di Filippo Casaccia
“A” come atrocità,
“doppia T” come terremoto e traggedia…
Nelle teste deboli di tanti rockettari, l’accoppiata pelli e cuoio significa un edenico ritorno a un’epoca incorrotta dove regnavano purezza morale e artistica. Peccato che invece il crimine sartoriale abbia spesso accompagnato nefandezze musicali pesanti come clave trogloditiche. Durante i Sixties tanti gruppi alternativi, psych o garage prendono l’abitudine di presentarsi sul palco travestiti, assecondando la ragione sociale della band. Nero & the Gladiators, The Monks, Lord Sutch, i Barbarians (conciati però da pirati) e pure i Three Musketeers (con un povero Ritchie Blackmore mascherato da Aramis). Ma a me piacciono quelli che vengono dopo, quando l’innocenza è persa, quando il gesto è eroico nella sua stupidità. E uno dei primi a cascarci è l’ultimo che pensereste: il pianista e compositore Billy Joel.
Per il rocker chitarromane il pianoforte è strumento da scomunicare come l’incesto, l’antropofagia e il vocoder, dimenticando quali autentici metallari fossero quei matti di Little Richard o Jerry Lee Lewis. Bene: Billy Joel è un mio guilty pleasure neanche troppo occulto. Qui da noi non se lo incula nessuno e spesso viene considerato uno da musica d’ascensore, uno degno del pachidermico Barry White che ha reso popolare la sua Just The Way You Are. E no, cari, perché mica parliamo di Clayderman o Allevi, ma di uno che rock ne ha fatto, e tanto. Infatti, siccome certe cose non sono casuali, l’esordio di Billy è esattamente di hard rock cafone, ma della specie più turpe. A nome Attila, Joel e il batterista Jon Small licenziano nel 1970 un album eponimo che è un’orgia di Hammond B3 filtrato da fuzz e wah wah, guarnito da percussioni esagitate: ne risulta una baraonda sonora ignorante come poche. La cover dell’LP Attila mostra i musicisti abbigliati come due barbari capelloni, ricoperti di pellami e pelurie, ritratti tra pezzi di carne sanguinolenta. La filologia — diciamo — c’entra poco. L’album, invece, con titoli come La marcia degli Unni e Invasione del cervello, è una confusa vaccata, poco più di una curio tastieristica proto-metal, dove lo sferragliare asmatico di organo e batteria ricorda Keith Emerson dei Nice, ma da ubriaco, o altri adorabili fracassoni come i primi Uriah Heep o i Quatermass. Quando la vena di Joel s’ingentilisce, c’è anche qualche furto al Bontempi dei Doors. Questa godibile mostruosità non ebbe risonanza alcuna: il gruppo si sciolse e Billy sposò la fidanzata del batterista (creativamente utile come un metronomo). Subentrò una comprensibile depressione e il mio eroe — giuro — tentò il suicidio ingurgitando crema per lucidare il legno: quel matto di Pablo ballava il flamenco a piedi nudi sul tavolo e Joel ingurgitava il Pronto. L’esito, ovviamente e per fortuna, non fu quello sperato: giusto un clamoroso mal di pancia e una sagace uscita del pianista (“Ho passato mesi a scoreggiare sui mobili di casa”). E poi, nel giro di un anno, la conversione siderale: arriva il rock cantautoriale (splendido) di Cold Spring Harbor, un po’ come se Borghezio si iscrivesse domani a Fisica e pigliasse un Nobel l’anno prossimo. Da lì in avanti Joel ha licenziato capolavori come The Stranger (fate Scorsese in musica, ma melodico, ecco), ha fatto concerti trascinanti (Milano nel 1990, una bomba!) vendendo milionate di dischi e accompagnandosi — nonostante la faccia da cernia — a modelle da paura. Talvolta ha sparso zucchero a velo, talaltra una glassa spessa come il marmo, senza mai, però, dimenticare il rock di un tempo. E per fortuna lasciando in camerino i costumi da unno.
Cosa che non possiamo invece dire per i Manowar, storico gruppo metal del quale, francamente, non voglio parlar male. Anzi, se non altro per aver usato la voce narrante di Orson Welles su Dark Avenger (a 2.37, seguita poi da un glissando vocale a 3.42 di almeno 6 ottave) meritano la mia incondizionata stima, come quella dell’inusitato ammiratore Cristopher Lee, incallito metallaro novantenne. E siccome i fan degli Uomini della Guerra hanno la disponibilità al dialogo di un Imam cui offrite la salamella alla brace, io non li discuto per nulla, ci mancherebbe. Attivi da più di un quarto di secolo, i nostri eroi potrebbero far parte del reparto geriatria ma sono ancora in giro a far danni, ultimi difensori della fede, sempre decisi a vendere cara la pelliccia. Nei primi Ottanta non lo avrebbe detto nessuno: erano l’argomento buono di chi odiava l’heavy. Del resto il loro ideale stilistico era ispirato allo Schwarzenegger di Conan, con annesso slip peloso a intabarrare lo scroto, e questo non aiutava a ottenere grande considerazione, così come le copertine degli album con femmine poppute e svestite già in strategica posizione inginocchiata per dare soddisfazione al loro padrone. Se poi uno analizza i testi noterà la propensione ai proclami guerrafondai (intensificati dopo l’undici settembre), conditi di spadoni metaforici e lamenti epici veri e culminati nei 28 minuti di Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts del 1992 (l’agonia chiaramente riferita agli ascoltatori). Considerati i fondatori dell’epic metal, la loro carriera è all’insegna dell’intransigenza musicale, contro i propalatori di “falso metallo” e non c’è album senza un richiamo alla difesa ad oltranza del genere. E siccome la salvaguardia contro tutto e tutti sembra una mania, i Manowar hanno prodotto anche dei preservativi, giuro: i Warrior’s Shield, che immagino realizzati in cuoio nero borchiato, decisamente ritardanti per lui e vagamente irritanti per lei. Musicisti forse tecnici (non saprei, francamente) e in qualche maniera colti, adorano Wagner (“il primo metallaro”), Rossini (di cui il bassista Joey DeMaio ci ha anche lasciato una devastazione del Guglielmo Tell) e Puccini (sono responsabili di una Nessun dorma che, effettivamente, toglie il sonno). Qualche anno fa i Manowar hanno infranto il record per il concerto heavy più lungo della storia: al Kaliakra Rock Festival del 2008, in Bulgaria, hanno suonato per cinque ore e un minuto, un po’ come quando l’Occidente scarica i suoi rifiuti radioattivi in una repubblichetta compiacente dell’Est. Ad ogni modo nei giorni seguenti non si sono registrati né suicidi né casi di follia collettiva né richieste di ritorno al comunismo duro.
Detto tutto ciò, ma come posso parlar male dei Manowar?
Un altro che non ha appeso la pelliccia al chiodo è Thor, omonimo del supereroe Marvel e noioso quanto lui. Ex culturista canadese, Jon Mikl Thor conosce la notorietà dopo l’apparizione al Mervin Griffin Show, nel 1976. Su YouTube lo trovate: la scena puzza di segatura e sudore e Thor canta Action degli Sweet con un arrangiamento tra Las Vegas e Riccione. Si spoglia con consumata abilità da entertainer, fa il marpione con le vecchie carampane del pubblico, infine fa esplodere una boulle dell’acqua calda soffiandoci dentro. Splendido. Poi, col tempo, Thor smette di molestare pensionate e il colpaccio gli riesce con un pubblico più giovane, addobbandosi con prêt-à-porter primavera estate 690 d.c. e suonando hard rock e metal spiccatamente teatrali ed esibizionistici. Infila successi dal titolo improbabile come Thunder in the Tundra (quale lirica allitterazione!) e recita in film allucinanti come Rock’n’roll Nightmare dove, con una testa incredibile tipo Megaloman, affronta dei pupazzoni che al confronto quelli del telefilm giapponese erano iperrealistici. Nel suo stage show Thor spezzava coi denti barre di metallo e si rompeva i mattoni sul petto. Io lo vidi fare il numero della borsa dell’acqua calda su quella grande rete che era Videomusic che, chissà per quali strani percorsi, ne aveva ripreso un concerto in un’astrusa data italiana. Il pellicciato prendeva la borsa e ci soffiava dentro. Era il suo assolo, un po’ come il grande Beppe Maniglia, ecco. E forse di una boulle in fondo al letto ha bisogno oggi il buon vecchio Thor. Continua a imperversare negli USA e appare ancora abbastanza pneumatico, indossando un provvidenziale costume da gladiatore, col corpetto in cuoio sagomato come se sotto avesse ancora la tartaruga di addominali mentre probabilmente c’è una ventrazza tirata a lucido sollevando boccali di birra. Completano la mise elmo vichingo bicornuto (e niente parrucchino, va detto) e martellone da roteare.
Il problema è che i vichinghi veri, tipo Valhalla Rising, sono arrivati e sono migliori di lui. Si chiamano Turisas e vengono dalla Finlandia, terra di grandi piloti e architetti, ma anche di gruppi rock: grandiosi come gli Hanoi Rocks, inventivi come gli Apocalyptica o francamente inspiegabili come i Lordi, una banda di disadattati conciati come la sera di Halloween e vincitori pure dell’ignobile Eurofestival. Ma quelli son pagliacci già belli e dimenticati. I Turisas invece ci danno dentro alla grande e suonano un genere su cui gli esegeti dibattono assai: la definizione più accettata è folk metal sinfonico, ma non sarà mica pagan, viking o hummpa metal? Infatti i Turisas, nome preso dal dio finnico della guerra, fanno riferimento a un mondo di sangue e mitiche scorribande medievali. Vanno in scena pittati in faccia e ricoperti di pelli e pellicciotti, armeggiando oltre agli strumenti anche clave e spadoni, e accompagnano la doppia cassa e le roboanti schitarrate con flauto, violino e fisarmoniche campestri. La cagnara frenetica, spesso cantabile, ha infatti un inequivocabile sapore turbo folk sporcato dalle tastiere: il risultato è tra Europe e Gogol Bordello. I cori sono da ubriacatura e all’ascolto non puoi che figurarti una tavolata di normanni che bevono sidro dal teschio del nemico e palpeggiano procaci biondone addentando cacciagione sugli spiedi e progettando scorrerie col drakkar. Su questa gioiosa macchina da guerra emerge la voce del leader Mathias “Warlord” Nygård che ha la voce flautata del Saruman de Il signore degli anelli cinematografico (di nuovo Cristopher Lee, tra l’altro), però con la laringite acuta. Dopo l’eloquente Battle Metal del 2004 anche i Turisas devono una vittima sacrificale al Dio dei Dischi. È il povero chitarrista Georg Laakso che prima si piglia sei coltellate da uno sconosciuto e poi ha un incidente di macchina che lo costringe alla sedia a rotelle. La cosa non ferma la masnada che nel 2007 pubblica The Varangian Way, concept album che, per la gioia di tutti i lettori di Carmilla che hanno sicuramente in saccoccia un bel dottorato in Storia Medievale, narra la saga dei vichinghi variaghi. Ma il successo vero arriva con l’astuta riproposizione nel 2009 della Rasputin di Boney M che ballavano i primi paninari un quarto di secolo fa. Ma i tempi cambiano e dalle pellicce i Turisas sono passati a un abbigliamento non meno cacirro, ma post nucleare: Interceptor-style. Peccato. Fine.