(o della principale equivocazione del termine «rappresentazione»)
di Enzo Melandri
In occasione del festivalfilosofia 2012, pubblichiamo, oggi e domani, due testi. In quello odierno Enzo Melandri, uno dei maggiori pensatori del Novecento, discute da par suo la questione dell’esistenza e della rappresentazione del “mondo esterno”. Il testo fu pubblicato nel 1991, sul n. 1 (pp. 121-136) di “Discipline Filosofiche” – che ringraziamo per aver consentito la ripubblicazione – e precede di pochi mesi la scomparsa del Filosofo: ma ci sembra che il pensiero di Melandri sia, anche su questo tema, più vivo e attuale di quanti oggi agitano la stessa questione.
[Nella foto Melandri è il terzo da destra, accanto a Foucault e Eco, in un convegno del 1968] (G.D.M.).
0. Vado distrattamente per una strada, e vedo una porta. Se non mi ci soffermo con l’intento di indagare, mi raffiguro normalmente che la porta abbia l’altra parte, un chiavistello per chiuderla, quindi un andito e uno sviluppo di stanze e corridoi. Ma questo non è affatto certo. Può essere, raro ma potrebbe darsi, che l’intera via fosse solo simulata, come nelle scenografie per un film e quindi che non ci fosse la parte invisibile della porta, né il chiavistello o la sequenza delle stanze o corridoi. A un esame ravvicinato la porta risulterebbe allora semplicemente verniciata; o qualche altro indizio dovrebbe rendere ciò palese, a stretto scrutinio.
Ma normalmente, come si diceva, non è così; e noi ci rappresentiamo una porta appena intravista con tutte, o molte delle sue implicazioni ulteriori, per quanto non viste. Salvo dunque intenzioni dolose, volutamente decettive e magari artistiche, ne risulterebbe in definitiva la verità: cioè che quella non era veramente una porta. Di qui si può inferire che la rappresentazione di una porta include anche, normalmente, quella sua sezione che non è visibile.
Questo ci rammenta, incidentalmente, che da un punto di vista più generale, si potrebbe anche dire filosofico, non si può dire di avere individuato un oggetto se esso non risulta completamente determinato (o identificato). Diverso è il caso per quanto riguarda il suo semplice riconoscimento: qui ci possiamo accontentare della mera identificazione del valore di una funzione a una o più variabili. In altri termini, il riconoscimento (o identificazione) di una cosa non è ancora, in concreto, la sua individuazione. Nella filosofia analitica di derivazione cartesiana l’identificazione, o riconoscimento, come condizione necessaria, viene giustamente preposta alla sua individuazione. Si può individuare solo qualcosa che sia stato prima identificato, o altrimenti salta il principio di identità stesso, che procede dal suo senso più lato a quello più stretto. Succede però che l’accumulo delle precedenti identificazioni, supposte pervenire a un punto di massimo, tende surrettiziamente a promuovere la condizione necessaria (o meglio, la serie crescente delle condizioni necessarie) a condizione definitiva, pertanto anche sufficiente. Non occorre dire che la condizione necessaria, o qualunque serie di condizioni necessarie, resterà pur sempre al di sotto della condizione completamente sufficiente; mentre viceversa che la condizione sufficiente (sempre per l’individuazione di un oggetto) sarà sempre eccedente la serie delle sue condizioni necessarie. Nelle condizioni della conoscenza scientifica tale approssimazione, per difetto o per eccesso, è ineliminabile.
Da un altro punto di vista, incentrato non sulle condizioni ma sul loro oggetto, tutto questo richiama alla mente la teoria dell’«oggetto incompleto» o anche «imperfetto» di Meinong [a sinistra]. Essa appartiene alla fase conclusiva del pensiero di Meinong, di cui non conviene qui un approfondimento e nemmeno un riassunto conclusivo. Basterà, suppongo, richiamarsi al contenuto più facilmente intuibile di detta teorizzazione, che è sicuramente esprimibile senza eccessive licenze di approssimazione. Nella teoria dell’oggetto incompleto, o imperfetto (come in latino, non è possibile distinguere i due sensi), si tratta sempre di «oggetto empirico» di conoscenza. Ciò presuppone un riconoscimento che, a partire dall’identificazione, non ci permette di individuare l’oggetto di cui si tratta se non mediante un’ipotesi. L’ontologia in quanto istanza metafisica richiede la gnoseologia della serialità fenomenica; o, in altri termini, l’oggetto empirico di conoscenza trasforma il presunto oggetto teorico nella seriazione, sempre aleatoria, di un processo induttivo senza limite prefissato. Qualunque deduzione tratta dalla sua natura di oggetto teorico, ontologico, dovrà conseguentemente riformularsi come congettura ipotetico-deduttiva, che quando è valida lo è solo provvisoriamente, in relazione alle premesse.
Il richiamo cui abbiamo alluso, la teoria dell’oggetto incompleto, serve dunque a discriminare in maniera più netta ontologia e gnoseologia, ponendo la condizione necessaria della conoscenza a fondamento delle ipotesi circa la natura della realtà ultima o fondamentale. Questa impostazione è conforme alla maniera idealistico-trascendentale di porre il problema della conoscenza, nel senso indicato da Cassirer e che comprende Descartes, Locke, Leibniz e Kant, almeno secondo una certa linea di sviluppo. Tuttavia il richiamo a Meinong non è peregrino, poiché nella sua impostazione il problema della conoscenza appare meno rinforzato in senso apagogico e meglio delimitabile. Il senso apagogico dell’argomentazione complessiva dipende per l’appunto da quella che è stata detta l’impostazione gnoseologica del problema della conoscenza; in ragione della quale ogni risultanza che non fosse dichiaratamente opposta finiva, in ragione del suo titolo stesso, con l’essere annoverata come istanza valevole tra gli elementi determinanti di quello stesso problema. La delimitazione del problema gnoseologico, per converso, dipende invece dalla diversa strutturazione che vi assume l’oggetto in relazione all’espansione più autonoma della sua interna ontologia [1].
1. Nell’Essay concerning Human Understanding di Locke si tratta delle «idee» come elementi della conoscenza. Dopo aver escluso che esse possano provenire da un lascito innato (1. I), l’autore ne esamina l’interna articolazione, affrancata da tale presupposto (l. II), quindi stabilisce una serrata critica alle idee complesse fornite dal linguaggio (l. III) e infine stabilisce l’obiettivo di una conoscenza finalmente libera dagli errori precedenti (l. IV). Tutta l’analisi di Locke è dunque subordinata al fine della conoscenza. Una volta affrancata dagli errori più comuni, dovuti al pregiudizio e alle cattive abitudini (gli idola fori e theatri del predecessore Francis Bacon), non ci sarebbero stati più impedimenti al susseguente trionfo della conoscenza. Tuttavia l’identificazione di alcune delle fonti degli errori non dà alcuna garanzia che sia stata sradicata la fonte dei medesimi. Né il fatto di promuovere la conoscenza a fine ultimo ed esclusivo copre a sufficienza contro un’insinuazione del difetto entro funzionamento per così dire fisiologico della stessa. Infatti tutta la conoscenza è relativa alle idee che abbiamo di essa. Se le idee fossero originarie, o copia di più riposte esperienze precedenti, se fossero ectypical (nel senso di Locke), non ci sarebbe forse molto su cui contendere. Ma il fatto è che Locke stesso ammette che le idee possano non essere ektipiche, ma derivare dalla riflessione o dai modi misti. In quest’ultimo caso è significativa l’ammissione che esse possano essere, in tutto o parte, archetypical ideas.
Insieme con Descartes, Locke è l’iniziatore della filosofia trascendentale almeno in questo senso: che le idee di riflessione non siano affatto delle idee (composite), anzi che il loro statuto sia immediatamente diafano, ossia trasparente a se stesso. Il presupposto della completa diafania della riflessione e, con qualche approssimazione, dei modi che Locke chiama misti (mixed modes), è, insieme con la fiducia nel progresso inevitabile della conoscenza, uno dei caratteri essenziali della filosofia trascendentale; a cui è dunque indispensabile l’assicurazione di un soggetto trasparente completamente, da ultimo, a se stesso. Questo principio domina ancora incontrastato in Kant e ben oltre, e ci si chiede se sia stato sul serio superato dalle successive teorie della conoscenza. In ogni modo, gioverà osservare che queste teorie sono relative non al giudizio conoscitivo, bensì alla rappresentazione del fenomeno che noi ce ne facciamo. Dunque la diafania presupposta ha come difetto evidente la mancanza di obiettività, cioè la confusione tra la cosa-in-sé e l’idea a ciò delegata.
L’immagine della realtà fisica che ne derivò, stabilizzata nella depurazione delle qualità primarie dalle secondarie, benché anteriore a Locke, trovò in lui uno dei fautori più eloquenti. «Per discorrere delle nostre idee intelligibilmente, egli dice, sarà conveniente distinguerle in quanto esse siano idee o percezioni nelle nostre menti; o in quanto siano modificazioni della materia nei corpi che causano tali percezioni in noi» [2]. E prosegue: «Qualunque cosa la mente percepisce in se stessa, o è l’oggetto immediato della percezione, o del pensiero, o dell’intelletto, è quel che io chiamo idea; e il potere di produrre una qualsiasi idea nella nostra mente lo chiamo qualità del soggetto nel quale è tale potere» [3]. «Qualità così considerate nei corpi sono, in primo luogo, tali da essere affatto inseparabili dal corpo, in qualunque stato esso mai sia» [4]. Conseguentemente, «queste io chiamo qualità originarie o primarie del corpo, che io penso si possa osservare producano idee semplici in noi, vale a dire solidità, estensione, figura, moto o quiete, e numero» [5]. E «secondariamente, qualità tali che invero non sono negli oggetti stessi che capacità (powers) di produrre in noi varie sensazioni a partire dalle loro qualità primarie, come per esempio dalla massa, figura, struttura e movimento delle loro parti insensibili, quali colori, suoni, odori, gusti ecc. Queste io chiamo qualità secondarie» [6].
2. Tutto è mirato a stabilire delle qualità primarie, cioè puramente relative all’estensione, posizione, ordine e numero. Così una via sempre crescente di qualità secondarie (o soggettive), col progresso della scienza, si avvia a essere annoverata tra le primarie, viene cioè sottratta per principio al dominio dell’immaginazione. Ma resta il sospetto che il primario sia grigio, e non semplicemente senza colore; che l’acqua distillata sia insipida, e non puramente priva di sapore, e così via per tutte le altre primarie. Togliendo dal mondo quest’ultimo legame associativo, noi l’avremmo finalmente affrancato da quell’universo dell’affinità e simpatia universali, che secondo Foucault caratterizza l’«episteme» antico-medievale e rinascimentale [7]. Ma non è questo il punto. Tutto sta a sapere se in epoca moderna noi siamo veramente riusciti a realizzare l’obiettivo delle qualità primarie, secondo cui, come recita il Liber Sapientiae inteso alla maniera cartesiana, omnia in mensura et numero et pondere disposuisti (Sap., xi, 21).
In epoca moderna, la «rappresentazione» delle qualità, primarie e secondarie, presenta quantomeno tre diverse accezioni. In primo luogo viene quella del raffigurarsi, dell’immaginarsi l’oggetto in sé, come un tutto completo, insieme con le sue parti mancanti o non date alla percezione. È questo il senso del francese se représenter o del suo calco tedesco, sich vorstellen: che valgono appunto come rappresentazione (soggettiva) dell’interezza dell’oggetto in sé. Dunque il primo senso di rappresentazione vale come raffigurazione soggettiva di uno stato di cose supposto oggettivo. Il secondo senso di rappresentazione è quello etimologico, e vale come ri-presentazione alla memoria, come riconoscimento o nuova identificazione dell’oggetto già noto: ossia rappresentazione come re-présentation in accezione propria o letterale che, nonostante l’ausilio della costruzione verbale, non pare costituire il nucleo del significato. Infine l’ultima accezione del termine sta nel suo valore di rappresentanza, reale o simbolica, cioè nell’importanza del significante rispetto al significato reale, effettivamente distribuito nel corrispondente collettivo. Questo senso resta però un po’ periferico ed estraneo. Inoltre, volendo seguire non il criterio dell’affinità (o simpatia), ma quello moderno (o cartesiano) dell’estraneità reciproca di rappresentante e rappresentato, di nuovo l’accezione principale resta la prima.
Nella concezione cartesiana è per così dire d’obbligo tradurre mentalmente idée con représentation, e lo stesso succede con il saggio lockiano. Ma in un altro grande testo del nuovo razionalismo (o empirismo), che è la La logique ou l’art de penser di Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che è del 1662, la condizione della rappresentazione viene piegata a un’ulteriore interpretazione. Mentre in Descartes (o in Locke) domina si può dire incontrastata l’opinione che la rappresentazione sia la raffigurazione soggettiva di un fatto oggettivo, mediato dal buon senso della geometria (o dalla psicologia del senso comune), e quindi non perturbato più di tanto dalla peculiarità della proiezione, in Arnauld e Nicole si fa strada l’idea di un perturbamento del medio comunicativo dovuto a usura non incolpevole dell’acies mentis. In primo luogo, vien l’allineamento del pensiero alla rappresentazione. «Quando considero un corpo, l’idea che ne ho mi rappresenta una cosa o una sostanza, poiché lo considero come una cosa che esiste per se stessa, e che non ha affatto bisogno di alcun soggetto per esistere» [8]. L’avvertimento soggettivo si fa valere nella forma del modo, che è «una maniera di cosa, o modo, o attributo, o qualità»; così che, «quando io considero che questo corpo è rotondo, l’idea che ho della rotondità non mi rappresenta che una maniera d’essere, o un modo che io concepisco non poter sussistere naturalmente senza il corpo di cui è rotondità» [9]. «E infine, quando unendo il modo con la cosa io considero un corpo rotondo, questa idea mi rappresenta una cosa modificata» [10]. La rappresentazione del corpo coinvolge dunque la concezione della cosa o, metafisicamente, della sostanza. La ragione sta nel fatto che il pensare decade, nella condizione umana, a rappresentare. «Come Sant’Agostino spesso osserva, l’uomo dopo il peccato si è talmente abituato a non considerare che le cose corporee, le cui immagini entrano attraverso i sensi nel nostro cervello, che i più credono di non poter concepire una cosa quando non se la possono immaginare, vale a dire rappresentarsela sotto un’immagine corporale; come se non ci fosse in noi che questa sola maniera di pensare e di concepire» [11].
La rappresentazione presuntiva di qualità primarie resta debitrice dell’obbligo di spiegare obiettivamente il proprio sistema rappresentativo, che non contiene la sua generatrice, né la totalità o l’esaustione completa delle sue parti. Sono questi i paradossi della rappresentazione auto rappresentativa. Accontentarsi di una resa minore, motivata dal criterio del successo, vuol dire far risorgere la differenza fra cosa rappresentata e corpo, e abbandonare quest’ultimo all’immaginazione obnubilante dell’incapacità di pensiero. Ma pigliamo le mosse da una considerazione più accessibile.
3. Aristotele fondò la psicologia basandosi sul principio che tutte le informazioni dal mondo esterno provengono da ultimo dall’esperienza sensibile (i cinque sensi) ma subendo una modificazione non indifferente da parte degli organi di ricezione. Fondamentalmente si tratta di informazioni che provengono da di fuori, sono cioè eisdechomena o ricezioni passive; quanto noi possiamo vedere, sentire, toccare, ecc. è kat’eisdochén, ossia patogenetico. Ciò non significa che l’informazione non venga rielaborata talvolta anche profondamente; ma la corrente principale, il senso della freccia, va dal fuori al dentro e al centro della ricezione ultima non resta che tirare le somme.
La tesi di Aristotele è che le testimonianze provenienti dai sensi sono sempre vere, sopra tutto se ci si attiene a una puntualizzazione intraspecifica, visione con la vista, ascolto con l’udito, tasto con il tatto, ecc. Se ogni senso viene giudicato per quanto fornisce, non ci si può sbagliare; a meno di non volere ipotizzare un guasto completo e anormale dell’organo. Normalmente la sensazione è sempre vera. Un problema sorge con l’emergenza di un senso comune interspecifico, per cui noi giudichiamo di un oggetto in sé che, pur non essendo fornito da alcun senso particolare e specifico, coordina in sé sotto un aspetto generale o comune risultati parziali provenienti da sensi specifici. È questa la koinè aisthesis, che viene per lo più resa con «senso comune». Questa non è l’intrusione più rilevante nel sensibile di qualcosa che promana da un’altra natura, ma senza dubbio è la prima dimostrazione inoppugnabile della presenza di un fatto eterogeneo. La difficoltà che proviamo nel tradurre aisthesis con «percezione» piuttosto che con «sensazione» dipende dal volere includere o meno nell’aisthesis, nella sua conclusiva definizione di dato sensibile, il senso dell’oggetto comune o no, per attenersi invece al più rigido statuto dell’apporto sensibile specifico. Certo, è difficile stabilire una soglia che delimiti la sensazione nei confronti della percezione. E se complessivamente ha avuto più fortuna il parlare di percezione, anche per l’influsso del concetto stoico di katalepsis, ciò non fa che confermare la rilevante problematizzazione aristotelica nei confronti di una pura estesiologia.
Per costituire l’esperienza sensibile occorre per Aristotele, oltre alla pura sensazione, la memoria e l’immaginazione. La memoria è necessaria per conservare l’esperienza trascorsa, e l’immaginazione (che egli chiama phantasia) ricopre un ambito molto vasto, che comprende tutti gli schemi di coordinazione, compreso quello dell’oggetto supposto in comune. Come è noto, il problema del senso comune è largamente discusso nel De anima, ed espressamente risolto secondo la concezione inclusiva dell’immaginazione nella percezione. Ma nei Parva naturalia e precisamente nel De memoria et reminiscentia, il problema acquista un valore apodittico più pregnante. Si discute di come possiamo dire di percepire più oggetti contemporaneamente: dato che, analogamente al «senso comune», anche la koinè aisthesis in questa accezione più allargata può disporre di più oggetti simultaneamente. La risposta è che, a rigore, non possiamo percepirli nello stesso tempo; succede invece che, attraverso la mediazione di quel che poi si dirà lo «stesso tempo», noi possiamo immaginare tali oggetti in modo che conclusivamente essi risultino contemporanei. In un solo continuo intervallo di tempo non possiamo percepire che uno stesso oggetto. Ma siccome il tempo insieme con il suo correlato, che in questo caso è l’oggetto, sono in sé dei continui, tali cioè che non si saprebbe come trovare in essi alcunché di sconnesso o di slegato, deve esserci nell’anima, che concepisce tuttavia l’unità nella continuità, qualcosa di unitario. Con questo essa percepisce tutto, ma tuttavia in modo che «per ogni specie di sensazione essa ha un organo particolare» [12]. Se la vista procedesse come il tatto, che deve percepire una cosa dopo l’altra, anche 1’idea dello spazio risulterebbe un giudizio d’esperienza a posteriori, e cioè una ricaduta nella medesima.
Tempo e oggetto comune sono dunque in senso stretto non «percepiti», bensì «concepiti». Di qui, come avviene per lo spazio, che come senso a distanza può disporne in altra maniera, sulle sensazioni di sentimento in senso stretto, ha contatto, retroagisce la vertenza di una loro comune appartenenza al tempo, nello stesso oggetto. Dunque per Aristotele l’impressione dei sensi, la sensazione, nel risultato è sempre vera; mentre la facoltà di coordinazione, che comprende l’immaginazione, può essere vera o falsa. Quest’ultima è infine sinonima con la fantasia. Le fallacie dei sensi, che sono poi quelle della memoria, dipendono in definitiva da quest’ultima. Relativamente all’esperienza sensibile, dunque, la fantasia è l’unica fonte di errore.
Come si vede, Aristotele attribuisce alla fantasia quelle sintesi più o meno fittizie dei dati sensibili che altri annovererebbero, anche tra i moderni, tra i dati o le proprietà del sistema. Giova osservare che un’altra delle traduzioni dell’aristotelica phantasia è la già nota «rappresentazione». Ma non occorre dire che si tratta di una rappresentazione la cui inclusione non comprende l’estensione né la confusione con l’esplicitezza di una sintesi, o di una totalità ben spiegata.
4. Nel 1867 Franz Brentano, prima di essere assorbito dai suoi prevalenti interessi nella psicologia moderna e contemporanea, scrisse un lavoro molto intenso dedicato alla «psicologia di Aristotele» (genitivo, s’intende, oggettivo) [13]. In particolare, l’analisi era dedicata al problema del nous poietikos, che la trattazione provocava in primo piano. In questione era il suo approccio, pressoché esclusivamente intellettualistico. Il quanto di intervento dell’«intelletto agente» era demandato alla sua suprema facoltà astrattiva, donde poi l’effetto rivitalizzante. Invece Brentano percorre, nell’interpretazione, una via molto diversa, che bisogna dire distingue la vitalità dalla spiritualità, misurata dal principio di astrazione. Brentano non vide mai la questione in termini della sola «anima razionale», ma considerò rilevante per il problema l’intera attività della psyché. Questo totale dipende perciò anche dall’«anima sensibile», quindi immaginativa e concupiscibile, del totale psichico dell’uomo. Radicalizzando il criterio che spunta fuori dalla trattazione, occorre pertanto distinguere tra spiritualità e vitalità: la spiritualità concerne solamente l’eccellenza del movente, cioè il suo massimo grado d’astrazione; mentre la vitalità riguarda più propriamente l’energeia intesa come motilità, fantasia e azione, che priamente l’energeia intesa come motilità, fantasia e azione, che nulla hanno a che vedere con l’eccellenza della sua prestazione concepita in senso intellettualistico. Il nous poietikos, pertanto, è investito da un’istanza trasversale rispetto all’altra, quella della divisione nelle tre parti dell’anima, che non è più adeguata al problema. Del resto, nella situazione di cultura di fine XIX secolo, e anche oltre, nessuno avrebbe scambiato vitalità con intellettualismo. Perché la prima sarebbe pur sempre riuscita domesticabile, suscettibile di un processo di «eterealismo» (il concetto è, applicato alle civiltà, di Arnold J. Toynbee); mentre da una spiritualità esangue e priva di vitalità, come dimostrano i tanti esempi di civiltà scomparse, non si ricava più nulla.
Per quanto riguarda l’interpretazione di Aristotele, il concetto più rilevante è quello di immaginazione, o fantasia, a causa del suo richiamo a quella sensibilità, irritabilità, o concupiscenza che rendono l’anima (animale) capace di muoversi. Questo è indipendente dalla sua scala di eccellenza sul piano della mera astrazione. Tale capacità mercuriale è resa in greco dal termine phantasia (immaginazione, scarto fantastico, capacità di rappresentazione), cosa che costituisce lo specifico proprio dell’attività psichica, insieme con i suoi correlati motilici. La phantasia o immaginazione è altresì di fondamentale importanza sotto altre implicazioni: quella, come si è accennato, del senso comune, cioè della coordinazione di tutti i sensi specifici, e come ausilio per identificare la grandezza, la forma, il movimento e il tempo; inoltre il fatto, come si è visto, che si possano percepire più oggetti nello stesso tempo. E forse questo discorso varrebbe anche per lo spazio, se non ci fosse dato di vedere, come lo è per il tatto, più di un oggetto per volta. In ogni modo quanto detto vale per il rapporto tra la visione e gli altri sensi. Tutti questi fattori divengono attuali nel passaggio dall’energeia alla dynamis, o dall’integrale alla derivata. In ogni modo essi sono attivi in entrambi i processi di percepire e di muoversi, e Aristotele li chiama «oggetti generali» di sensazione: come si può anche tradurre koinà aisthetà, essendo l’oggetto stesso, quello detto «comune», l’idion aistheton. Perciò la sensazione primaria è sempre giusta o vera, giacché la prima fonte di errore nella percezione giace nel processo di coordinazione che da ultimo dipende dall’immaginazione. Perciò, benché la sensazione o percezione sia sempre vera, le immagini rappresentate dei corrispondenti stati di cose, i phantasmata, possono essere ambigui, veri o falsi, e generare abbagli. La memoria, d’altro lato, presuppone tali rappresentazioni, essendo l’impressione delle sensazioni isolate confusa e difficili da rammentare, mentre alla fonte non ci sono problemi di sorta. Così Brentano rivaluta la capacità del potere immaginativo nella filosofia aristotelica, il quale, benché pertinente alla sezione sensibile e ben temperata dell’anima, che si dice epithymetikon, svolge nel prospetto generale delle funzioni dell’anima una parte abbastanza creativa. In questo modo la fantasia può giocare un ruolo sensibilmente più libero e produrre, quantunque talvolta decettivamente, un’intera classe di entità vane. È il prezzo da pagare per aver lasciato libere le briglie del cavallo malvagio, o pandemio. Ma tali entità libere, o slegate, se non sono più in corrispondenza biunivoca con la realtà attuale, l’energeiai aistheton, possono però corrispondere a una virtuale e non identica con l’attualità, concernente inoltre il dynamei on.
Nel confronto con la successiva filosofia trascendentale, per esempio di Kant, Aristotele conserva il vantaggio, di modesta entità ma essenziale per la comprensione, di non attribuire all’emergenza di misteriosi raziocinii come quello della cosa-in-sé, del paralogismo, dell’antinomia, o dell’ideale della ragione pura, questioni che egli attribuisce abbastanza naturalmente alla «fantasia» nel senso che si è detto. La preoccupante transizione tra potenzialità e attualità è mediata da un termine (la realtà, il dynamei on) che non ha la fissità dell’estremo, l’attuale, mentre l’anima, d’altra parte, non si risolve nell’unilateralità del patogenetico (dell’eisdechomenon), ma ammette una corrente inversa tramite la funzione vitale, e quindi il problema complessivo non può risolversi senza il concorso dell’immaginazione. Da tutto ciò si ricava una lezione di moderatismo che teorizzazioni successive e più baldanzose non hanno saputo poi come giustificare.
5. Nella Quinta delle sue Logische Untersuchungen Husserl [a sinistra] sottopone a un esame quanto mai penetrante il concetto di rappresentazione [14]. Abbiamo già visto che la principale fonte dell’equivocazione che ne inficia la nozione sta nello scambio tra rappresentazione nel senso dell’oggetto rappresentato e rappresentazione intesa come atto del rappresentare, e la considerazione di Husserl non si discosta da questo appunto. Ma, anziché proseguire la critica con un’ennesima deplorazione, egli vi aggiunge una nuova argomentazione, che ne approfondisce il senso in maniera decisiva. Infatti, la principale ragione per cui la rappresentazione svolge la sua tipica equivocazione di rappresentato e di rappresentante sta nel fatto che, non essendo semiologicamente né un nome, né un giudizio, essa finisce col raccogliere le due funzioni estreme della semiosi, quella nominale e quella proposizionale. Ma procediamo con ordine seguendo la critica di Husserl.
Anche restringendo la rappresentazione a quel che oggi si chiama contenuto enunciativo, e prescindendo la altre qualificazioni, è chiaro che essa si riduce al puro e semplice stato-di-cose rappresentato. Ora questo stato-di-cose può essere affermato, oppure negato, dal giudizio. Quindi, se ci si chiede che cosa distingua la rappresentazione dal giudizio, si ottiene la risposta che il giudizio, in più della rappresentazione, contiene l’affermazione o la negazione dello stato-di-cose. Ma questo non basta. Infatti, uno stato di cose non negato, o non messo in dubbio, o non comunque modificato dalla successiva predicazione, potrebbe valere come giudizio. La differenza, secondo Husserl, consiste in un’altra caratteristica. Essa, in breve, consiste nel suo essere un atto nominale o meno.
Un atto nominale è un atto enunciativo completo, ma per essere tale bisogna che esso risulti «monoradiale» (einstrahlig) e in tal senso completamente obiettivante. Un atto che non abbia queste caratteristiche, che sia cioè «poliradiale» (mehrstrahlig) e quindi non completamente obiettivante, non è un atto nominale. Dunque, nominare non è identico con enunciare. Dobbiamo quindi distinguere «due specie di nomi o di atti nominali, quelli che al nominato trasmettono il valore di un ente, e quelli che non lo fanno». Un esempio di quest’ultimo sarebbe «un triangolo con due angoli retti: che non esiste» [15]. L’ambito della rappresentazione comprende dunque anche gli atti non tetici, cioè le rappresentazioni che si dicono propriamente nominali, ma che dovrebbero dirsi non nominali. Ma allora rappresentazioni tetiche e non tetiche sono forse specie e differenze di un unico genere? [16] Pur non avendo ancora definito in positivo che cosa sia una rappresentazione non nominale, Husserl indaga sul rapporto tra «rappresentazioni tetiche» e «giudizi predicativi». Da ciò risulta una certa confusione tra «concetti» e «proposizioni», cioè tra la Lehre vom Vorstellen e quella vom Urteilen. Nominare e predicare non sono equivalenti [17]. «Un enunciato non può mai fungere come nome, né un nome come enunciato, senza con ciò modificare la sua essenziale natura» [18]. È chiaro che «una certa modificazione […] trasforma ogni atto nominale tetico in una mera rappresentazione della stessa materia» (o enunciato) [19]. «La differenza è costituita dalla materia» (o enunciato) [20]. Ma, quel che più conta, «gli atti tetici sono gli atti del belief, del giudizio nel senso di Mill e di Brentano» [21]. In tutti questi rilievi «è la fondamentale operazione della nominalizzazione possibile, della trasformazione della poliradialità in una “nominale” monoradialità, conservando la stessa materia», ciò che rende possibile il procedimento [22].
Questo rende sufficientemente perspicua la differenza fra atti obiettivanti (o nominali) e atti non obietti vanti (forse predicativi, forse proposizionali), ma sempre dal punto di vista dei primi. Le successive precisazioni non chiariscono meglio il concetto, se non dal punto di vista dell’eliminazione dell’equivocazione.
Ma il predominante interesse di Husserl, come egli ha fatto capire fin dall’inizio, non è per il tenore enunciativo delle rappresentazioni obiettivanti, bensì per ciò che in esse si esprime con un dubbio, una domanda, un desiderio, o una qualunque altra forma di implicita, o deficitaria, teticità. In fondo il contenuto enunciativo è solo un termine ideale di presuntivo soddisfacimento obiettivo; quel che effettivamente c’è, nella prassi, è solo qualcosa che può essere piegato a tale interpretazione. Sarebbe indisponente dover addurre le prove induttive di questo atteggiamento in Husserl. Come prova decisiva, ci rivolgiamo alla dottrina delle Bedeutungskategorien, talvolta resa col concetto medievale di modi significandi, che, significativamente citata dallo stesso Husserl [23], rimanda a una dottrina antitetica rispetto alla moderna semiologia. L’antitesi è relativa al fatto che ogni semiosi presuppone la nominalizzazione, o quantomeno un’uniforme, per così dire matematica, normologia del designato. Ma questo requisito non è attuabile, né sarebbe desiderabile che lo fosse. Seguendo Husserl, infine, si capisce che l’obiettivazione degli atti rappresentativi non è, benché necessaria come presupposto, in effetti possibile. La teoria dei modi di significare sottrae ogni terreno alla riduzione non fenomenologica. Questo ha importanti conseguenze nel modo di concepire il «noumeno», cioè il puro «pensato».
6. La rappresentazione in generale riguarda l’interezza, e cioè da ultimo il mondo, come una sintesi d’insieme pratico-percettiva (con inclusione del riscontro motorio), è, vale a dire, il modo in cui noi ce lo raffiguriamo, lo pensiamo intuitivamente o, in una parola, appunto ce lo rappresentiamo. Dire di questo mondo che è comune, pratico e percettivo, con una variabilità che diagrammaticamente prende la forma di una curva gaussiana, non sarà indulgere a uno sfidante paradosso. Ma non possiamo convenire di chiamare questa specie di raffigurazione, in senso letterale, un noumenon, vale a dire quel che è domandato, richiesto ed esatto da noi di pensare di esso. Al massimo, è un pensiero che si raffigura il mondo, una parte, abbastanza fantasiosa, del «mondo della vita», o Lebenswelt. Non è, meno che mai, l’unità necessaria, intellettuale, compendi aria di ogni cosa esistente.
Il comune mondo percettivo-pratico della Lebenswelt è inoltre, in contrasto con la curva gaussiana, essenzialmente pluralistico, con una grande varietà di tipi individuali e speciali punti di vista. È improbabile che questi siano coerenti e quindi sono dispersi in particolari strutturalmente separati. È ammesso in genere che le «antinomie» di Kant dimostrino la falsità di ogni tentativo di ricavarne una sintesi dianoetica, e che la stessa concezione di un’impresa di tale sorta sia priva di senso. Ma la Lebenswelt non è il noumenon. In ogni caso, proprio all’interno di questo medio pluralistico di Lebenswelten e di rappresentazioni particolari sorge il problema, e non solo la presupposizione, dell’unità di questo tutto. Pensare del tutto che esso sia un’unità quanto meno fisica, questo sarebbe sì una specie di noumenon, una cosa-in-se-stessa puramente intellettuale (o dianoetica), che può forse esser rappresentata ma non responsabilmente pensata. Il mondo fisico è certamente esistente, ma ciò è solo un particolare. Deve inoltre essere indipendente dalla soggettività, continuo e del tutto coerente in se stesso. La stringente rigorosità di queste condizioni, che nessuno vorrà sostenere siano state poste ad hoc, restringe il mondo fisico a un vuoto quasi completo. Ed è questa la necessaria restrizione per cui questo totale costituisce una vera ipotesi e non solo una somma di spaiate rappresentazioni. La Lebenswelt, d’altra parte, e con essa la particolare rappresentazione da cui sorge, non va soggetta a rigorose condizioni di autoconsistenza. Perciò aderisce alle normali rappresentazioni un certo adesivo di immaginazione. I due mondi, quello fisico e il mondo della vita, non sono per di più coerenti tra loro.
Sosteniamo infine che la rappresentazione è per ultimo soggettiva, fantastica, e perciò inaffidabile. E che le ineliminabili rappresentazioni del mondo fisico, le quali ci impediscono di essere una mera nullità, e con ciò l’indipendenza, la coerenza e l’esistenza del tutto, devono la loro forza intuitiva alla rappresentazione. Perciò il mondo fisico è un’ingenua finzione.
Note al testo
[1] Cfr. A. Meinong, Uber Annahmen [1910], (Gesamtausgabe, vol. 4), Bearbeitet von R. Haller, Graz, 1977; E. Cassirer, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Marburg, 1902.
[2] J. Locke, An Essay concerning Human Understanding [1690], 2 voll., ed. A.C. Fraser, New York 1959 II, viii, § 7.
[3] Ibidem, II, viii, § 8.
[4] Ibidem, II, viii, § 9.
[5] Ibidem, II, viii, § 9.
[6] Ibidem, II, viii, § 10.
[7] Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses, Paris 1967.
[8] A. Arnauld & P. Nicole, La logique ou l’art de penser [l662], ed. P. Clair & F. Girdal, Paris 1965 I, ii.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, I, iv.
[12] De memoria et reminiscentia, II, 451 b.
[13] F. Brentano, Die Psychologie des Aristoteles, insbesondere seine Lehre vom “nous poietikos”, Mainz 1867.
[14] E. Husserl, Logische Untersuchungen, [1900-1901], 2 voll., II, 1, Quinta ricerca.
[15] Ibidem, p. 489.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem, pp. 488-489.
[18] Ibidem, p. 494.
[19] Ibidem, p. 499.
[20] Ibidem, p. 50l.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem, p. 502.
[23] Anche in Formale und transzendentale Logik [1929], che è l’ultima opera pubblicata da Husserl.