di Giuseppe Ceddia
Marcello Introna, Castigo di Dio, Mondadori 2018, pp. 296, € 19.
La grande capacità di Introna, che un tempo definii ruffiana ma che oggi invece assurge a una nuova forma di indagine all’interno della scrittura stessa dei suoi intrecci, sta nello scovare storie che molti, troppi oserei dire, hanno dimenticato o addirittura mai conosciuto.
Gli ignari non sono soltanto cittadini dell’Italia tutta, lontani da certe dinamiche del territorio meridionale, bensì anche gli stessi abitanti della città di Bari i quali, per inconsapevolezza antropologica o semplice pigrizia intellettuale, per troppo tempo hanno ignorato casi di cronaca nera (come fu la strage ad opera di Franco Percoco, tematica “romanzata” del primo lavoro di Introna) oppure questo malsano e mefitico universo della Socia, quasi un universo parallelo, un meta-mondo, una meta-società interna alla società virtualmente e ossimoricamente reale.
Ma cos’è stata la Socia? Mi viene in mente l’incipit geniale di Edgar Allan Poe al suo magistrale racconto “The Fall of the House of Usher” che vale la pena riportare: «Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre, della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher» (E. A. Poe, Racconti, trad. it. di Maria Gallone, Rizzoli, Milano 1949, p. 295).
Ecco, la Socia era un enorme e fatiscente palazzo che, nel corso degli anni, è crollato, si è accartocciato su se stesso, mangiato un po’ dal tempo (e dai suoi colleghi agenti atmosferici) e un po’ dal vizio, quello dell’uomo che permea e si fa permeare dai luoghi in cui vive, respira, imbruttisce, si brutalizza e si annienta.
Siamo nel periodo della caduta del fascismo e dei colpi ai fianchi che subisce la Germania nazista, questo è il contesto storico in cui si sviluppa Castigo di Dio, i personaggi essenziali attorno ai quali si avvita la vicenda sono il prefetto corrotto Nicola Arpino, “Amaro” (nome d’arte di quello che sarà il re della Socia) e Luca “il Bracco”, giornalista come ce ne dovrebbero essere e come non ve ne sono più da tempo.
Ho rammentato la novella di Poe perché davvero, sia per una questione meramente estetica (il Sublime di Burke), sia per fattacci avvenuti all’interno di quelle mura, la Socia assume – in maniera se vogliamo ancora più degradata e degradante – le caratteristiche “marce” del luogo maledetto, del posto in cui il buio regna sovrano, in cui si consumano azioni che la luce del sole si offenderebbe a guardare, infanticidi e aborti, prostituzione e spaccio, puttane letterate (non certo ottimiste e di sinistra come cantava Dalla) e poveri ragazzini che hanno un corpo da uomo ma sanno di esser donna, ecco, la Socia è un luogo “gotico”, un “cronotopo” (per dirla con Bachtin), dove gli umori e gli amori dei suoi abitanti, derelitti romantici in cerca d’identità, sono frutto del luogo che abitano, è il luogo stesso – in sostanza – a farsi potere decisionale nei confronti della psicologia degli individui. Ma è vero anche il contrario, l’uomo deturpa, distrugge, annichilisce i luoghi che abita, se la sua condotta è sporca, incancrenita, marcescente.
Un bel romanzo questo di Introna, superiore al suo precedente soprattutto per una maggiore consapevolezza linguistica (anche se, in verità, la scrittura è molto semplice, elementare oserei dire), una scrittura che è in parte giornalistica e in parte cinematografica, un romanzo che avrebbe potuto tranquillamente comparire a puntate in appendice a un quotidiano (cosa erano, d’altra parte, I misteri di Parigi di Sue o la sua diretta filiazione I misteri di Napoli di Mastriani se non indagini “molecolari” di certa società, di certi bassifondi dell’animo umano?). Il romanzo di Marcello Introna è tutto questo, sarebbe nocivo svelarne la trama, il lettore deve sprofondare in queste pagine senza moralismi, deve approcciarsi al lato oscuro dell’animo, deve penetrare con la mente e con il corpo questi luoghi di sapore mefistofelicamente decadente.
Un romanzo corale nell’accezione più blasonata del termine ma anche una cronaca “romanzata” (perché la letteratura, non dimentichiamolo, è sempre finzione) di fatti assurdamente presenti nell’iter della vita umana. Immergiamoci nel mondo della Socia, rischiando di affogare tra lo sporco e il sangue, tra lo sfruttamento e le lacrime, tra le bugie e gli impossibili amori. In fin dei conti, analizzando al dettaglio queste pagine, la Socia rappresenta nel suo grigiore squallido il lato nascosto dell’uomo, quello che l’individuo stesso nega e si vergogna di possedere, un lato che – però – in fondo è anch’esso rovescio della medaglia della buona azione, è anch’esso arcaicamente presente nell’inconscio umano.
Introna ha scritto un romanzo che si legge d’un fiato, perché è inchiesta e invenzione, è amore e morte, è squisitamente poco buonista e molto realista nel non abbellire certe tematiche e, di conseguenza, il lessico che le ispira. Certo Introna non è il Curzio Malaparte de La pelle, lui lo sa e probabilmente non vuole esserlo, ne dovrebbe prendere atto Paccagnini quando menziona il nome dello scrittore di Prato nel recensire Introna sul “Corriere della Sera”.