di Sandro Moiso
Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00
Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.
Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.
Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:
“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1
L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.
Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.
Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.
L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.
Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.
Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece
“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3
Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:
“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4
La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:
“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5
Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.
Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6
E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):
“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7
Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.
L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:
“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8
Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…