di Giovanni Iozzoli
Nei giorni scorsi hanno commemorato l’anniversario della morte di Marco Biagi. Non ci avevo pensato, me ne sono ricordato solo la sera, guardando il Tg mentre cenavo. Sono rimasto un po’ interdetto vedendo le immagini di repertorio – il senso malinconico e inafferrabile del tempo che passa, delle immagini che si sgranano, dei morti che vengono periodicamente rievocati (nel caso di Biagi, pervicacemente, per l’uso abusivo del suo nome in relazione alla famigerata legge 30) e dei vivi sepolti e innominati, di cui nessuno sa più niente e nessuno vuol più sentire parlare. Morti e vivi nella medesima linea di nebbia, foschia, ombra e indefinitezza.
Dov’ero io quando spararono a Biagi? Boh. Non mi ricordo. Nella fabbrichetta in cui sono ancora oggi, suppongo. Una sera di quasi primavera, in cui esci che c’è ancora luce. Ricordo bene, invece, che il sindacato ci chiese il giorno dopo di scioperare, per un’ora, “in difesa della democrazia”. La rivendicazione non era ancora arrivata ma tutti intuivano il senso di quelle pistolettate. Io, da delegato, durante la pausa caffè, dissi chiaro chiaro ai miei colleghi che non avrei scioperato – chi aveva voglia poteva anche farlo. Mi sarebbe sembrata un’intollerabile ipocrisia assumere un’altra posizione: per quanto sconosciuto al grande pubblico, si sapeva che Biagi era uno dei tecnici, consulenti e professori che avevano dedicato gli ultimi anni della loro esistenza a trovare il modo più efficace di licenziarmi e smontare diritti e tutele di una vita già abbastanza povera di entrambi. Perché avrei dovuto scioperare? La democrazia, per noi, era la difesa intransigente dell’art. 18 (ingenui sognatori, allora eravamo convinti che l’avremmo pure mantenuto). Delle “nuove BR” sapevo poco. Da vecchio militante, non avevo amato quelle “storiche” e non capivo quelle “nuove” – il senso di questa coazione a ripetere così cerebrale, questa costruzione tanto artificiosa da apparire prepolitica, testardamente idealistica, tenere in vita “l’idea della lotta armata” senza che la società ne rivendicasse in alcun modo la necessità. Quello era il 2003. Quindici anni fa.
Le immagini dei TG, nei filmati di repertorio, ripropongono frammenti della scena del crimine. Mostrano fogge, acconciature e abiti non più consueti: possibile che in 15 anni sia cambiato tutto? Sembrano facce fuori tempo, fuori stagione. Che stranezza. Dopo che il nucleo neo-brigatista venne sgominato, nell’operazione che condusse alla morte di Mario Galesi e del sovrintendente Emanuele Petri, emerse un’idea più chiara sulle ragioni dell’omicidio Biagi. Quell’anonimo professore non era stato scelto per il suo “ruolo di punta nei processi di ristrutturazione del mercato del lavoro”. E il ministro Scajola, con la sua franchezza da potente arrogante, ricordò a tutti l’opinione di governo sul suo peso di consulente (c’era una folla di giuslavoristi-questuanti, in fila davanti alle porte dei centri studi di Confindustria e del Ministero del Lavoro, in quegli anni). No, l’anonimo Biagi venne scelto, tra diversi, solo perché era un obiettivo relativamente facile, senza scorta, senza rischi, sul quale si poteva inscenare un’operazione a colpo sicuro, quasi una esercitazione militare – con tutto il fecondo strascico politico da mettere in valore. Una cosa schifosa. Scegliere “quella” vittima solo perché indifesa. Certo, qualche collega mi avrebbe fatto notare che anche loro, gli operai, erano in qualche modo indifesi davanti alle macchinazioni infernali dei “riformisti” – agli ammonimenti dei tecnici di Bruxelles, agli editoriali del «Corriere», ai ddl anti-operai depositati a grappolo in Parlamento. Ma la cosa non mi evocava facili equiparazioni. Un uomo indifeso è tale, al di là di quello che custodisce nella valigetta.
Quindici anni. Come passa il tempo. Molti dei colleghi che quel giorno scelsero di non scioperare (ah, ecco, ricordo: non scioperò nessuno) non ci sono più, approdati alla faticosa e agognata pensione, ognuno nella condizione che il tempo gli ha permesso, tra acciacchi, disillusioni e calcoli cervellotici. Gli altri sono ancora lì, in fabbrica, a contarsi gli spiccioli in tasca. Gli aumenti in paga oraria, negli ultimi rinnovi contrattuali, sono stati sostituiti da buoni benzina e altri moderni “benefit”. Gli anni sono passati come una schiacciasassi sulle vite della piccola gente: e l’esercito dei riformisti non ha fatto prigionieri – tutti, centro destra, centro sinistra, tecnici, rottamatori, tutti hanno provveduto scrupolosamente a bonificare quelle “sacche di socialismo” (cfr. Cossiga, buonanima) rappresentate da quella che era la nostra residua dotazione di diritti e poteri. Siamo stati sgominati anche noi – anche se non eravamo propriamente un nucleo, ma una cospicua massa di uomini e donne, illusi dalla convinzione che, tutto sommato, data la perdurante ostinata buona condotta, i padroni e i loro ascari non avrebbero infierito ancora e ancora e ancora sulla nostra condizione.
No, non sciopererei neanche oggi. Né mi auguro il ritorno di vendicatori e vittime. Mi piacerebbe, però, che esistesse un tempo e un luogo in cui, se non proprio “caro e tutto”, riuscissimo comunque a far pagare qualcosa a qualcuno. Ma anche questo della resa dei conti è un tema puerile, un barlume di consapevole impotenza, probabilmente un inizio di senilità.
Nadia Desdemona Lioce, ergastolana, è sotto processo per aver sbattuto una bottiglietta di plastica sulle grate della sua cella – una specie di disturbo della quiete carceraria, o qualcosa del genere. Protestava perché il suo 41 bis le impedisce di detenere troppe carte, penne, libri. Le impedisce di comunicare, di parlare, di scrivere, le impedisce tutto – tranne il diritto di impazzire, di disgregare l’identità e la memoria del suo essere stata donna, rivoluzionaria, persona. Chissà se la condanneranno anche per la faccenda della bottiglietta.
Bruno Fortunato, l’agente ferito nella sparatoria sul treno, nel corso della quale la Lioce fu arrestata, si è invece suicidato un po’ di anni fa. Senza una ragione – o forse carico di ragioni a noi insondabili. Di solito il suicidio tocca ai prigionieri, agli sconfitti, non a chi sta nell’elenco degli eroi e dei servitori dello Stato. Vai a capire i destini, gli incroci, i significati esoterici delle vite ordinarie. Nel 2005 dichiarò a «Repubblica» che il suo rammarico più grande era stato quello di non essere riuscito ad ammazzare Nadia Lioce. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Di lei sopravvive solo la sua condizione, immutabile, di prigioniera, di corpo in ostaggio – di testimone silenziata del brandello finale di una storia. Morire su quel treno non sarebbe stato il modo peggiore di morire.
Intanto le faccende italiane vanno pigramente avanti. Chi ha avuto ha avuto – commemorazioni o ergastoli, il passato ormai sta solo nei telegiornali, perché il declino civile e culturale in questi anni è stato tale da riprodurre solo un eterno posticcio presente. La povera gente crede di vendicarsi delle élite votando Grillo e Salvini, in un crescendo di equivoci e illusioni. La legge Biagi è stata surclassata dalla ricca produzione legislativa successiva. Qualche scritta stizzita sui muri vorrebbe guastare la festa e fare da controcanto alle narrazioni ufficiali. Ma serve un’altra mano per riscrivere la storia; una mano enorme, gigantesca, capcae di stringersi a pugno quando serve, ma abbastanza forte, intelligente e autorevole, da costruire giustizia, facendo a meno dei giustizieri.