha portato avanti un personale discorso sull’immagine e sulle specificità del medium attraverso opere in cui lo sguardo dello spettatore è considerato come una componente essenziale delle immagini.
Ugenti procede analizzando le immagini da un punto di vista estetico-formale, problematizzando la loro funzione, soffermandosi sulle diverse modalità espositive e indagando gli effetti procurati dal processo di rilocazione a cui sono sottoposte.
Nel primo capitolo l’analisi della sequenza iniziale di Il vento ci porterà via (1999) consente di aprire una riflessione su un rapporto tra visione e azione dei personaggi contraddistinto dall’assenza di un assoggettamento dello sguardo spettatoriale allo sviluppo narrativo. Vengono dunque ricostruite le tappe attraverso cui il regista iraniano giunge a tale risultato passando in rassegna alcuni suoi film precedenti in un percorso che si sofferma sull’evoluzione dell’agire trasfromativo del personaggio in Dov’è la casa del mio amico? (1987) per poi passare all’indebolimento dell’efficacia dell’azione dei personaggi in E la vita continua (1992), ove si palesa un’idea di spazio fondata su una disarticolazione capace di modificare l’ambiente in un luogo di attraversamento entro il quale le finalità e le azioni dei personaggi risultano sempre meno rilevanti.
Se in Dov’è la casa del mio amico? il regista decide di «ridurre all’essenziale gli elementi di complessità della storia narrata, oltre a scegliere […] di ricorrere a uno stile visivo anch’esso essenziale e non assoggettato alle regole del decoupage classico, è pur vero che egli sceglie di costruire una struttura narrativa solida e consapevole, regolata da un agire trasformativo e orientata lungo un percorso di crescita del proprio personaggio, nonché alla trasformazione efficace di una situazione si disequilibrio che è venuta a determinarsi nella parte iniziale del film» (p. 38).
In E la vita continua si assiste ad un depotenziamento dell’agire trasformativo che sembra premettere quella radicalizzazione raggiunta in Il vento ci porterà via che paleserà l’impossibilità di «un’azione efficace, produttiva e orientata per il protagonista» (p. 38). Secondo Ugenti con E la vita continua «ci troviamo in una sorta di situazione intermedia, con un incipit che non risulta caratterizzato da scelte estetiche estreme come quelle de Il vento ci porterà via, ma che lascia intravedere già un parziale sgretolamento di quella solidità che caratterizza la prima sequenza di Dov’è la casa del mio amico?» (p. 41).
Nonostante Il vento ci porterà via si presenti come un film dotato di trama, personaggi, luoghi d’azione e situazioni narrative, in esso tende a palesarsi il prevalere del sistema visivo su quello narrativo. Secondo Ugenti tale film rappresenta «un punto di snodo fondamentale nella produzione di Kiarostami, proprio per la volontà sistematica del regista di rompere l’ordine del discorso cinematografico per cercare altro, estremizzando ancor più il suo cinema e cercando modelli rappresentativi ancor più autonomi» (p. 64).
La consapevolezza dello sguardo spettatoriale, il disvelamento del dispositivo filmico e l’attribuzione della soggettività dello sguardo, il rapporto tra campo/fuoricampo e la negazione dell’immagine, sono al centro dell’analisi del secondo capitolo. Oltre a riprendere le opere precedentemente esaminate vengono qui approfonditi film come Compiti a casa (1989), Five Dedicated to Ozu (2003) e Shirin (2008) indagando anche le particolari configurazioni spaziali e temporali dell’inquadratura.
Secondo Ugenti l’opera di Kiarostami si contraddistingue per un progressivo svuotamento del suo cinema fino al punto di ridursi alla sua essenza. «Da un lato assistiamo ad un graduale depotenziamento della portata narrativa dei film […] mentre dall’altro ad una sempre crescente attenzione nei confronti delle relazioni che lo spettatore istituisce con l’immagine filmica, e un’esibizione sempre meno evidente della presenza dello sguardo filmico» (p. 69).
Il regista iraniano struttura una relazione tra visione e narrazione capace di determinare quell’apertura di senso che consente alle immagini di «esprimere la loro forza singolare in alcuni momenti del film, nonostante la loro presenza possa apparire per lunghi tratti subordinata alla necessità della storia» (p. 70). Kiarostami intraprende così una reinvenzione stilistica che conduce verso forme di cinema non narrativo.
In E la vita continua l’attenzione rivolta allo sguardo e all’atto del guardare determina l’esistenza di una entità terza diversa tanto dai fatti che dalla mera immagine. Si tratta di ciò che Dario Cecchi (Abbas Kiarostami. Immaginare la vita, 2013) identifica nello spettatore inteso come istanza che si manifesta nell’immagine stessa. Dunque, sostiene Ugenti, abbiamo a che fare con uno sguardo da intendersi come «esito di un processo configurativo che lo colloca all’interno del film» (p. 79). Lo studioso procede poi con il verificare diacronicamente le modalità con cui tale processo viene esibito nell’opera dell’iraniano attraverso una molteplicità di strategie estetiche e procedimenti formali.
Nella sua indagine, Ugenti riprende le riflessioni elaborate da Paolo Bertetto a proposito del concetto di configurazione preferito a quello di rappresentazione in quanto capace di esplicitare l’idea di processo creativo-generativo dell’immagine. «L’invito è a considerare l’immagine cinematografica come un artefatto inscindibile dallo sguardo che l’ha generato, come un susseguirsi di scelte operate dal cineasta […] e, in ultima analisi, come l’effetto di una proiezione che rende manifesta sullo schermo l’interazione simultanea di queste scelte, a partire dalle quali viene a determinarsi l’esperienza dello spettatore: il modo attraverso cui egli percepisce il tempo e lo spazio del film» (p. 82). Se tale caratteristica vale per l’intero cinema, suggerisce Ugenti, questa risulta particolarmente esibita dall’opera di Kiarostami.
Visto che l’estremizzazione del discorso metariflessivo sulla visione tende a portare verso la sua negazione, l’analisi del saggio si sofferma in particolare su alcuni momenti appartenenti a film differenti del regista in cui l’immagine «viene improvvisamente meno, mutando di colpo il vedere dello spettatore nella privazione totale del campo di visibilità» (p. 90). Dei tre momenti individuati – appartenenti a E la vita continua, ABC Africa (2001) e Il sapore della ciliegia (1997) – vengono indagati in particolare il grado di relazione tra negazione dell’immagine e livello narrativo-rappresentativo del film e la durata intesa come l’esperienza del tempo dello spettatore che non coincide necessariamente con il tempo rappresentato. Le scelte configurative permettono una messa in evidenza dell’immagine filmica in quanto tale grazie al processo di disvelamento del dispositivo filmico capace di «portare l’attenzione dello spettatore verso i suoi elementi costitutivi: lo spazio, la luce e il tempo» (p. 112).
La portata intermediale dell’opera del regista iraniano viene invece approfondita soprattutto nel terzo capitolo. Vengono qui analizzate le videoinstallazioni realizzate a partire dal 2001 e la produzione fotografica indagando la riflessione sul rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento presente in alcune sue opere. Attenzione viene riservata anche al cambiamento di dispositivo, alla relazione tra spazio dell’osservatore e spazio plastico dell’immagine.
La vocazione intermediale e rilocativa dell’opera di Kiarostami viene affrontata da Ugenti a partire dall’analisi dell’allestimento romano del Ta’zieh, una forma drammaturgica tradizionale originaria del mondo islamico. Alla difficoltà del pubblico italiano di entrare in sintonia con lo spettacolo e di lasciarsi coinvolgere emotivamente, Kiarostami decide di sopperire attraverso la proiezione di immagini registrate di spettatori iraniani che assistono nel loro paese a tale spettacolo rendendoli “partecipi” dell’allestimento scenico romano. Il pubblico iraniano proiettato diviene così una “partitura emotiva” dello spettacolo messo in scena a Roma. «L’opera e lo sguardo sull’opera diventano dunque inscindibili» (p. 114).
Kiarostami attua dunque nella messa in scena romana del Ta’zieh una particolare forma di rilocazione ed è proprio su questo concetto che indaga l’intero capitolo che giunge – con Roads of Kiarostami (2005) e 24 Frames (2017) – alla riconfigurazione di forme diverse di espressione artistica all’interno di uno spazio che non è più uno spazio fisico ma, riprendendo il concetto elaborato da Miriam De Rosa (Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, 2013) può essere definito come spazio-immagine.
Secondo Ugenti la continuità tra i film per la sala e le installazioni del regista iraniano è data da una ricerca formale volta a problematizzare il tipo d’esperienza dello spettatore. «Il lavoro di sottrazione operato sulle strutture narrative e la messa in gioco dello sguardo nei film […] trovano nella reinvenzione dello spazio un loro compimento. […] Forzare i limiti dello sguardo è stato […] il fil rouge che ha attraversato l’intera produzione del regista. E sconfinare dalla sala, in fondo, non è altro che un modo per perpetrare un’idea di cinema solida senza scadere nel manierismo, ma reinventando un modo diverso di porre domande che restano in perfetta continuità tra loro ne corso del tempo» (pp. 122-123).
Lo sconfinamento messo in atto da Kiarostami in alcune sue opere, l’interconnessione tra oggetto fimico e spazio museale, tende a condurre l’esperienza dell’immagine in movimento verso territori artistici. «Il darsi dell’immagine allo spettatore all’interno di una boité-regard che era esaltata dalle scelte formali di Kiarostami nei film degli anni Novanta, l’idea di far fronte a uno spazio prima ancora che a una rappresentazione […], persistono in queste forme di sperimentazione che prendono vita con Sleepers, e divengono il sintomo dell’indistricabilità tra la riflessione estetica […] e la reinvenzione della forma dell’operare artistico di Kiarostami» (pp. 129-130).
Secondo Ugenti i video del regista iraniano si presentano come tentativo di ribaltare la funzione svolta dal suo cinema nel decennio Ottanta-Novanta per poterla interrogare sotto una nuova luce. «In questa rinnovata condizione spettatoriale si modifica radicalmente la modalità di accesso al visibile: la riconfigurazione spaziale dell’opera […] rende davvero difficile, se non impossibile, concepire lo spettatore come un soggetto assorbito dalla visione e assoggettato alla narrazione. Se il regime rappresentativo […] era stato messo in crisi già nei film per la sala mediante l’esplicitazione di alcuni processi configurativi dell’immagine sullo schermo, qui assistiamo al passaggio definitivo verso un regime presentativo» (p. 130).
In installazioni come Summer Afternoon (2006) il contesto spaziale non si limita ad ospitare l’immagine ma interagisce con essa e con lo spettatore. Non si tratta più di uno spazio proiettato ma di uno spazio abitato; uno spazio che non è più nell’immagine ma che si costituisce anche grazie alla presenza dell’immagine. La messa in evidenza dell’immagine porta all’indiscernibilità tra l’immagine stessa e lo spazio che la accoglie/espone allo spettatore. «Non più un’immagine fruibile in uno schermo su una parete, ma immagine, schermo e parete che divengono gli elementi fondanti di un’esperienza spaziale di cui lo spettatore è arte integrante e attiva» (p. 132).
A partire dall’analisi dei film Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012), il quarto ed ultimo capitolo si sofferma sul ritorno del regista al linguaggio narrativo e sulla configurazione visiva di opere caratterizzate da uno spazio d’azione delimitato dall’inquadratura che sembra divenire uno spazio d’esposizione di immagini complesse votate all’astrazione che si offrono al piacere contemplativo dello spettatore. Ad essere preso in esame è qui anche il rapporto tra la presenza di alcuni elementi figurativi e le dinamiche narrative.
Di Ugenti abbiamo avuto modo di approfondire e apprezzare [su Carmilla] il saggio Immagini nella rete (2016) in cui viene approfondita l’esperienza visiva contemporanea alla luce delle interazioni tra i diversi dispositivi tecnologici che tendono a ridefinire significativamente la funzione delle immagini imponendo nuove modalità d’esistenza dipendenti dalla loro mutevole ricontestualizzazione. In questo ultimo libro dedicato a Kiarostami lo studioso ha il merito di mettere in luce la complessità delle forme dell’immagine e la portata intermediale e metariflessiva dell’opera del grande regista iraniano.